testo integrale con note e bibliografia

Quando si parla di salario minimo si è usi fare confronti con altri Paesi ed esprimere considerazioni di ordine sociale come il contrasto alla povertà e allo sfruttamento dei lavoratori.
In questo lavoro cercheremo di capire se vi siano altri aspetti da considerare per introdurre in Italia un salario minimo, se sia giusto farlo, come e quando farlo e quali potrebbero essere le conseguenze che possono generarsi.
Altro parrebbe essere la questione dei c.d. “contratti collettivi pirata”. Chi sono davvero e perché sono “pirateschi”? Se di primo acchito questo argomento sembra non legarsi alle decisioni in tema di salario minimo, in realtà vedremo che non è così perché il ruolo del sindacato è un elemento chiave per capire se e come risolvere il problema.
Iniziamo considerando, come dovrebbe essere ovvio, che il costo del lavoro ha un impatto economico/finanziario molto rilevante in qualsiasi azienda con dipendenti, questo influisce sui costi della produzione e quindi sui prezzi. In conseguenza, ritengo indispensabile iniziare dal comprendere qual è l’attuale scenario macroeconomico entro il quale si vorrebbe introdurre il salario minimo; questo è il primo passo per capire cosa fare e quando:
l’Occupazione: dal sito dell’Istat (https://www.istat.it/it/archivio/287643) si apprende che, mentre a giugno 2023 si è confermata la crescita dell’occupazione a fronte di una diminuzione del tasso di disoccupazione e di inattività, “A luglio 2023, dopo sette mesi di crescita, l’occupazione diminuisce di 73 mila unità rispetto al mese precedente. Il numero degli occupati scende a 23milioni 513mila, pur rimanendo superiore di 362mila a quello di luglio 2022, per effetto dell’aumento dei dipendenti permanenti e degli autonomi che ha più che compensato la diminuzione dei dipendenti a termine. Su base mensile, il tasso di occupazione scende al 61,3%, quello di disoccupazione sale al 7,6% e il tasso inattività resta stabile al 33,5%.”
Nonostante ciò, il Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione con Anpal Lavoro, segnala che vi sono 531mila assunzioni previste dalle imprese a settembre rilevando “In crescita la domanda per servizi alle persone e logistica, mentre aumenta l’incertezza per commercio e turismo” (settemila persone in più (+1,3%) rispetto a quanto programmato nello stesso periodo relativo al 2022). Dal comunicato si apprende anche che “Per l’intero trimestre settembre-novembre 2023 le assunzioni previste superano di poco 1,4 milioni, in aumento dell’1,9% rispetto all’analogo periodo del 2022.”
In contropartita la difficoltà di reperimento degli addetti risulta arrivare al 48%. In proposito viene segnalato che “Continua a crescere la difficoltà di reperimento segnalata dalle imprese che coinvolge il 48% delle assunzioni programmate, in aumento di 5 punti percentuali rispetto a dodici mesi fa, con quote comprese tra il 60% e il 70% per molte figure tecnico – ingegneristiche e di operai specializzati” rilevando che i motivi di base sono due: mancanza di candidati e preparazione inadeguata di quelli reperibili sul mercato del lavoro.
La produzione industriale: L'Istat nella rilevazione del mese di giugno 2023 (pubblicata ad agosto) mostra che l’indice destagionalizzato della produzione industriale è aumentato dello 0,5% rispetto a maggio. Nella media del secondo trimestre il livello della produzione è diminuito dell’1,2% rispetto ai tre mesi precedenti. L’indice destagionalizzato mensile, commenta l’Istat, evidenzia aumenti congiunturali per i beni strumentali (+1,5%), i beni intermedi (+0,4%) e l’energia (+0,3%) rilevando, al contempo, una flessione marginale della domanda di beni di consumo (-0,1%). A giugno 2023 l’indice complessivo è diminuito in termini tendenziali dello 0,8%; risultano cresciuti solamente i beni strumentali (+7,6%); diminuiscono, invece, i beni di consumo (-2,3%), i beni intermedi (-4,4%) e in modo più marcato l’energia (-9,4%).
