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Copertina

 

Il volume analizza la professione del consulente del lavoro; approfondisce le funzioni che gli ha assegnato il legislatore, anche in ottica storica; descrive il ruolo assunto di fatto nell’implementazione delle regole giuslavoristiche e nella dinamica reale delle relazioni sindacali; verifica i presupposti perché il consulente del lavoro possa svolgere una funzione strategica ed essenziale, ben più rilevante di quella attuale riconosciutagli.
L’autore imposta l’analisi sposando l’approccio teorico che ricostruisce i fenomeni collettivi in termini ordinamentali. Attraverso un buon apparato di riferimenti alla letteratura classica, segnala che la funzione di “connettore” fra gli ordinamenti è stata tradizionalmente svolta soprattutto dai giudici, ma che la inevitabile incertezza prodotta da una giurisprudenza non uniforme e il costo relativamente più alto nell’accesso alla giustizia hanno messo in crisi tale ruolo o ne hanno almeno minato l’efficienza. Inoltre, l’autore sostiene, in termini più generali, che affidare il ruolo di connettore ad una figura appartenente all’apparato dello stato e chiamata istituzionalmente a risolvere controversie già sorte produca un effetto distorsivo sulla qualità del legame fra ordinamenti: intanto perché la sovraesposizione della giurisprudenza nella costruzione del canale di comunicazione fra ordinamenti ha messo a rischio la pariteticità che andrebbe loro riservata e quindi la stessa originarietà dell’ordinamento intersindacale, e poi perché il meccanismo di intervento opera a posteriori, ovvero a valle della rilevazione di una falla del sistema. L’autore, quindi, si domanda se il ruolo di “connettore” non possa essere svolto in modo più efficace attraverso la figura e le funzioni del consulente del lavoro, chiamato a dare attuazione concreta alla disciplina lavoristica, in una fase precedente a quella del conflitto individuale o collettivo.
I consulenti del lavoro, infatti, a differenza dei giudici, possono coordinarsi e coordinare meglio gli attori del sistema e influenzarli in modo virtuoso. L’autore quindi cerca di dimostrare che gli orientamenti normativi più recenti potrebbero agevolare questo riconoscimento.
Nel secondo capitolo viene proposta una carrellata storica che dà conto dell’evoluzione che ha condotto il semplice “tenutario” della documentazione lavoristica aziendale (ai sensi della l. 1815/1939) a divenire vero e proprio professionista consacrato da un apposito albo (l. 12/1979), svelando le ragioni che hanno reso necessaria questa figura professionale.
Di particolare interesse, perché introduce un tema affrontato in altre parti del volume, il profilo della regolamentazione dei rapporti del consulente del lavoro con le imprese, le organizzazioni datoriali e i sindacati. L’esercizio autorizzato (e poi ordinistico) della professione di consulente del lavoro, infatti, incontrava le insofferenze delle organizzazioni datoriali, molto spesso chiamate a svolgere la medesima attività di consulenza per le imprese medio-piccole, quelle cioè che non sono in grado di avere un ufficio interno specializzato a mettere in pratica una disciplina sempre più complessa. Il problema è stato infine risolto dall’art. 1 comma 4. l. 12/1979 che impone alle organizzazioni datoriali che vogliono svolgere consulenza del lavoro, di farlo tramite professionisti iscritti all’albo, anche assumendoli (l’iscrizione all’albo è impedita solo ai dipendenti pubblici e ai dipendenti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e loro patronati – oltre che ai notai ed esattori di tributi – ma non ai dipendenti del settore privato). Inoltre, si dà conto, a monte, del problema della vaga definizione dei confini dell’attività riservata al consulente del lavoro, posto che essa si colloca al confine con quella dei commercialisti, ragionieri e fiscalisti, da un lato, e degli avvocati del lavoro, dall’altro (cfr. ora il rapporto con l’art. 2 comma 6 l. 247/2012 sull’ordinamento forense, ove si afferma che è competenza esclusiva dell’avvocato l’attività di “consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività stragiudiziale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato”).
