Testo integrale con note e bibliografia 

1. La crisi del fordismo e la svolta richiesta al sindacato e alla sinistra
Rileggere il saggio del 2004 di Bruno Trentin su La libertà viene prima. La libertà come posta in gioco nel conflitto sociale, approfittando della sua ripubblicazione (insieme ad altri scritti significativi ed a pagine inedite dei Diari) da parte della Firenze University Press (a cura di Sante Cruciani, Firenze 2021), è tuttora di grande stimolo per il giuslavorista.
Ciò anche se non è a lui, bensì più ampiamente al sindacato e alla sinistra (e non soltanto italiana, ma europea), che Trentin si rivolge in prima battuta. Ma sullo sfondo delle critiche e delle sollecitazioni progettuali rivolte ai suoi interlocutori naturali si possono intravedere, come in un gioco di specchi, i tormenti e i possibili percorsi di rinnovamento di un diritto del lavoro (individuale e collettivo) che già agli inizi del secolo - mentre Trentin si avviava a concludere la sua avventura intellettuale e di vita ma era ancora capace di regalarci fulgide testimonianze - era immerso in una profonda crisi di identità (dalla quale, invero, non è ancora uscito).
Va da sé che nel saggio qui commentato, come altrove, Trentin parla sempre da uomo di sinistra che non ha esitazioni a scagliarsi contro i nemici della sua prospettiva politica, a cominciare dai fautori del neo-liberismo che avevano trovato una sponda nella legislazione di riforma del mercato del lavoro del Governo Berlusconi (il Decreto Biagi è del 2003), aspramente criticata. Non meno aspra è la polemica con quella parte della sinistra (a cominciare dal blairismo, ritenuto responsabile – qui senza una particolare originalità di analisi - di non aver smantellato l’eredità del thatcherismo, oltre che di bloccare, come da sempre tutti i britannici sino alla Brexit, l’avanzamento della costruzione europea) che si era fatta irretire dalle sirene neo-liberistiche.
Ma gli strali di Trentin si indirizzano anche altrove, sì da delineare un profilo di pensatore che il timore dell’isolamento politico e intellettuale (che egli pure avverte, come testimoniano alcune dolenti pagine dei Diari) non distoglie dal cercare ostinatamente un proprio personale (nonché, per molti versi, originale) punto di approdo.
Così, convinto com’è della perdurante centralità del lavoro nella vita di ciascuno e nel tessuto sociale (ma è un lavoro che resta comunque mezzo a fine, e non fine in sé, giacché centrale – come vedremo – è la persona), Trentin se la prende con le superficiali profezie sulla fine del lavoro di moda in quel periodo (su tutte, quella di Jeremy Rifkin) nonché con misure di welfare, come il reddito minimo garantito, che prescindano dal lavoro o da una partecipazione assidua a programmi di formazione e riqualificazione professionale erogati dal servizio pubblico. Il lavoro non sta scomparendo ma si sta trasformando: questo il credo di Trentin, che i fatti (anche se riguardati dall’orizzonte più avanzato della Quarta Rivoluzione industriale, quella della digitalizzazione, mentre Trentin ha fatto in tempo a riflettere sulla Terza, quella dell’informatica) stanno fondamentalmente confermando.
Non mancano neppure battute polemiche nei confronti del settarismo di sinistra, che indulge in ricette egualitarie fuori dal tempo o in riforme centralistiche calate dall’alto, come quella francese delle 35 ore, quando non si culla in improbabili sogni di rovesciamento del sistema di economia di mercato (che Trentin in fin dei conti accetta, con il suo corollario di necessaria efficienza dell’impresa, pur chiamando a cambiarlo profondamente da dentro).
Ma se queste posizioni critiche sono, tutto sommato, prevedibili, di gran lunga più interessante è vedere come Trentin prova a inerpicarsi – da arrampicatore di razza qual era – per ardui sentieri finalizzati a delineare un progetto politico-sociale diverso, capace di indicare al sindacato, e più in generale alla sinistra, una via alternativa a quella prevalentemente battuta sino a quel momento.
Un’analisi compiuta richiederebbe a questo punto di tornare a La città del lavoro (1997, ma anch’essa ripubblicata dalla FUP nel 2014), dove Trentin ha sviluppato la sua critica contro il fordismo (risalente sino a Gramsci) e su come la sinistra – in vari luoghi detta “istituzionale” o, con una sfumatura sarcastica, “ufficiale” -, si sia fatta irretire da esso adagiandosi su un rivendicazionismo redistributivo-compensativo proteso verso un’irraggiungibile eguaglianza di risultati e abbandonando troppo presto l’ambizione di incidere in senso democratico sull’organizzazione del lavoro e sulla condizione di alienazione del lavoratore dipendente.
Ciò in contrapposizione a un’“altra” sinistra, minoritaria e spesso sotto attacco da parte della prima, che aveva saputo mantenere vivo, per quanto talora in modo massimalistico, quello spirito democratico e libertario, e quell’immedesimazione nella dimensione sociale, prima che politica (ma per Trentin il sociale era politico), che ne aveva incarnato l’anima originaria.
Di tale critica teorico-politica, e della netta scelta di campo che vi si accompagnava in Trentin, era ovviamente caratterizzante la contestualizzazione storica, rappresentata dalla crisi obiettiva del modello fordista, che Trentin aveva visto svilupparsi quanto meno dagli anni ’80 del secondo scorso, e che egli vedeva spinta, da ultimo, dalla rivoluzione informatica che stava cambiando in profondità i connotati del lavoro.
Dopo di che il problema era quello di come rispondere efficacemente a tale crisi e all’affermarsi, pur progressivo e a macchie di leopardo, di un modello nuovo, che peraltro Trentin non era solito denominare post-fordismo (oggi, forse, la digitalizzazione potrebbe togliere lui e noi da ogni impaccio, rendendone possibile una definizione in positivo).
Quella che Trentin aveva visto all’opera, in particolare nel sindacato che era il suo mondo, era una reazione di tipo esclusivamente difensivo e priva di ambizione progettuale: comprensibile, di fronte all’ondata incessante delle ristrutturazioni ed ai fenomeni di precarizzazione del lavoro portati dal dissolversi del fordismo, ma non sufficiente.
Da un lato, infatti, era sì insito nel post-fordismo (anche a causa della tentazione delle imprese di strumentalizzarlo per rilanciare il principio di autorità) il rischio della disarticolazione e dell’anomia sociale, e più al fondo quello della perdita di pregio del lavoro.
Dall’altro lato, però, il post-fordismo dischiudeva anche opportunità di non poco momento, che avrebbero potuto smentire le profezie di quella sinistra apocalittica, à la André Gorz, dalla quale Trentin amava prendere le distanze.
L’occasione che si prospettava era, segnatamente, quella di sviluppare un nuovo progetto di trasformazione economico-sociale imperniato sulla valorizzazione del lavoro delle persone e quindi sul recupero della soggettività dei lavoratori, che era stata programmaticamente sacrificata dal fordismo ma che le trasformazioni dei modelli organizzativi e produttivi in senso post-fordista rendevano possibile riscoprire. Ciò sulla premessa che la rivoluzione informatica stava facendo del lavoro, e della conoscenza applicata al lavoro, il fattore decisivo della competizione economica.
Ma se questo poteva avere l’implicazione virtuosa di far emergere le condizioni di una possibile alleanza win-win fra i lavoratori e le imprese socialmente responsabili, nondimeno Trentin, alieno com’era da qualsiasi irenismo politico-sociale, era lungi dal fare esclusivo affidamento sulla buona volontà degli imprenditori (tanto che, in un punto del saggio qui commentato, egli giunge a proporre una “legge” sulla Responsabilità Sociale d’Impresa, cioè una contraddizione in termini alla luce del volontarismo di tale formula). Il post-fordismo non aveva una traiettoria scontata, e tutto restava da conquistare. Ciò in specie per il sindacato, che poteva trovarvi l’occasione di recuperare il senso della propria missione, ma a condizione di sapersi mettere al passo con i tempi.
L’obiettivo da perseguire doveva diventare, segnatamente, quello di riequilibrare i rapporti di potere nell’impresa, intaccando lo zoccolo duro del principio di autorità. Si tratta, ricorda lo stesso Trentin, di una finalità perseguita sin dai primordi dell’azione collettiva e della legislazione del lavoro, quando si cominciarono ad attribuire ai lavoratori subordinati i primi basilari diritti di cittadinanza dentro l’impresa. Ma, per decenni, questa meta era stata in buona parte smarrita, e pur avendo conosciuto momenti di rilancio (come quello dello Statuto dei diritti dei lavoratori, stranamente non citato da Trentin in questo scritto; probabilmente perché pensava che ce ne volesse uno nuovo), è risultata alla fine soccombente, come già detto, rispetto alla linea definita “salarialista” o “risarcitoria”.
Adesso si trattava di cambiare registro, approfittando delle nuove, e potenzialmente più propizie, circostanze storiche.