L’inflazione: sempre l'Istat, nella rilevazione del mese di luglio 2023 (l’ultima pubblicata che ho a disposizione), segnala che l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (al lordo dei tabacchi) è sostanzialmente rimasto invariato su base mensile mentre presenta un incremento del 5,9% su base annua. La nota positiva è che le previsioni erano orientate verso risultati meno buoni che non si sono realizzati. L’Istat segnala, altresì, che la decelerazione del tasso di inflazione si deve principalmente al rallentamento su base tendenziale dei prezzi dei Servizi relativi ai trasporti (da +4,7% a +2,4%), dei Beni energetici non regolamentati (da +8,4% a +7,0%), mentre a spingere in controtendenza sono il rialzo dei prezzi degli Alimentari non lavorati (da +9,4% a +10,4%) e dei Servizi relativi all’abitazione (da +3,5% a +3,6%).
Il rimedio dell’innalzamento dei tassi d’interesse per diminuire il tasso d’inflazione: La reazione della BCE al crescere dell’inflazione è stata l’innalzamento dei tassi d’interesse. Questo perché aumentando il costo del denaro si tende a scoraggiare l’accesso al credito (nel contempo rendendo la vita sempre più difficile a chi è già indebitato). L’effetto macroeconomico è sostanzialmente finanziario (Milton Friedman affermava, infatti, che nel lungo periodo l’inflazione è un fenomeno puramente monetario). Piano piano circola meno moneta, si riducono i consumi e si incoraggia il risparmio, in pratica si riduce il potere di acquisto dei consumatori e di investimento delle aziende. In tal modo l’effetto è la riduzione dell’inflazione in quanto non trovando una domanda adeguata, chi offre è costretto a non aumentare i prezzi e successivamente a ridurli.
Decidere sul livello dei tassi è una questione molto delicata perché, se non gestita, e se non comunicata correttamente potrebbe scatenare effetti recessivi, soprattutto oggi considerando che ci troviamo agli inizi del post Covid (che ha determinato una rapidissima, ma temporanea, discesa a dei prezzi – deflazione –) e che la guerra in Ucraina (potente acceleratore dello shock inflattivo) non pare dare segnali di volersi risolvere in un periodo breve con conseguenze sui prezzi delle materie prime.
In uno scenario come quello sopra descritto la scienza macroeconomica pone in stretta relazione l’inflazione, il livello della produzione, la disoccupazione e, conseguentemente, il livello dei salari. Senza entrare nel dettaglio delle teorie macroeconomiche occorre sapere che disoccupazione e inflazione sono state messe in relazione inversa dalla “curva di Phillips” che (seppure nella storia non sempre si sia pienamente realizzata) spiega che al diminuire dell’inflazione aumenta la disoccupazione. Questo perché, trovandosi di fronte a una domanda di beni che decresce, le imprese iniziano a ridurre i prezzi per stimolare all’acquisto, per farlo cercano ogni modo possibile per ridurre i costi, quindi tagliano investendo meno, riducendo il numero di occupati o occupando lavoratori a salario sempre più ridotto); invece disoccupazione e produzione industriale sono state poste in relazione dalla legge di Okun, secondo la quale il tasso di disoccupazione diminuisce all’aumentare della produzione (il che è ancor più intuitivo, più produzione significa maggior bisogno di manodopera che, essendo molto ricercata, probabilmente sarà in grado di contrattare salari più elevati).