Nel terzo capitolo l’autore analizza il carattere inderogabile (in peius) della legge rispetto al contratto collettivo, non tanto per smentirne la forza (dice che l’inderogabilità è “fondamento ma anche problema”), quanto per evidenziarne la crisi e dimostrare che la funzione originaria dell’inderogabilità può essere perseguita anche attraverso un’adeguata valorizzazione della funzione del consulente del lavoro. La stessa operazione interpretativa viene proposta a proposito della questione della rappresentanza e della rappresentatività (soprattutto a proposito dei rinvii legali): concetti che i giudici possono trattate solo dal punto di vista statale, e quindi del diritto privato, ma che i consulenti del lavoro possono maneggiare con maggiore elasticità, prendendo in considerazione altri dati extra-legali già in possesso di enti pubblici, come l’INPS e il CNEL, al fine di consigliare adeguatamente le aziende sui contratti collettivi da applicare e promuovere di fatto l’estensione soggettiva di quelli maggiormente (o comparativamente) più rappresentativi. Nella seconda parte del capitolo, l’autore guarda alle funzioni fondamentali che può assolvere il consulente del lavoro, considerando, ora, il rapporto fra contratto collettivo e contratto individuale. Egli, infatti, è spesso delegato ad individuare il contratto collettivo applicabile al singolo rapporto di lavoro e a comunicarlo agli enti competenti. Dopo una disamina di dottrina e di giurisprudenza sul problema dell’inderogabilità del contratto collettivo (presupposta e, per certe leggi, espressamente prevista), si afferma che al consulente spetta il compito istituzionale e deontologico di consigliare l’applicazione del contratto collettivo inderogabile, non quello di eluderne l’efficacia e minarne l’effettività, secondo i capricci dell’impresa cliente.
Il quarto capitolo è di particolare interesse perché affronta il tema della contrattazione collettiva pirata, fenomeno problematico e pericoloso che l’autore ricostruisce senza fare sconti alla categoria, o meglio a quei consulenti del lavoro che hanno ideato e fomentato il fenomeno.
Da questo punto di vista, si cerca di dimostrare come il consulente del lavoro abbia più strumenti di altri per distinguere fra contratto collettivo di natura veramente sindacale e contratto collettivo pirata, potendo verificare se i suoi contenuti siano effettivamente “sindacali”, cioè tali da rappresentare l’esito di una negoziazione fra le forze del lavoro e quelle del capitale; senza limitarsi, come fa la magistratura, ad un confronto fra minimi retributivi per stabilire l’affidabilità dell’accordo. Anzi, l’autore segnala come il fatto che alcuni consulenti siano stati in grado di dare vita al fenomeno della contrattazione pirata, rappresenti la prova principale del fatto che la loro funzione, se correttamente interpretata, possa restituire forza ed effettività al sistema, annullando le pressioni che di fatto hanno condotto negli anni ’90 del secolo scorso all’esplosione di un fenomeno così destrutturante. Secondo l’autore, infatti, la contrattazione collettiva “ufficiale”, in certi casi, non ha tenuto conto delle specifiche esigenze di imprese piccole, marginali o periferiche, inducendole a preferire sistemi di relazioni paralleli ma fittizi.
Infine, alla luce di queste potenzialità (in parte ancora inespresse), l’autore si domanda se il consulente del lavoro non possa finalmente essere considerato un operatore non più al servizio esclusivo dell’impresa, intesa come entità egoisticamente protesa al profitto, ma come un consulente dell’impresa concepita come “bene comune”, ovvero come una comunità alla quale offrire un sostegno indipendente (come richiede anche il codice deontologico in vigore dal 2016) e funzionale a tutti gli interessi coinvolti, compresi quelli dei lavoratori. Si analizzano, a questo riguardo, le recenti discipline che danno prova della sua potenziale terzietà, a cominciare dalla disciplina che dal 2015 autorizza i consulenti a raccogliere le dimissioni da registrare con procedura telematica. Infine, si considera, dati alla mano, la tendenza dei consulenti ad essere vere e proprie parti del contratto collettivo piuttosto che semplici tecnici al servizio dei firmatari.
L’autore conclude auspicando che il sistema lavoristico e sindacale possa reggersi sul sostegno degli esperti prima che dei giudici, evidenziando come ciò sia sempre più importante vista la tendenziale aziendalizzazione della disciplina lavoristica e delle relazioni sindacali. Inoltre, egli prende posizione sostenendo che l’attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. – auspicata da tanti, con sempre maggiore insistenza – rappresenti una soluzione poco efficiente o comunque problematica e che una nuova centralità del consulente del lavoro possa essere un buon succedaneo o, quanto meno, un meccanismo utile a disinnescare i problemi principali posti da un sistema anomico.
Il volume rappresenta un contributo originale perché affianca l’analisi su una figura professionale notoriamente dedita ai profili applicativi della disciplina lavoristica ad una riflessione teorica di più ampio respiro che inquadra il ruolo del consulente del lavoro nell’orizzonte dei canali di comunicazione fra ordinamento statale e intersindacale. Si tratta di un tentativo coraggioso e al passo coi tempi, perché il tema dell’implementazione della disciplina lavoristica e della sua effettività rappresenta una preoccupazione sempre più pressante a livello nazionale e, ancora di più, a livello internazionale.

 

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