Testo integrale con note e biblografia

Anche nel mondo del diritto del lavoro la pandemia degli ultimi due anni (nella speranza di aver sorpassato per lo meno la fase critica) ha segnato un punto di non ritorno. L’emergenza pandemica ha infatti portato con sé un eccezionale fenomeno di riorganizzazione del lavoro volto a garantire, ove possibile, la prosecuzione dell’attività lavorativa, salvaguardando il più possibile le esigenze di salute individuale e pubblica. A tale scopo lo strumento maggiormente utilizzato è stato il “lavoro agile” (utilizzando la definizione prevista dalla Legge 22 maggio 2017, n. 81), c.d. anche “Smartworking”.
I dati raccolti da varie indagini effettuate riferiscono infatti che ad inizio 2020, in pochi mesi, si è passati da circa 200.000 lavoratori impiegati stabilmente con tale modalità di lavoro ad un numero di lavoratori tra i 6.000.000 e gli 8.000.000. Nell’emergenza, quindi, il lavoro agile è divenuto di fatto la modalità “normale” per lo svolgimento della prestazione lavorativa.
Ma ci sono diversi motivi per cui il lavoro agile “emergenziale” non è il modello di lavoro agile che sarà applicato nei prossimi tempi.
Sotto un primo profilo empirico, è esperienza di molti il fatto che lavorare in via continuativa “da casa” (anche per le rigide restrizioni a cui siamo stati costretti in alcuni periodi) non sia stato un vero e proprio modello di lavoro agile. D’altra parte, per molte aziende il lavoro agile non è stata una scelta organizzativa contestuale ad un cambio di mentalità o di modalità di svolgimento del lavoro ma semplicemente una necessità dettata dall’emergenza affinché fosse preservato il proseguo delle attività. E così l’esperienza di lavoro agile nel periodo emergenziale ha portato con sé anche notevoli disomogeneità di trattamento tra lavoratori che hanno letteralmente over performato e altri che hanno avuto varie difficoltà nel rendere la propria prestazione.
Il fatto che, in molti casi, non sia stato vero lavoro agile è anche altresì motivato dal contesto normativo. Le norme emergenziali tempo per tempo introdotte dal Governo (e principalmente l’art. 90 del Decreto-Legge 19 maggio 2020, n. 34 convertito con modificazioni dalla L. 17 luglio 2020, n. 77, la cui vigenza è stata di volta in volta prorogata; da ultimo, con la proroga al 30 giugno 2022 disposta dall’art. 10 del Decreto-Legge 24 marzo 2022, n. 24), considerata l’urgenza del momento storico, hanno derogato al punto cardine della normativa in materia di lavoro agile ossia la necessità di stipulare un accordo individuale (art. 18 e 19 della Legge n. 81/2017), introducendo una sorta di lavoro agile “semplificato”.
Nel periodo emergenziale, le aziende hanno così potuto utilizzare il lavoro agile quale modalità di lavoro dei propri dipendenti, senza particolari formalità (salvo il tema della informativa da consegnare ai dipendenti per quanto concerne i rischi connessi alla salute e sicurezza) ed, in particolare, senza la necessità di concludere accordi individuali con i propri dipendenti. Così non sarà, salvo ulteriori proroghe, dopo il 30 giugno 2022: cessato il regime derogatorio dovrebbe tornare pienamente ed integralmente applicabile la legge n. 81/2017. Il condizionale è d’obbligo in quanto risultano depositati in Parlamento alcuni disegni di legge che, laddove approvati, impatterebbero in modo importante sulla disciplina della Legge n. 81/2017.
L’esperienza di quanto vissuto per effetto dell’emergenza pandemica, tuttavia, tornerà utile in quanto essa è stata foriera di aspetti, problemi e complessità che potranno offrire un solido fondamento su cui plasmare e regolamentare i nuovi modelli di lavoro agile.