L’inflazione presenta una caratteristica molto peculiare, quella di adattarsi velocemente alle aspettative delle persone: se nei mercati ci si aspetta alta inflazione le persone e le imprese si comporteranno da subito in relazione a questa aspettativa, se ci si aspetta una discesa dell’inflazione i comportamenti conseguenti accelereranno la diminuzione. Oggi ci si aspetta una diminuzione dell’inflazione quindi questo succederà, ma va posta attenzione sulle potenziali conseguenze che in genere colpiscono maggiormente i lavoratori scarsamente qualificati e con salari bassi, che vengono espulsi con più probabilità dal mercato del lavoro.
L’aumento dei tassi di interesse, come detto, ha un effetto diretto sui saldi monetari (ossia sulla quantità di moneta in circolo) che produce un altrettanto effetto diretto sull’andamento della produzione in quanto l’offerta reale di moneta (che si sta riducendo o si ridurrà a breve) influenza la domanda, che a sua volta influenza la produzione e quindi il grado di occupazione e, quindi, di disoccupazione (ma anche di inoccupazione ossia di chi un lavoro non lo cerca nemmeno). Su questo tema gli scienziati della macroeconomia (Taylor in primis) hanno dimostrato che una politica monetaria pienamente credibile può permettere di seguire un percorso di disinflazione compatibile con una disoccupazione costante a dispetto di quanto avrebbe previsto la tradizionale curva di Phillips, che, pur tuttavia, rimane un’importante indicazione di tendenza potenziale. Quindi non tutto è perduto ma bisogna fare molta attenzione e le scelte politiche divengono davvero difficili e delicate.
Occorre, infine, osservare che i salari in vigore oggi sono, per lo più, il risultato di decisioni prese prima del cambiamento della linea di politica economica, per cui il movimento dell’inflazione nell'immediato è lento. D’altra parte, gli economisti osservano che, se la crescita nominale della moneta dovesse diminuire bruscamente, l'inflazione non riuscirebbe a ridursi alla stessa velocità, con la conseguenza che il risultato sarebbe rappresentato da una recessione. Si tratta di processi di adattamento dell’economia alle politiche economiche che richiedono tempo, anche anni. Questo perché la banca centrale non controlla direttamente né l'inflazione né la disoccupazione, quello che controlla è solo la crescita della moneta. Così, prima che il nuovo scenario possa essere considerato in sede di rideterminazione dei salari da parte della contrattazione collettiva, ma anche da parte delle aziende, la politica dovrà aver convinto tutti che sta facendo un buon lavoro. Così, siccome solo i rinnovi contrattuali che si realizzano dopo l’annuncio del cambiamento di politica monetaria saranno in grado di graduare i livelli salariali in funzione delle nuove attese, l’inflazione non potrà essere ulteriormente ridotta in tempi relativamente brevi senza costi e senza sacrifici in termini di occupazione. In pratica il rischio che stiamo correndo è che una riduzione troppo rapida della crescita della quantità di moneta potrebbe sensibilmente aumentare la disoccupazione e dare adito ad una recessione.
L’introduzione di un salario minimo in queste condizioni di incertezza, di velocità con cui l’economia si sta muovendo e con cui le Autorità Europee stanno prendendo decisioni, potrebbe non essere di aiuto né per i lavoratori “poveri” (anzi, per questi sarebbe addirittura peggiorativa) né per le imprese (tutte dato che il salario minimo varrebbe a livello Nazionale); men che meno potrebbe essere utile per i disoccupati e gli inoccupati che non ne potrebbero comunque beneficiare; potrebbe essere dannoso anche osservando che le imprese, già impegnate in mercati in cui la domanda va riducendosi, pur di ridurre i costi al fine di ridurre i prezzi (quindi l’inflazione) tenderanno ancora meno a investire in risorse umane, se non in quelle più strategiche e ad alta intensità di formazione (per questi addirittura la previsione è di aumenti salariali pur di tenerseli stretti). Senza contare il problema della probabile necessità di introduzione di un valore salariale minimo differenziata per territorio, posto che l’Italia ha una varietà di situazioni molto diverse con costi della vita e livelli salariali reali molto diversi da zona a zona.
