testo integrale con note e bibliografia

1. Rosita Zucaro (RZ) si colloca con la sua recente monografia in un filone di studi relativamente poco frequentato a dispetto della sua oggettiva e crescente importanza. Il filo rosso della ricostruzione proposta dall’autrice va ricercato – oltre che nel tentativo di restituire una impronta organica e unitaria a una disciplina frastagliata e affetta da un elevato tasso di disorganicità (più volte stigmatizzato nel corso della trattazione: v. pp. 83, 175, 181, 183, 209, 257 e 259) – nella valorizzazione del principio di effettività alla luce del secondo comma dell’art. 3 Cost. (p. 263), che non a caso RZ intende – sulla scia di Giulio Prosperetti – come «doverosa azione dello Stato nella realtà sociale per l’attuazione dei principi costituzionali» (p. 206).
Tale tentativo di ricostruzione organica – secondo «un approccio di sistema di carattere integrato» (p. 208) – è perseguito considerando tutte le componenti del diritto all’equilibrio vita-lavoro come elementi indispensabili a garantirne l’effettività in «una materia giuridica intrisa di sociale» (p. XVI): il nucleo fondativo della normativa protettiva prima solo della maternità e poi della stessa paternità e infine della genitorialità, in particolare con la disciplina gradualmente evolutasi dei congedi (capitolo primo); gli istituti di più recente emersione diretti all’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro (dal part-time per la cura genitoriale e personale al «telelavoro conciliante», sino allo smart working ex legge n. 81 del 2017), di cui si dà diffusamente conto nel secondo capitolo; l’intersezione con la disciplina antidiscriminatoria di derivazione europea, essa stessa implementata grazie alla progressiva affermazione di una compiuta logica di work-life balance nella direttiva 2019/1158 (capitolo terzo); la difficile interazione tra le prestazioni dello Stato sociale in favore della famiglia e le nuove forme di welfare contrattuale, giustamente considerate nel quarto e ultimo capitolo come aspetti fondamentali per la definizione dell’ubi consistam del diritto (pp. XXI e 205).

2. Il primo capitolo del volume, prevalentemente dedicato all’evoluzione della disciplina dei congedi, è quello nel quale RZ individua il principale tratto della trasformazione tuttora in corso di questo diritto sociale, caratterizzata dal graduale passaggio «da una conciliazione vita-lavoro improntata a effetti necessariamente sospensivi del rapporto di lavoro da parte della maternità, a un equilibrio vita-lavoro basato su scelte differenziate in virtù delle esigenze personali, che sono varie e con un diverso livello di meritevolezza» (p. 263).
Superato il tempo di quella che l’a. chiama protoconciliazione – in cui in realtà questa «non si è configurata né quale specifico interesse meritevole di tutela né tantomeno come un vero e proprio diritto del singolo, ma era solo l’effetto dell’attuazione di una serie di strumenti adottati nell’obiettivo di consentire alla donna, soggetto individuato quale svantaggiato nel contesto di riferimento (il mercato/rapporto di lavoro), di poter essere in primis madre» (p. 13) –, le prime politiche conciliative sono in realtà a lungo rimaste connotate da «una matrice protettiva volta alla tutela psicofisica della lavoratrice in quanto madre» (p. 18). È questa ancora l’impronta della legge n. 1204 del 1971, che «conferma il modello di segregazione femminile in ragione dell’attività di cura, escludendo la figura paterna da qualsiasi previsione» (p. 20). Rimane «sullo sfondo qualsiasi matrice di parità sostanziale» (p. 21), in una lettura fondamentalmente conservatrice e tradizionalista dell’art. 37 Cost., disvelata anche dal linguaggio ancora utilizzato dal legislatore: «la parola “astensione” suggellava infatti una cesura netta tra i ruoli, con un sacrificio totale di quello lavorativo, manifestato nell’obbligatorio effetto sospensivo della prestazione di lavoro» (p. 22), strumentale al divieto penalmente sanzionato di adibire al lavoro gravante sul datore.
Un primo momento di passaggio «rispetto all’unidirezionalità della legge n. 1204/1971, totalmente incentrata sulla figura materna, si ha con la legge n. 903/1977» (p. 25). Questa, pur aprendosi a una logica paritaria «in virtù del pungolo europeo» (p. 25), non abbraccia però una prospettiva propriamente o quantomeno pienamente conciliativa, ancorché nella trama della legge n. 903 del 1977 cominci «a emergere non solo la relazione affettiva fra madre e bambino, ma anche con il padre» (ibid.). Senonché all’introduzione della figura paterna non si accompagna ancora «alcuna titolarità esclusiva dei diritti previsti, atteso che ai sensi dell’art. 7, comma secondo, il padre avrebbe potuto fruirne solo a seguito della rinuncia della madre, da attestarsi con la specifica dichiarazione da presentare al proprio datore di lavoro» (p. 26).