Il presente commento vuole quindi evidenziare alcuni punti aperti che potranno essere ulteriormente approfonditi e variamente regolati nell’ambito dell’implementazione di modelli di lavoro agile per il periodo post emergenziale.
***
A. La fonte del “lavoro agile”: il rapporto tra contratto individuale e contrattazione collettiva
L’art. 18 della Legge n. 81/2017 definisce il lavoro agile come una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti”. Pertanto, l’accordo tra le parti (azienda e lavoratore) è sancita come il fulcro e la base giuridica per regolare tale diversa modalità per l’esecuzione della prestazione lavorativa. Il successivo art. 19 indica alcuni dei contenuti che deve prevedere tale accordo.
Ciò non esclude – anzi – che il lavoro agile potrebbe diventare un tema di primaria importanza anche nella contrattazione collettiva, sia di livello aziendale, ma anche di livello nazionale di categoria. In tal senso, e non solo in questi ultimi mesi, sono già stati conclusi diversi accordi sindacali in materia di lavoro agile (sia a livello nazionale che a livello aziendale).
La contrattazione collettiva – ad oggi - non è quindi un requisito legale per l’implementazione di modelli di lavoro agile ma potrebbe essere un elemento importante sia a livello organizzativo sia a livello di relazioni industriali. In questo senso si sono recentemente espresse le Parti Sociali che, con il Protocollo siglato in data 7 dicembre 2021, hanno auspicato una negoziazione sindacale per gestire e negoziare “quanto necessario all’attuazione [ndr. del lavoro agile] nei diversi e specifici contesti produttivi” (cfr. art. 1 del Protocollo). E, considerando i disegni di legge in discussione, non si può escludere che in un prossimo futuro vi sia una maggiore cogenza degli accordi sindacali imposta per legge.
Ad una analisi attenta della situazione, l’indicazione delle Parti sociali volta ad aprire tavoli di contrattazione sindacale in materia di lavoro agile potrebbe essere un’occasione da sfruttare sotto plurimi profili. L’accordo sindacale (soprattutto se aziendale) potrebbe consentire di normare alcune materie di carattere “collettivo” con regole adeguate per la singola realtà aziendale (limiti percentuali, profili di sicurezza sul lavoro, eventuali limiti al luogo di svolgimento della prestazione lavorativa, comportamenti disciplinarmente rilevanti, eventuali rimborsi spese, profili di cybersecurity e di protezione dei dati trattati, etc.) nonché di bilanciare correttamente alcuni interessi in gioco (ad esempio laddove si vogliano prevedere eventuali categorie da agevolare, ferme le priorità previste dalla legge – cfr. art. 18, comma 3-bis).
E vi è di più. L’accordo sindacale, come si dirà, potrebbe essere anche la sede in cui affrontare il tema (troppo spesso considerato un “tabù”) delle modalità di utilizzo e di eventuale controllo degli strumenti tecnologici e/o applicativi aziendali utilizzati dal lavoratore per svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile, ottemperando così alle previsioni dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Da ultimo, evidenziamo che alcune aziende hanno optato per una “terza via”, affiancando agli accordi individuali policy/regolamenti aziendali unilaterali con cui sono stati stabiliti criteri valevoli per tutti i lavoratori assoggettati alla disciplina del lavoro agile così da avere una base omogenea di regole su cui basare il modello organizzativo (e per consentire accordi individuali più snelli).
***
B. Il trattamento economico e normativo del lavoratore “agile”.
Principio cardine della disciplina del lavoro agile è la parità di trattamento sancita dall’art. 20 della Legge n. 81/2017 per cui al lavoratore che svolge la prestazione in modalità agile deve essere riconosciuto un trattamento “economico e normativo” complessivamente non inferiore a quello riservato al lavoratore che svolge le medesime mansioni esclusivamente all'interno dell'azienda.
Tale identità di trattamento vale di per sé per tutte le disposizioni di legge e di quelle contenute nel contratto collettivo applicato ai lavoratori.