Ammesso di voler introdurre un salario minimo, rispondere alla domanda di quale possa essere il valore corretto non è facile. Vista la complessità e le possibili conseguenze negative in termini di occupazione di una scelta sbagliata, evidentemente non può essere una semplice media aritmetica basata sui minimi salariali dei Contratti collettivi nazionali esistenti come è stato ipotizzato e nemmeno, banalmente, considerare il valore salariale più basso tra tutti i contratti vigenti.
D’altra parte, qualsiasi ragionamento oggi può essere fatto solo basandosi su previsioni, su ipotesi sapendo che, se poi si rivelassero sbagliate, potrebbe determinarsi una situazione in cui i salari potrebbero essere troppo alti affinché tutti i lavoratori siano occupati, ma a quel punto il salario minimo davvero potrebbe essere ridotto? Oppure troppo bassi creando comunque malcontento.
Infatti, esiste una relazione inversa tra occupazione e salari; il motivo, per quanto tecnicamente complesso, può spiegarsi con l’osservare che i disoccupati non partecipano ad alcuna delle trattative per la definizione del livello salariale, semmai lo fanno gli occupati per il tramite dell’attività sindacale; anche la presenza degli inoccupati ha un peso, soprattutto se il numero dei disoccupati di lungo periodo è elevato e rischia di diventare a sua volta inoccupato. Inoltre, le imprese potrebbero intravedere la convenienza di offrire ai propri lavoratori salari più bassi minacciando di sostituirli con chi è disoccupato che, per questo, ha minori pretese. Infine, poiché i lavoratori meno qualificati già hanno grosse difficoltà a trovare lavoro, la paura di perdere il posto di lavoro potrebbe indurre ad accettare inique riduzioni di salario pur di rimanere occupato, anche se la soglia potrebbe essere rappresentata dal salario minimo. Per quanto agli inoccupati, se il salario minimo non fosse ritenuto “conveniente” potrebbero continuare a non cercare un impiego mentre stimoli, ad esempio fiscali, all’assunzione e una libertà di scelta sull’offerta di salario vincolata solo alla contrattazione collettiva potrebbe indurre le aziende a offrire migliori condizioni riaccendendo la fiducia in chi l’aveva persa.
In ogni caso anche se si introducesse il salario minimo, in particolare oggi, è plausibile aspettarsi che non ci saranno effetti sull’occupazione; questa continuerà a dipendere principalmente dalla quantità di moneta nominale in circolo decisa dalla BCE poiché questa, combinata con le scelte sui tassi di interesse, determina il volume della domanda (ossia dei consumi) e quindi della produzione e degli investimenti e, conseguentemente, dell’occupazione. Per questo non va dimenticato che, dal punto di vista macroeconomico, esiste il c.d. “tasso di sacrificio” ossia il numero di punti annuali di eccesso di disoccupazione necessaria a ottenere una riduzione dell'uno per cento dell'inflazione.
L’introduzione di un salario minimo è una scelta sociale giusta, è il momento attuale che potrebbe essere quello meno propizio. Siamo nel pieno di una tempesta economica e i lavoratori in grado di offrire solo semplici prestazioni o i meno produttivi, rischiano di essere definitivamente esclusi dal mercato del lavoro in quanto il loro salario minimo potrebbe essere ritenuto dalle aziende già eccessivo rispetto alla produttività che possono ritrarre dal loro lavoro.
L’evidenza macroeconomica suggerisce che sarebbe meglio puntare prioritariamente su azioni finalizzate ad aumentare l’occupazione/contrastare la disoccupazione e, soprattutto, l’inoccupazione.
