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Il 6 marzo del 2015, ormai quasi quattro anni fa, veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.Lgs. 23/2015 (c.d. Jobs Act), il quale conteneva le disposizioni in materia di Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti. Di fatto, il provvedimento in questione, lungi dall’introdurre nel nostro ordinamento una nuova tipologia di contratto di lavoro, prevedeva una nuova regolamentazione del contratto a tempo indeterminato, con specifico riferimento gli aspetti relativi alle conseguenze dell’illegittimità dei licenziamenti intimati a tutti i lavoratori dipendenti assunti a partire dalla data del 7 marzo 2015.
Nella sua sostanza, il sistema delle c.d. tutele crescenti introdotto dal D.Lgs. 23/2015 prevedeva che, in caso di illegittimità di un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo e soggettivo comminato ad un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015, il rapporto di lavoro fosse comunque da considerarsi estinto (ad eccezione di alcuni casi residui in cui rimaneva applicabile la reintegra) e il datore di lavoro fosse condannato a pagare un'indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità (art. 3 co. 1).
Non più quindi un sistema misto come quello regolato dall’art. 18 Statuto dei Lavoratori, in cui convivevano la tutela risarcitoria e la tutela reintegratoria a seconda della tipologia di illegittimità e in base al quale la quantificazione delle indennità risarcitorie era rimessa, nell’ambito di determinati importi minimi e massimi, alla valutazione del Giudice, bensì un sistema in cui la tutela reintegratoria era residuale e limitata ad alcuni casi specifici e, in generale, la quantificazione del risarcimento spettante al lavoratore ingiustamente licenziato era sottratta alla discrezionalità dei magistrati e rimessa ad un semplice calcolo matematico, sulla base della sola anzianità di servizio.
Nel solco delle critiche sollevate nei confronti del contratto a tutele crescenti si è inserita l’ordinanza del 26 luglio 2017, con cui il Tribunale di Roma ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità della nuova disciplina introdotta dal Jobs Act.
Intanto il 13 luglio 2018, nelle more della decisione della Corte Costituzionale, veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.L. 87/2018 (c.d. Decreto Dignità), poi convertito dalla L. 96 del 9 agosto 2018, il quale, oltre a riformare la disciplina dei contratti a tempo determinato, andava a modificare l’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3 co. 1 del D.Lgs. 23/2015 in caso di licenziamento illegittimo in regime di tutele crescenti, incrementandola nella misura compresa tra un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità, pur continuando a mantenerla ancorata al parametro fisso dell’anzianità di servizio del dipendente.
E mentre ci si stava ancora interrogando sulla portata delle novità introdotte dal Decreto Dignità, ecco che il 26 settembre 2018 la Corte Costituzionale, con comunicato rilasciato dal proprio Ufficio Stampa, anticipava il deposito della propria sentenza avente ad oggetto la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Roma, rendendo noto di aver dichiarato illegittimo l’art. 3 co. 1 del D.Lgs. 23/2015, nella parte che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato in ragione della sola anzianità di servizio, in quanto tale sistema di calcolo del risarcimento sarebbe da considerarsi contrario ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasterebbe con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.
La notizia della decisione della Corte Costituzionale, seppur solo anticipata e sintetizzata in un breve comunicato stampa, ha ovviamente avuto grande risonanza e ha scatenato una ridda di commenti e ipotesi circa il suo impatto sulla tutela concretamente applicabile ai licenziamenti comminati in regime di tutele crescenti.
Addirittura un Giudice della Sezione Lavoro del Tribunale di Bari, con sentenza n. 43328 dell’11 ottobre 2018, ha anticipato il deposito della sentenza della Corte Costituzionale e, basandosi solo su quanto annunciato dal comunicato stampa e pur nella consapevolezza del fatto che le norme dichiarate incostituzionali sono disapplicate solo a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della relativa sentenza che ne ha dichiarato l’incostituzionalità, ha ritenuto di dover interpretare in maniera costituzionalmente orientata l'art. 3 co. 1 del D.Lgs. 23/2015, determinando la misura dell'indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato alla luce dei criteri stabiliti dal co. 5 dell’art. 18 St. Lav. e cioè in base all'anzianità del lavoratore, al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'attività economica, al comportamento e alle condizioni delle parti.
