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Incontro Giorgio (all’anagrafe Piergiorgio) Caprioli a Bergamo nella sua abitazione in una palazzina IACP del quartiere operaio di Monterosso, costruito negli anni ’60. Si tratta di un appartamento pieno di libri, luminoso e gradevole, ma assolutamente semplice, di certo nulla fa pensare a quella “casta” cui spesso vengono assimilati i sindacalisti di rilievo nazionale quale Caprioli è stato.

Ho letto numerosi suoi scritti in materia sindacale e non solo (le sue pubblicazioni affrontano diversi temi: la contrattazione, l’organizzazione, il ruolo del sindacato, il welfare aziendale, l’analisi d’impresa, …), lo ho ascoltato in alcuni convegni, molto mi hanno raccontato del suo ruolo quale Segretario generale nazionale della Fim-Cisl dal 1999 al 2008, negli anni più recenti si è dedicato alla formazione degli operatori sindacali ed allo studio e riflessione – sempre supportata da dati statistici – sulla contrattazione aziendale.

Lo scorso anno, Caprioli ha pubblicato il libro “Roma non mi piace. Dal diario di un sindacalista bergamasco” (Teramata Edizioni, Bergamo, 2019, 88 pp., € 12, www.teramata.it), in cui narra – con stile asciutto e sintetico – diversi episodi della sua vita pubblica e privata. Si tratta di 18 racconti brevi (non casualmente Caprioli ama molto Mario Rigoni Stern), messi in successione storico-esperienziale e volti a testimoniare 17 anni di lavoro sindacale a Roma dal 1992 al 2009. La sua esperienza sindacale viene, però, da più lontano, dagli anni ‘70.

Partiamo da qui. Chi è Giorgio Caprioli e come arriva a scegliere la vita del sindacalista?

La mia scelta matura già da molto giovane, al Liceo nel 1971 (Caprioli è nato nel 1952, ndr). Sono gli anni dell’”autunno caldo”: un movimento enorme, sia di operai che di studenti, e pieno di voglia di cambiare. Ero attratto dall’attività sindacale, pur non avendo una “tradizione” di famiglia: mio padre era medico e mia madre casalinga. Ho quindi scelto di frequentare la facoltà di Scienze politiche alla Statale di Milano. Finita l’università ho contattato un amico che era segretario della Fim-Cisl di Bergamo, ma lui mi ha dissuaso: “prendiamo i quadri sindacali dalla fabbrica, non dall’università”, mi disse. Ho vinto allora una borsa di studio per frequentare a Reggio Emilia un corso dedicato alle pratiche commerciali, ma proprio a Reggio Emilia ho conosciuto Giuseppe “Pippo” Morelli, uno dei protagonisti cruciali – insieme a Pierre Carniti, Luigi Macario, Franco Bentivogli ed altri – del rinnovamento della Fim e della Cisl negli Anni Settanta. Pippo Morelli ha visto in me le qualità del formatore e mi ha introdotto come responsabile formazione nella Cisl di Bergamo. Da lì inizia il mio percorso in Cisl, un percorso un po’ particolare, perché io arriverò in Segreteria nazionale Fim-Cisl, senza essere mai stato segretario generale né provinciale, né regionale.

Lei inizia la sua vita da sindacalista nei primi anni di applicazione dello Statuto dei Lavoratori, di cui come noto ricorrono nel 2020 i cinquant’anni dall’approvazione. Si può, quindi, dire, che Lei ha vissuto, nelle diverse fasi della sua vita adulta, tutto il “percorso” dello Statuto dei lavoratori. Che riflessioni può farci oggi, alla luce della sua esperienza diretta, su questa legge che ha indubbiamente dato un ruolo centrale al sindacato in azienda? L’Italia del 2020 è profondamente cambiata da quella del 1970. Quali cambiamenti auspicherebbe per una L. 300 più attuale (se ce ne sono)?

Posso esprimere alcune opinioni sui mutamenti che ho visto nel corso del tempo e sui cambiamenti che mi sembrano auspicabili, anche al di là dello Statuto.

Innanzitutto, rispetto a come è formulato lo Statuto, oggi lo riscriverei concedendo più flessibilità nell’utilizzo della manodopera, nel senso della flessibilità professionale.

Poi, anziché continuare a concentrarsi sull’art. 18 e sulle tutele contro il licenziamento individuale, io inserirei nello Statuto maggiori controlli e rigidità sui licenziamenti collettivi. Oggi per i lavoratori è bassissima la tutela nei licenziamenti collettivi, che possono essere effettuati con maggiore facilità del licenziamento individuale soprattutto nelle piccole e medie imprese sopra i 15, ma sotto i 50 dipendenti. In questo senso la distinzione presente nello Statuto (sopra i 15 dipendenti/sotto i 15 dipendenti) aveva un senso nel 1970, quando vi erano molte più imprese “grandi”. Oggi come oggi si riesce a sindacalizzare i lavoratori – e, quindi, avere una certa forza contrattuale – nelle imprese sopra i 50 dipendenti, sotto questo numero di dipendenti non è facile.

Terza questione: bisogna introdurre norme che siano meglio in grado di tutelare le forme intermedie tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, in particolare le c.d. “partite IVA mascherate” ancora prive di tutele adeguate.