Il diritto tutela chi un lavoro ce l’ha. Moltissime volte sono stato chiamato come tecnico di parte per produrre conteggi durante procedimenti di contezioso del lavoro. Ogni volta il parametro di riferimento (anche per chi era stato utilizzato in nero) era il Contratto Collettivo Nazionale applicabile al caso di specie, indipendentemente da qualsiasi aspetto di tessera associativa dell’azienda o del lavoratore. Ho sempre notato che i lavoratori assoggettati a condizioni ingiuste venivano soddisfatti da sentenze emesse a loro tutela. L’Italia da questo punto di vista è molto ben strutturata, abbiamo una contrattazione collettiva che abbraccia praticamente tutti i settori ad esclusione del lavoro autonomo (che pur viene considerato nella determinazione degli occupati e quindi del grado di copertura della contrattazione falsando i risultati). In queste condizioni davvero serve subito un salario minimo in Italia?
L’Ordinanza della Suprema Corte del 04 novembre 2019, n. 28289 è, a mio giudizio, dirimente. Si trattava del caso di una cooperativa di trasporti che aveva applicato condizioni economiche ai propri lavoratori in modo errato, riferendosi a una contrattazione collettiva scelta principalmente in quanto più favorevole per la cooperativa. Si legge nell’Ordinanza che “Occorre preliminarmente ricordare che, ai sensi dell’art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, conv. con modif. dalla l. n. 31 del 2008, nell’ambito delle società cooperative, ove si realizzi un concorso tra contratti collettivi nazionali applicabili in un medesimo ambito, al socio lavoratore subordinato spetta un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria, quale parametro esterno e indiretto di commisurazione ai criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, previsti dall’art. 36 Cost. (cfr. Cass. 20/02/2019 n.4951 e Cass. 21/02/2019 n. 5189 oltre che già Cass. 28/08/2013 n. 19832 e 04/08/2014 n. 17583).”
E ancora: “Va poi qui ribadito che la L. n. 142 del 2001, nell’ottica di estendere ai soci lavoratori di cooperativa le tutele proprie del lavoro subordinato, ha disposto all’art. 3, comma 1, che: “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300, le società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo”. L’art. 6, comma 2, della medesima legge che, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 9, lett. f), L. n. 30 del 2003, ha poi stabilito che il rinvio ai contratti collettivi nazionali operava solo per il “trattamento economico minimo di cui all’articolo 3, comma 1” ed ha escluso che il regolamento cooperativo potesse contenere disposizioni derogatorie in peius rispetto a tale trattamento minimo.”
Quindi il lavoratore italiano può davvero godere di una seria protezione qualora sia sottoposto a condizioni non eque in termini di trattamento economico. Vediamo un ultimo passaggio dell’Ordinanza in discorso in cui si introduce il concetto di salario minimo: “Come chiarito già da questa Corte nella sentenza n. 4808 del 2019, L’art. 7 in esame, al pari dell’art. 3, L. n. 142 del 2001, richiama i trattamenti economici complessivi minimi previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative, quale parametro esterno e indiretto di commisurazione del trattamento economico complessivo ai criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, previsti dall’art. 36 Cost., di cui si impone l’osservanza anche al lavoro dei soci di cooperative. La circostanza poi che nel tempo sia stata attribuita alla contrattazione collettiva, nel settore privato e poi anche nel settore pubblico, il ruolo di fonte regolatrice nell’attuazione della garanzia costituzionale di cui all’art. 36 Cost., non impedisce al legislatore di intervenire a fissare in modo inderogabile la retribuzione sufficiente, attraverso, ad esempio, la previsione del salario minimo legale, suggerito dall’OIL come politica per garantire una “giusta retribuzione” (ed oggetto dell’art. 1, comma 7, lett. g) delle legge delega n. 183 del 2014, in questa parte rimasta inattuata) oppure, come avvenuto nella materia in esame, attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva” (cfr. Cass. ult. cit.).”