Pertanto, ad esempio, le ferie dovranno essere preventivamente richieste ed autorizzate nelle modalità e nei termini previste dal contratto collettivo e da eventuali regolamenti e/o prassi aziendali.
La malattia dovrà essere giustificata allo stesso modo previsto per tutti i lavoratori dipendenti e gli obblighi gravanti sul dipendente in malattia sono i medesimi (ad esempio, l’obbligo di restare a casa nelle fasce di reperibilità, la comunicazione tempestiva, etc.).
Nessun dubbio vi sarà poi circa la maturazione dei permessi anche durante lo svolgimento del lavoro in modalità agile. Qualche dubbio potrebbe sorgere con riferimento alla modalità di utilizzo dei permessi brevi o a ore (ad esempio, i c.d. ROL) in particolar modo nel caso di modalità di svolgimento realmente “agili” dove il lavoratore può scegliere liberamente la collocazione oraria della propria prestazione.
Alcuni accordi collettivi, per agevolare un corretto e coerente utilizzo dei permessi e delle ferie, hanno previsto termini precisi entro i quali i dipendenti devono godere di tali trattamenti così da evitare quei casi di “accumulo” che possono poi causare difficoltà organizzative e, talvolta, finanziarie.
Molti sono poi stati gli interventi in materia di “buono pasto”. Il punto è controverso. Da una parte il buono pasto è nato con lo scopo di garantire ai dipendenti che abbiano diritto alla mensa, un servizio sostitutivo qualora questa manchi in azienda o, comunque, per sollevare il dipendente dagli oneri connessi al disagio dato dalla necessità di dover pranzare “fuori”.
Da tali premesse sembrerebbe che, nel caso di prestazione svolta in modalità agile, non vi sia una equiparazione tale da rendere doveroso il “buono pasto” (come detto la legge parla della necessità di riconoscere al lavoratore agile un trattamento non inferiore a quello “complessivamente applicato” al dipendente che lavora in azienda).
Ciò premesso vi potrebbero essere alcuni dubbi soprattutto nei casi in cui il buono pasto sia stato riconosciuto originariamente come forma di “welfare” alla generalità dei dipendenti o nei casi in cui l’organizzazione della prestazione lavorativa rimanga necessariamente soggetta ad una rigida collocazione oraria anche nelle giornate di lavoro non svolte preso la sede aziendale (sotto tale profilo si veda anche la sentenza del Tribunale di Venezia n. 3463 dell’8 luglio 2020 che ha riconosciuto la non debenza del buono pasto nel caso di lavoratore agile con libertà di collocazione oraria della prestazione lavorativa).
Ancora una volta, la contrattazione collettiva potrebbe essere la sede per sciogliere tali nodi.
***
C. Il diritto alla disconnessione
Il diritto alla disconnessione è uno dei punti più sfidanti della disciplina del “lavoro agile” e, forse, su questo tema si giocheranno le sorti di buona parte della normativa a tutela della salute nei luoghi di lavoro per quanto riguarda il “lavoro agile”.
È stata esperienza comune, nel periodo emergenziale, il fatto che il lavoro “agile” abbia creato una inevitabile interconnessione con la vita privata dei lavoratori, per lo meno per i periodi di lavoro che hanno forzato i lavoratori a svolgere l’attività da casa. Ciò rappresenta uno dei punti di maggior novità.
Sotto un primo profilo, tale commistione ha fatto emergere vari benefici in ottica di work-life balance o sotto il profilo della diversa organizzazione di altri aspetti della vita personale dei lavoratori ma, talvolta, la possibilità di lavorare senza il vincolo del luogo di lavoro ha portato ad eccessi di lavoro che, in particolare nel lungo periodo, potrebbero avere impatti negativi sia in termini organizzativi che in termini di salute personale dei lavoratori.
Le norme in materia di “disconnessione” puntano proprio a regolare tale aspetto potenzialmente critico. L’art. 19, comma 1 della Legge n. 81/2017 prevede che “l’accordo individua…le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazione tecnologiche di lavoro”.