3. Il passaggio fondamentale – «nel processo di tematizzazione ed evoluzione della conciliazione vita-lavoro all’interno dell’ordinamento italiano» (p. 27) – si compie più tardi, con la legge n. 53 del 2000, giustamente considerata da RZ il vero punto di svolta nelle politiche legislative nazionali. Per la prima volta, infatti, la finalità esplicita del legislatore è quella di promuovere – peraltro con strumenti all’epoca piuttosto innovativi (seppure rimasti per lo più inattuati) – un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione. Una legge dunque decisamente avanzata, di recepimento in melius potremmo dire della direttiva 96/34/CE, che fa compiere «un salto evolutivo» (p. 29), in particolare con l’introduzione del congedo parentale, anche nel linguaggio, atteso che «viene introdotta nell’ordinamento una disciplina volta in modo nitido al goal promozionale del raggiungimento di un equilibrio – e non di una mera conciliazione – tra i vari tempi in cui si compone la vita. Vengono così poste le basi per un superamento di una declinazione del tema solo in termini di effetti conciliativi – soprattutto a carattere sospensivo – sul rapporto di lavoro e la sua affermazione quale diritto fondamentale e principio cardine» (pp. 28-29).
Le innovazioni successive si collocano dunque nel solco tracciato dalla legge n. 53 del 2000. Lo è la previsione del congedo obbligatorio di paternità da parte della legge n. 92 del 2012 (che peraltro la contempla all’inizio in via timidamente sperimentale), come lo sono gli sviluppi dovuti poco più tardi al d.lgs. n. 80 del 2015 nel contesto del Jobs Act. Il riordino operato dal d.lgs. n. 80 del 2015 è poco coraggioso «e si pone in linea di continuità con il substrato normativo perché è per lo più un mero ritocco di normative precedenti, senza spingersi a una reale ricomposizione del tema in ottica evolutiva» (p. 35).
Cionondimeno, la linea di graduale ispessimento della logica conciliativa continua a essere coltivata dal legislatore anche negli ultimi anni, pur senza un’adeguata consapevolezza sistematica e in assenza di un organico progetto riformatore: ad esempio con le misure di flessibilizzazione del congedo di maternità (con la legge n. 148 del 2018) e poi soprattutto con la stabilizzazione nell’ordinamento (e il rafforzamento) del congedo di paternità obbligatorio quale «diritto potestativo autonomo di cui è titolare esclusivo il lavoratore padre» (p. 41).
Anche sul versante del potenziamento del congedo parentale in una prospettiva di riduzione delle disparità di genere – come ben noto ancora fortemente persistenti in Italia a sfavore delle donne – continua peraltro a giocare un importante ruolo proattivo il legislatore europeo. RZ sottolinea giustamente, al riguardo, l’importanza della direttiva 2019/1158 e semmai lamenta una sua imperfetta trasposizione da parte del d.lgs. n. 104 del 2022 (a cui viene rimproverata «la fallita armonizzazione sistemico-giuridica»: p. 179).

4. Se l’itinerario verso l’effettiva affermazione di un diritto all’equilibrio vita-lavoro fa dunque registrare progressi piuttosto lenti e faticosi sul piano più tradizionale e consolidato della disciplina dei congedi, ovvero degli istituti a effetto sospensivo sul sinallagma contrattuale, non meno problematica appare a RZ l’evoluzione della disciplina delle forme di rimodulazione flessibile del rapporto di lavoro e di flessibilità organizzativa finalizzate allo stesso scopo, che per l’a. dovrebbero invece ricevere un’attenzione e soprattutto un impulso pratico decisamente maggiore di quello loro attualmente riservato. Il secondo capitolo del volume recensito è interamente dedicato al problema dell’armonizzazione dei tempi di vita che i moduli temporali e organizzativi flessibili (dal part-time al telelavoro, sino al lavoro agile) potrebbero consentire, se attuati in modo virtuoso.
Ma così non è, come sottolinea condivisibilmente l’a., in particolare sul versante del part-time, che, lungi dall’aver favorito politiche di conciliazione come poteva essere negli auspici dello stesso legislatore europeo, in Italia è prevalentemente involontario e proprio per questo rischia di essere uno dei principali veicoli di «marginalizzazione femminile nei luoghi di lavoro» (p. 79) e di perpetuazione del gap salariale a sfavore delle donne. Non è un caso che – come ricorda RZ – a livello sovranazionale, «per la prima volta, il part-time non compare più nel novero delle modalità flessibili utili a fini conciliativi e ne è stato addirittura inserito un chiaro warning sui rischi di utilizzo di tale tipologia contrattuale» (p. 80, da cui sono omesse le citazioni interne), a tal punto che nella stessa direttiva 2019/1158 «il lavoro a tempo parziale è stato espressamente escluso come fattispecie utile in termini conciliativi, sancendo nel sistema multilivello la formalizzazione di una presa di conoscenza della rottura del legame part-time e conciliazione vita-lavoro» (ibid.).
L’a. dà peraltro un giudizio positivo sulla forma per così dire specifica e discreta di part-time esplicitamente finalizzato a esigenze di conciliazione contemplata dall’art. 8, comma 7, del d.lgs. n. 81/2015, «secondo cui il lavoratore o la lavoratrice genitori hanno diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, con una riduzione dell’orario non superiore al 50%, in luogo del congedo parentale o entro i limiti dell’eventuale periodo dello stesso ancora spettante» (p. 82). Ma si tratta di previsione di rilievo pratico a ben vedere piuttosto modesto.