L’introduzione di un salario minimo potrebbe significare che i Giudici, in casi come quello qui sopra analizzato, potrebbero riferirsi non più al salario determinato dalla contrattazione collettiva ma a quello minimo che però potrebbe essere di livello inferiore a quello contrattuale. Si dovrebbe, pertanto, precisare che il salario minimo si applica solo ai casi in cui non vi sia un contratto collettivo, il che per l’Italia è davvero solo il caso degli autonomi (piccole partite iva individuali e collaboratori).
La contrattazione collettiva: partiamo con l’osservare che, in tema di contributi, la giurisprudenza considera che la retribuzione utile debba essere quella stabilita dalla contrattazione collettiva. Un esempio ne sia quanto stabilito il Tribunale di Ferrara in una sentenza del 26 febbraio 2019. Interessante è leggere nella sentenza di quale contrattazione si deve tenere conto. Vediamolo: la causa perteneva ad una sanzione comminata dall’Inps in materia di oneri contributivi poiché l’impresa aveva applicato un Ccnl diverso da quello sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil nel settore delle agenzie assicurative in gestione libera. In tale occasione il Tribunale stabilì che: “Spetta all’Inps dimostrare la maggiore rappresentatività su base nazionale delle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto collettivo, sulle cui retribuzioni l’Ente pretende di commisurare i contributi previdenziali (v. Cass. 23 aprile 1999, n. 4074 e Cass. 19 maggio 2003, n. 7842), non essendo la maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali o datoriali un fatto notorio ex art. 115 c.p.c., e trattandosi, tra l’altro, di un dato che può variare nel corso del tempo”.
Qui si introduce il tema della rappresentatività sindacale. Il dibattito sul tema è ancora molto acceso. Il fatto è che la questione del contenimento del costo del lavoro ha cominciato a trovare qualche riparo nell’improvvisa nascita dei c.d. “contratti pirata”. Il termine pirata è stato coniato delle Organizzazioni sindacali maggiormente diffuse e quindi dotate di maggiore rappresentatività a livello nazionale. In realtà quei contratti in genere non intervengono sui minimi tabellari esistenti mantenendo i minimi stabiliti dal contratto collettivo nazionale che definisco “principale”. Essi eseguono “limature” su altri istituti quali il numero dei permessi annui, numero delle mensilità aggiuntive, etc.
D’altra parte, non esiste nel nostro ordinamento un principio generale e inderogabile di onnicomprensività della retribuzione; assume, dunque, rilievo decisivo l'autonomia collettiva cui è riservato il compito di individuare le voci da includere nella base di calcolo (Cass. Sez. Lav. 20 novembre 2020, n. 26510).
In Italia non è vietato costituire un sindacato né un’associazione sindacale anche se poi a livello nazionale la rappresentatività (almeno nell’immediato) non è significativa. Questo poiché l’articolo 39 della Costituzione non ha ancora avuto piena attuazione, così i sindacati sono ancora privi di personalità giuridica rimanendo confinati all’essere mere associazioni non riconosciute che stipulano contratti collettivi efficaci principalmente nei confronti dei loro iscritti (anche se poi, la giurisprudenza riconosce che l’efficacia si estende alla generalità dei lavoratori anche se non aderenti al sindacato, o ai datori di lavoro per il sol fatto di applicare il trattamento previsto dal CCNL generalmente applicato al settore di appartenenza).
Allora prima del salario minimo perché non cominciare dal dare piena attuazione al dettame Costituzionale visto che la questione è in sospeso dal 1948?
Va considerato anche che vi sono molti incentivi legati all’applicazione dei CCNL, come ad esempio l’art. 51 del TUIR che concede delle esenzioni retributive, in particolare al comma 2, a patto che sia applicata la contrattazione collettiva. La contrattazione anche aziendale può essere sottoscritta tra impresa e sindacati, potendo intervenire nella modifica di alcune regole previste dalla contrattazione nazionale applicando il contenuto dell’accordo interconfederale del 2011, ma l’azienda deve applicare il Contratto Collettivo sottoscritto dalle più rappresentative sigle sindacali, non una qualsiasi.