Finalmente in data 8 novembre 2018 è stata depositata la sentenza n. 194/2018, con cui la Corte Costituzionale ha ampiamente esplicato le motivazioni che l’hanno portata a dichiarare, come preannunciato dal comunicato stampa del 26 settembre, l’incostituzionalità del co. 1 art. 3 del D.Lgs. 23/2015, limitatamente alla parte in cui detta norma, per gli assunti in forza di un contratto di lavoro a tutele crescenti, determina l’indennizzo dovuto in caso di licenziamento illegittimo in una misura pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per ogni anno di servizio.
Volendo riassumere gli aspetti principali toccati dalla sentenza in commento, va rilevato innanzitutto che, secondo quanto ricostruito dalla Corte, il risarcimento determinato sulla base della sola anzianità di servizio violerebbe il principio costituzionale di eguaglianza, non tanto per il fatto che esso comporterebbe un trattamento differenziato tra lavoratori solo sulla base della data di assunzione (secondo la pacifica giurisprudenza della Corte, infatti, il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche), ma piuttosto sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse. L’anzianità aziendale, infatti, è un fattore sicuramente centrale nella valutazione del danno causato al lavoratore dal licenziamento illegittimo, ma non può essere considerato l’unico, dovendo necessariamente essere presi in considerazione anche altri parametri storicamente rilevanti, quali le dimensioni dell’impresa, il numero complessivo dei dipendenti occupati, il comportamento e le condizioni delle parti, tutti parametri già tenuti in considerazione da norme quali l’art. 8 L. 604/1966 e l’art. 18 Statuto dei Lavoratori.
In secondo luogo, il sistema di quantificazione dell’indennità risarcitoria introdotto dal Jobs Act contrasterebbe anche con il principio costituzionale di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità di tale indennità a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo. L’irragionevolezza del sistema risarcitorio rigido in discussione, peraltro, assumerebbe un rilievo ancora maggiore alla luce del particolare valore che la nostra Costituzione attribuisce al lavoro, quale strumento fondamentale per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana.
A ciò si aggiunga che, secondo la Corte, l’inadeguatezza dell’indennità forfetizzata sarebbe suscettibile di minare anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, il quale non sarebbe sufficientemente disincentivato dal procedere con un licenziamento pur in assenza di una valida motivazione.
A ben vedere, l’effetto primario della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza 194/2018 in commento è quello della restituzione ai Giudici del Lavoro della discrezionalità nella quantificazione dell’indennità risarcitoria spettante al lavoratore ingiustamente licenziato. Pertanto essi, chiamati a decidere sui licenziamenti comminati in regime di tutele crescenti, non saranno più legati ad un parametro rigido nella quantificazione di tale indennità, ma potranno adeguare quest’ultima a ciascun caso, secondo la propria discrezionalità e alla luce dei classici parametri già utilizzati nell’applicazione delle tutele di cui alle leggi previgenti, stando però sempre all’interno della forbice tra 6 e 36 mensilità.
In tutta evidenza, l’impatto che tale pronuncia avrà sui licenziamenti in atto sarà dirompente, considerato che essa è destinata ad avere ricadute anche nei giudizi attualmente in corso e non ancora conclusi.
Peraltro, va evidenziato un effetto paradossale della sentenza in commento: considerata anche l’estensione dei limiti dell’indennità risarcitoria operata dal Decreto Dignità, i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 potranno godere di una tutela risarcitoria potenzialmente più alta di quelli assunti prima di tale data, considerato che l’indennizzo massimo previsto dall’art. 18 è pari a 24 mensilità (27 nei casi in cui è applicabile la tutela reintegratoria), mentre quello in regime di tutele crescenti è pari a 36 mensilità.
Questo, in tutta evidenza, non farà altro che rendere più complicate le trattative tra le parti in caso di licenziamento in regime di tutele crescenti, depotenziando altresì lo strumento dell’offerta di conciliazione prevista dall’art. 6 del D.Lgs. 23/2015, con conseguente aumento del contenzioso giudiziale.

 

 

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