5. Diversa è la prospettiva coltivata dall’a. con riguardo quantomeno alle potenzialità del lavoro agile, che, se effettivamente implementato come già consentirebbe la legge n. 81 del 2017, sarebbero notevoli anche in ottica conciliativa. Pur non nascondendo le insidie che usi impropri dello smart working potrebbero avere in termini di annullamento dei confini tra vita e lavoro (con effetti quindi antitetici a quelli avuti di mira), RZ ritiene infatti che il lavoro agile possa rappresentare la migliore «sintesi armonica» in una logica di vero equilibrio: «un po’ come in uno spartito, nel quale ogni nota contribuisce e nessuna viene sacrificata nel componimento della melodia» (p. 92).
Non saprei dire quanto questa immagine armoniosa possa dirsi ingenua o eccessivamente ottimistica: di certo anche l’a. è costretta a ridimensionare lo slancio prospettico quando passa ad analizzare una prassi aziendale ancora piuttosto limitata e dalle evidenze molto parziali (v. pp. 97 ss.).
Né va meglio sul versante delle scarse sperimentazioni in corso in cui si è contrattata – a fini in senso lato conciliativi (o, rectius, di equilibrio vita-lavoro in un’ottica di benessere organizzativo utile alla stessa produttività aziendale) – una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario: si tratta infatti di casi ancora molto radi in Italia, in cui il tessuto produttivo, fatto in netta prevalenza di piccole imprese, fatica a superare modelli tradizionali (e in definitiva scarsamente produttivi) di impiego delle «risorse umane». Anche RZ si mostra peraltro piuttosto pessimista a riguardo (v. pp. 104 ss.).

6. Nel capitolo terzo, dedicato prevalentemente alla recente evoluzione della disciplina euro-unitaria e in particolare alla trasposizione in Italia della direttiva 2019/1158, emergono riflessioni di una certa originalità e, inevitabilmente, di una qualche problematicità, alle quali è opportuno dedicare qui alcuni cenni minimamente puntuali. Prendendo spunto dalla disciplina europea, anche nella sua importante declinazione antidiscriminatoria, RZ fa, infatti, aperture molto interessanti su un duplice ordine di temi, che riguardano la natura stessa del diritto all’equilibrio vita-lavoro, tanto sul piano soggettivo quanto su quello oggettivo.
L’a. scorge nella recente evoluzione dell’ordinamento multilivello una dinamica di universalizzazione del diritto che si riflette anche in un allargamento del perimetro dei suoi contenuti oggettivi in termini di interessi protetti. Un primo spunto in tal senso è offerto dall’analisi dell’art. 25 del Codice delle pari opportunità nel testo rivisto dalla legge n. 162 del 2021 nelle more della attuazione della direttiva del 2019. Discostandosi da talune critiche dottrinali, RZ intravede nella revisione della nozione di discriminazione – «cui viene aggiunto il potenziale carattere discriminatorio anche delle condotte aventi natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro» (p. 154) – un potenziale impatto positivo sul tema del diritto all’equilibrio vita-lavoro. Questo sembra evidente soprattutto per la figura del caregiver, che «diviene soggetto compreso nel perimetro definitorio delle fattispecie discriminatorie, tenuto conto delle previsioni della direttiva» (p. 161): invero, «un’organizzazione del lavoro che non differenzi in nulla – sotto il profilo, per esempio, dell’orario o dell’individuazione dei carichi esigibili o di goal di produttività – la posizione del prestatore di assistenza andrebbe a costituire obiettivamente un trattamento idoneo a porre il medesimo in una posizione di svantaggio rispetto alla generalità dei lavoratori» (ibid.).
Ma v’è di più. Ai sensi del comma 2-bis dell’art. 25 del Codice delle pari opportunità – alla cui stregua «costituisce discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera» – possono intravedersi sviluppi inediti in termini di estensione sia dei confini soggettivi che di quelli oggettivi della tutela antidiscriminatoria, in una prospettiva che potremmo chiamare universalistico-inclusiva del diritto all’equilibrio vita-lavoro.
Secondo RZ, l’individuazione degli esatti confini nei quali inquadrare il riferimento alla cura personale diviene a questo riguardo centrale (p. 163). L’a. si spinge a immaginare che la cura di sé, cui fa riferimento la previsione normativa, «potrebbe essere intesa in un senso che travalica questioni patologiche o che si attestano al livello di vulnerabilità, nelle sue pur ampie declinazioni. Essa andrebbe infatti a connettersi a una più generale cura del “benessere proprio”, la quale rappresenterebbe una definizione in linea con il concetto più ampio di work-life balance» (p. 164). Si tratta di una prospettiva senza dubbio di un certo interesse (anche per le possibili implicazioni pratiche: ad esempio in termini di «diritto del lavoratore a richiedere un cambiamento dell’orario lavorativo», come si suggerisce a p. 165), sulla quale sarebbe stato forse opportuno un maggior approfondimento da parte dell’autrice, che si limita a pochi spunti di riflessione.