Nonostante le agevolazioni, vi sono aziende che vi rinunciano accedendo a contratti sottoscritti con sigle poco diffuse, con un numero esiguo di iscritti sia come numero di imprese aderenti all’associazione costituita ad hoc, sia come numero di lavoratori della pari sigla sindacale costituita altrettanto ad hoc (la nostra Costituzione prevede l’indipendenza del sindacato, se dunque fosse dimostrato che la creazione della tale sigla sindacale è stata artatamente costituita, forse qualcuno potrebbe denunciare questo fatto, chissà, non mi sento di escludere la cosa).
Tutto ciò accade, a mio modo di vedere per una debolezza che si è venuta manifestando negli ultimi due decenni rispetto alla forza con la quale negli anni ’60, ‘70 e ‘80 il sindacato difendeva a spada tratta i lavoratori. I fattori che hanno condotto a questa situazione sono tanti, quello che qui mi preme di osservare è che l’introduzione di un salario minimo senza l’attuazione piena del dispositivo Costituzionale potrebbe significare lasciare irrisolta la questione della rappresentatività e, quindi, dei contratti “pirata” ma anche degli altri; così come nella delicata definizione del valore del salario minimo il sindacato, in queste condizioni, potrebbe non godere del giusto grado di attenzione e per i lavoratori sarebbe davvero un peccato.
Le nuove norme europee sul salario minimo: nel discorso sullo stato dell'Unione del settembre 2020 la presidente Von Der Leyen ha dichiarato che: "la verità è che per troppe persone il lavoro non è più remunerativo: il dumping salariale distrugge la dignità del lavoro, penalizza l'imprenditore che paga salari dignitosi e falsa la concorrenza leale nel mercato unico. Per questo motivo la Commissione presenterà una proposta legislativa per sostenere gli Stati membri nella creazione di un quadro per i salari minimi. Tutti devono poter accedere a salari minimi, che sia attraverso contratti collettivi o salari minimi legali." Ha quindi esposto che migliori condizioni di vita e di lavoro, anche attraverso salari minimi adeguati, apportano vantaggi sia ai lavoratori sia alle imprese dell'Unione. Essa si è espressa ulteriormente affermando che colmare le grandi differenze nella copertura e nell'adeguatezza dei salari minimi contribuisce a migliorare l'equità del mercato del lavoro dell'UE, a stimolare miglioramenti della produttività e a promuovere il progresso economico e sociale. La concorrenza nel mercato unico dovrebbe essere basata su innovazione e miglioramenti della produttività, come pure su standard sociali elevati.
Aggiungo che anche la questione della disparità di genere potrebbe trovare lenimento attraverso l’introduzione di un salario minimo, mentre per i c.d. NEET i risultati della loro riduzione a fronte dell’introduzione di un salario minimo sono, al momento, molto incerti, in questi casi si tratta soprattutto di una questione di formazione oggi troppo carente, più che di incentivare tramite il salario minimo, per questi giovani la questione ormai non è tanto economica quanto psicologica e sociale.
Le parole della Von Der Leyen hanno avuto seguito, così mercoledì 15.6.2022 il Parlamento europeo ha approvato, con 505 voti a favore, 92 voti contrari e 44 astensioni, una nuova legislazione sui salari minimi adeguati nell'UE.
La Ue ha precisato che nei paesi in cui meno dell'80% dei lavoratori è coperto dalla contrattazione collettiva, gli Stati membri – con la partecipazione delle parti sociali – dovranno stabilire un piano d'azione per aumentare la percentuale di lavoratori coperti e questo, ovviamente non è il nostro caso.
Invece, gli Stati membri in cui il salario minimo è già protetto esclusivamente da contratti collettivi non saranno obbligati a introdurre tali norme o a renderle universalmente applicabili e questo interessa proprio il nostro Paese. Significa che la contrattazione collettiva a livello settoriale e intersettoriale è un elemento essenziale per raggiungere salari minimi adeguati, ecco perché la piena attuazione delle leggi Costituzionali in materia deve essere prioritaria.