La previsione è stata poi ulteriormente rafforzata dall’art. 2, comma 1-ter del Decreto-legge 13 marzo 2021, n. 30 convertito con modificazioni dalla L. 6 maggio 2021, n. 61 che ha individuato un vero e proprio diritto alla disconnessione “necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore”.
Sotto tale profilo, bisognerà quindi porre particolare attenzione alle “misure tecniche e organizzative” volte a salvaguardare tale diritto, così da assicurare che il diritto alla disconnessione formi oggetto non solo di astratto riconoscimento, ma anche di effettiva e concreta fruizione da parte del lavoratore. Sebbene la Legge non preveda una specifica sanzione nel caso di inottemperanza a tali disposizioni, la mancanza di disciplina e/o una disciplina lacunosa sul punto potrebbe infatti, in alcuni casi, aprire a temi di responsabilità del datore di lavoro.
Da questo punto di vista, andando a guardare il contesto internazionale, si scopre che alcune aziende hanno avviato processi virtuosi: Volkswagen, ad esempio, ha previsto l’interruzione del funzionamento dei server dopo una certa ora; BMW conteggia il tempo del lavoro effettuo al di fuori dell’orario standard di lavoro e lo restituisce in ore di permesso; ma anche nel panorama nazionale, l’accordo sindacale di Poste Italiane ha previsto una pianificazione delle riunioni che devono essere gestite con “congruo preavviso” e suggerisce l’utilizzo della funzione “ritardato recapito” nell’invio delle email aziendali.
Anche in questo caso l’auspicio è un sincero confronto tra le Parti (individuali o collettive) che porti alla implementazione di modelli virtuosi e non la mera difesa di interessi specifici parziali. Da ultimo, si evidenzia che ulteriore importanza al tema della disconnessione sembra riconosciuta nel disegno di legge in discussione ove si è addirittura ipotizzato di delegare espressamente la disciplina di tale materia alla contrattazione collettiva.
***
D. Il controllo della prestazione e il rispetto dell’art. 4 St. Lav.
La Legge n. 81/2017 prevede che l’accordo relativo alla modalità di lavoro agile debba disciplinare l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali; l’art. 21, comma 2 sul punto specifica che l’accordo individuale “individua le condotte, connesse all'esecuzione della prestazione lavorativa all'esterno dei locali aziendali, che danno luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari”.
La medesima norma, al primo comma, precisa che tale controllo deve avvenire “nel rispetto di quanto disposto dall’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni”.
Questa previsione è molto importante.
Prima di tutto essa dimostra – e anzi conferma - che il lavoratore agile è sempre un lavoratore subordinato, che non si può sottrarre ai normali (legittimi e proporzionati) controlli.
Ma c’è un’altra risultanza. Nel caso del lavoro autonomo, il committente controlla il risultato; nel caso del lavoratore subordinato, il datore di lavoro controlla la prestazione (e, se la prestazione è corretta, il datore di lavoro si assume il rischio che il risultato non sia utile).
Questi principi tradizionali potevano essere messi in dubbio, perché la legge sul lavoro agile prevede che il relativo accordo può introdurre “forme di organizzazione per fasi, cicli e obbiettivi”. Se avesse voluto sviluppare concretamente queste indicazioni, il legislatore avrebbe forse attenuato l’enfasi sul controllo della prestazione (per verificare, entro certi limiti, se il lavoratore conferisce tutte le ore previste, ovvero se segue le istruzioni di dettaglio, se è produttivo o inefficiente, ecc.) e avrebbe previsto, in chiave innovativa, controlli a valle di fasi e cicli o al raggiungimento o meno degli obbiettivi.
Ma non è stato così. La richiamata enfasi sul controllo della prestazione dimostra, come detto, che il lavoro agile non è (necessariamente) innovativo nella struttura del rapporto e che in definitiva, e all’atto pratico, la differenza fra lavoro agile e lavoro presso i locali dell’azienda rischia di rimanere solo il luogo (e qualche flessibilità di orario).