7. Di una qualche originalità ci appare anche quella parte della trattazione – racchiusa nel quarto e ultimo capitolo del libro – che RZ dedica al complesso tema del raccordo tra welfare pubblico e welfare contrattuale nella promozione di politiche di conciliazione (o di equilibrio) vita-lavoro. L’originalità di queste pagine risiede, mi sentirei di dire, proprio nel tentativo di mettere a fuoco l’intersezione tra le due dimensioni nell’effettiva affermazione del diritto sociale all’equilibrio vita-lavoro.
Sul lato delle riforme sociali di questi ultimi anni, RZ dedica giuste sottolineature positive alla indubbia importanza della introduzione dell’assegno unico e universale da parte del d.lgs. n. 230 del 2021. Questa misura di «basic income filiale di carattere strutturale e continuativo» (p. 220, nota 57), potenziata dalla legge di bilancio 2023, costituisce senza dubbio una delle più importanti riforme del welfare pubblico italiano degli ultimi lustri. È però ancora insufficiente, anche perché la via maestra dell’universalismo è continuamente insidiata da ritorni di particolarismo categoriale e micro-corporativo e da misure più o meno contingenti ed estemporanee (i vari bonus di cui RZ dà criticamente conto nel volume alle pp. 216 ss.).
In chiaro-scuro la valutazione che RZ riserva invece – e ci sentiamo anche qui in piena sintonia con l’autrice – al frastagliato universo del c.d. welfare aziendale e contrattuale, formula che racchiude le ipotesi più disparate (v. p. 238), al cui interno le tematiche conciliative hanno trovato uno spazio ancora insufficiente, nonostante le potenzialità (ad esempio quelle dischiuse dalla facoltà di conversione del salario di risultato in beni e servizi, resa strutturale e fortemente incentivata sul piano fiscale dalla legge n. 208 del 2015).

8. In conclusione, possiamo raccomandare la lettura del libro di RZ, che offre un’utile ricostruzione complessiva delle sparse discipline che concorrono a comporre l’articolato quadro degli istituti coinvolti dal diritto all’equilibrio vita-lavoro: un diritto ancora alla ricerca di una compiuta effettività, la quale potrebbe opportunamente transitare – come viene suggerito – per «un’operazione di reingegnerizzazione della materia, improntata a una ratio di riorganizzazione che conferisca ordine e sistematicità attraverso un testo organico» (p. 259).
Certo si tratta di operazione non facile, come in fin dei conti mostra proprio il volume recensito, che seppure nel meritorio sforzo di razionalizzazione, sistematizzazione e ricomposizione unitaria di questa complessa e disorganica disciplina, è costretto a seguire i tortuosi percorsi del legislatore in una trattazione diacronica che finisce per risentire, essa stessa, di questa forte disorganicità.
Ma l’impianto concettuale della ricerca di Rosita Zucaro ci sembra solido e coerente, e merita semmai di essere sviluppato lungo le piste appena segnate che ci sembrano decisamente promettenti.

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