Nel 1992, Lei entra nella segreteria nazionale della Fim-Cisl e, nel libro, descrive questo come un passaggio complesso dal punto di vista “umano”. Quali sono i dubbi che si affacciano in quel momento di fronte a una scelta di carriera che a prima vista potrebbe apparire scontata?

I dubbi erano relativi soprattutto alla famiglia e, in precedenza, avevo già rifiutato per questo motivo la proposta di andare al Centro Studi Cisl di Firenze giuntami da parte di Pippo Morelli. Andare a Roma è stata una scelta difficile, perché cambiava la mia vita e il mio rapporto con mia moglie Franca e mio figlio Marcello.

Nel 1999, Lei diventa Segretario nazionale della Fim Cisl e si arriva poco dopo agli eventi forse non più rilevanti dal suo punto di vista, ma certamente più noti della sua vita sindacale: i contratti collettivi separati dei metalmeccanici del 2001 e del 2003 sottoscritti da Fim-Cisl, ma non da Fiom-Cgil. Vogliamo ricordare quali erano i motivi del dissenso tra Fim e Fiom e come prese la decisione di apporre quella “pesante”, e per certi versi rivoluzionaria, firma separata?

I motivi palesi del dissenso, se visti oggi, possono sembrare futili (18.000 lire di aumento). Il motivo sottostante e reale era che, da quando ero diventato Segretario nazionale, vedevo che molte vertenze su cui la contrattazione era già sostanzialmente chiusa si bloccavano perché si attendeva che la Fiom “maturasse” con i suoi tempi la decisione e si risolvesse ad apporre la sua firma. In altri termini, senza l’assenso della Fiom non si poteva andare avanti. Ho deciso che era ora di finirla e che la Fim doveva impegnarsi a firmare da sola con tutte le conseguenze del caso. La Fim non poteva essere solo la “mosca cocchiera” che indicava la strada. Il motivo vero era che io sentivo lo stimolo a far crescere la Fim e a farla diventare un sindacato a tutto tondo, capace anche di sobbarcarsi il duro lavoro organizzativo e di mobilitazione che sostiene la firma di un accordo.

Quei contratti separati hanno segnato la rottura della mitica “unità dei metalmeccanici”, rottura poi ripropostasi in tempi più recenti, ma hanno certamente dato alla Fim-Cisl un ruolo autonomo rispetto alla Fiom-Cgil. Quali erano i tratti caratterizzanti della visione sindacale della Fim che intendeva proporre da Segretario generale nazionale?

Dal punto di vista sindacale, come già detto, volevo che la Fim diventasse un sindacato “completo”. Sul merito delle questioni, volevo un maggior peso della contrattazione aziendale, una maggior flessibilità professionale e degli orari, una maggior attenzione ai profili normativi rispetto agli aspetti meramente salariali.

Proprio al periodo in cui era Segretario generale nazionale Fim-Cisl risale uno degli episodi narrati nel libro: Lei racconta di quando Claudio Sabbatini, Segretario nazionale della Fiom-Cgil e ritenuto sindacalmente un “duro”, la definì “moderato”, espressione che nel linguaggio sindacale è quasi un insulto, mentre lei prese come un complimento. Può un bravo sindacalista essere moderato?

Si tratta ovviamente di diversi modi di interpretare il ruolo. Come lo intendeva Claudio (Sabbatini, ndr), moderato indica un modo non aggressivo e dialogante di confrontarsi con la controparte. Naturalmente ci sono altri stili di fare il sindacalista, altrettanto validi ed efficaci. Quello che però distingue un bravo sindacalista è l’amore per la classe lavoratrice nonostante i difetti della stessa, difetti che facendo il sindacalista si conoscono molto bene.

Quindi quali altre caratteristiche morali e tecniche deve avere un bravo sindacalista?

Un grande senso dell’etica, una vita dedicata al riscatto dei lavoratori. Poi una forte preparazione nel merito delle questioni, conoscere i problemi e porre le proprie argomentazioni con capacità di analisi e di proposta, sapendo di cosa si sta parlando (non casualmente Caprioli ha scritto quattro libri dedicati alla formazione dei sindacalisti: “L’analisi dei bilanci aziendali”; “Strategia d’impresa”; “L’impresa come sistema”; “L’analisi del lavoro”, tutti editi da Edizioni Lavoro tra il 1986 ed il 1988, ndr).

Arriviamo al titolo del libro. Perché Roma non le piace? Quale è il significato di questo titolo un po’ provocatorio?

Innanzitutto “Roma non mi piace” per l’abitudine dei romani a lasciare un po’ correre e non intervenire … io, da bergamasco, tendo a governare i fatti in modo un po’ più diretto ed incisivo. L’altra cosa che non mi piace è il ruolo nazionale di Roma che implica spesso, molto spesso, direi quasi sempre, una capacità “tattica”, per cui non conta la qualità individuale, ma sapersi muovere in certi ambienti, una caratteristica che non penso di avere e che invece mi sono reso conto essere molto importante per fare carriera.

Concludendo, quale è il bilancio umano e professionale di una vita da sindacalista?

Il bilancio professionale è sicuramente positivo: ho fatto il lavoro che sognavo da giovane, a livelli che non immaginavo neanche lontanamente di raggiungere, al di là di qualche delusione.

Il bilancio umano è un po’ più problematico perché soprattutto nel rapporto con mio figlio Marcello avrei forse potuto dare di più se fossi rimasto a casa.

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