Questa valutazione, che può suonare come negativa, potrebbe però essere smentita, almeno in parte, per altra strada e cioè ad opera di innovazioni veicolate dalla contrattazione collettiva, che potrebbero attenuare il lato “controllo” e responsabilizzare il lato “risultato”.
Di fatto, ed è quel che conta, il potere, o se si vuole la facoltà, di controllo è espressamente sancita dalla legge, e sembra dar credito al ragionamento, forse retrivo, secondo il quale “poiché non ti vedo lavorare, perché non sei in ufficio, ti devo poter controllare”. Al di là di aspetti ideologici più o meno impliciti, la conclusione operativa è che il lavoratore agile non è sottratto ai controlli (legittimi e proporzionati) per il solo fatto che egli lavora all’esterno.
In realtà la disposizione ha due letture, altrettanto legittime ma difficili da coordinare: lato Azienda, essa conferma che i controlli sull’attività lavorativa sono possibili; lato lavoratore essa attesta che le modalità possono essere (almeno in linea di principio) negoziate, e comunque che i controlli o sono dichiarati e richiamati nell’accordo, o non sono possibili.
Naturalmente i controlli saranno essenzialmente tecnologici e informatici (salve residuali forme di controllo per telefono o simili).
E allora diventa di capitale importanza l’inciso della legge già citato secondo cui i controlli devono essere condotti “nel rispetto di quanto disposto dall’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni”.
L’art. 4 citato si occupa, come dice la relativa rubrica, di “Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo”, che abbiano (“anche”, come dice la norma) la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, e prevede che detti impianti e strumenti possono essere impiegati solo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere di per sé installati solo previo Accordo Sindacale.
In realtà detta normativa è una delle più intricate e controverse del diritto del lavoro italiano. Essa si basa su una serie di perifrasi che eludono una risposta chiara al quesito vero che è: “può il datore di lavoro controllare i dati informatici relativi al lavoro del personale?”. Il quesito resta senza una risposta univoca, nonostante centinaia di sentenze e di interventi dottrinali.
Non è questa la sede per affrontare il tema, ma si deve segnalare la modifica dell’art. 4 introdotta nel 2015 con la quale si è previsto che i limiti previsti dall’art. 4 (e quindi di per sé la necessità dell’Accordo Sindacale sopra citato) non valgono per gli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”. Le informazioni raccolte da tali strumenti (con tutta la difficoltà di definire quali siano tali strumenti) possono essere utilizzate “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro” (quindi anche a fini disciplinari) a condizione che sia data al lavoratore “adeguata informazione” delle modalità uso dei medesimi strumenti e della effettuazione dei controlli, con tutti gli adempimenti e i requisiti delle normative Privacy (art. 4, comma 3 St. Lav.).
Ferme le difficoltà interpretative, sembra che i punti fermi siano i seguenti:
- l’accordo per il lavoro agile deve fornire le informazioni previste sui controlli o almeno richiamare e anzi allegare le Policy generali del datore di lavoro sui controlli e sulla Privacy del rapporto di lavoro
- i controlli debbono esser trasparenti: cioè il lavoratore deve sapere che il lavoro a distanza lo espone a tali controlli o conferma tali controlli se eguali a quelli già previsti in caso di lavoro presso i locali aziendali.
***
Per quanto detto, il lavoro agile rappresenta di certo una svolta circa le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. La responsabilità di rendere tale novità adeguata alle necessità aziendali e rispettosa delle esigenze dei lavoratori è in capo alle Parti e, eventualmente, alle Parti Sociali.
La recente proroga del c.d. “regime semplificato” al 30 giugno 2022 si pone come possibilità aggiuntiva (in termini di tempo) per una ulteriore messa a punto degli strumenti negoziali e comunicazionali in materia anche considerando eventuali prossime novità normative.

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.