Conclusioni:
Il salario minimo dovrà arrivare prima o poi, è una questione di indiscutibile equità sociale.
Forse in Italia non siamo pronti sia per la situazione macroeconomica generale, sia per l’impreparazione attuale della struttura sindacale con cui è indispensabile confrontarsi, sia per alcuni aspetti strutturali e culturali.
Sicuramente andrebbe prioritariamente e finalmente attuato l’articolo 39 della Costituzione con una legge ad hoc che oggi, anche alla luce delle direttive europee, potrebbe essere scritta con la dovuta attenzione e precisione. A questo proposito va ricordata la sentenza della Corte Costituzionale n. 51 del 2015 che ha chiarito che “nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative” (si veda in proposito anche l’art. 7, D.L. n. 248 del 2007). Tali principi devono essere di stimolo affinché siano applicati pienamente in tutti i settori senza distinzione. Legislatore e sindacati devono mettere mano prima di tutto alla risoluzione di questa questione ancora aperta. A quel punto i sindacati a rappresentatività limitata, o “pirata” che dir si voglia, potrebbero non trovare più ragione di esistere e la gestione del salario minimo davvero potrà avvenire con la piena partecipazione delle Parti sociali.
Abbiamo una costituzione eccezionale, basti pensare all’articolo 35 della Costituzione per capire che il secondo comma indica l’unica via per aiutare le persone ad allontanarsi dalla povertà.
Piuttosto che l’introduzione di un salario minimo oggi, è il rafforzamento delle azioni di formazione professionale che dovrebbe essere una delle priorità del governo. Senza competenze le persone non possono lavorare e guadagnare per vivere, la mancanza di competenze incide pesantemente sullo sviluppo economico del Paese riducendo la produttività, la competitività e l’attraibilità degli investitori, aumenta la disoccupazione e peggiora l’inoccupazione. Il salario minimo non è la soluzione principale per trattenere i nostri talenti che tendono a fuggire all’estero, la soluzione è un cambio culturale, il percorso verso l’introduzione del salario minimo deve essere vista come l’occasione per farlo. D’altro canto, in questo momento, chi è preparato ha una certa forza contrattuale e, data la scarsità, spunta salari alti, mentre non si risolve il problema dei lavoratori addetti a operazioni semplici, con caratteristiche di meccanicità e ripetitività che restano i più vulnerabili sia col salario minimo che senza.
Oggi per l’Italia è, forse, troppo presto per il salario minimo, comunque la legge e l’ampia contrattazione collettiva a livello nazionale garantiscono ampie tutele a tutti i lavoratori dipendenti. Ma, anche in questo caso è la cultura che va cambiata altrimenti qualsiasi legge che stabilisca un salario minimo non potrà avere successo ove le persone continuano a non denunciare la loro condizione per paura. È qui che l’azione sindacale dovrebbe recuperare la forza degli anni ’70 e il suo potere di protezione dei più deboli e le norme sul lavoro nero dovrebbero essere inasprite (di nuovo tutto ciò suggerisce come sia necessario un lavoro di squadra tra Parti sociali e legislatori). Ne sia prova il fatto che la UE, con la nuova norma, ha introdotto l'obbligo per i paesi dell'Unione di istituire un sistema di applicazione delle regole per il salario minimo che comprenda un monitoraggio affidabile, controlli e ispezioni sui luoghi di lavoro per garantire la conformità e combattere gli abusi, gli straordinari non registrati o l'aumento dell'intensità del lavoro a fronte di buste paga riportanti falsi part-time.
Per concludere senz’altro si può dire “sì” al salario minimo, ma non ora, occorre prioritariamente creare le condizioni che al momento nel nostro Paese pare siano ancora in divenire.

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