2. La libertà della persona come priorità

Una delle più stimolanti intuizioni intellettuali di Trentin è quella che una svolta progettuale del tipo di quella prefigurata era possibile soltanto mettendo, al cuore del progetto, un valore forte ed a suo modo rivoluzionario per il mondo del lavoro: la libertà della persona, concepita come valore “che viene prima”, e dunque come prioritario rispetto agli obiettivi di realizzazione del benessere dei lavoratori e di sradicamento della miseria, nonché più ampiamente rispetto all’orizzonte dell’eguaglianza tenuto in prevalente considerazione dalla sinistra.

Ma questo non perché quegli obiettivi non siano anch’essi buoni e non debbano essere più perseguiti. Il fatto è che, tra essi, emerge come primus inter pares il tema della lotta contro il dominio, che Trentin scorge nello stesso patrimonio genetico del movimento dei lavoratori (le lotte operaie sono indissociabili da quelle per la democrazia anche quanto approdano a obiettivi semplificati, scrive nei Diari) e che deve essere posto al centro del progetto politico-sociale che egli reputa necessario.

Ove la novità teorica interessante è quella della germinazione di questo concetto di libertà da un pensiero classicamente di sinistra, e con non rinnegate, anche se criticamente vissute, scaturigini marxiste.

Si tratta di una libertà che ovviamente non ha nulla a che vedere con la libertà negativa del liberalismo classico, che è uno degli avversari da combattere. Ma che ne ha invece numerosi, a prescindere dalla diversità delle culture di provenienza, con quelle correnti di liberalismo sociale (liberalismo inclusivo, potrebbe dire Michele Salvati) che sono da tempo molto presenti nel panorama della filosofia politica internazionale (al di là della critica generale, rivolta alle filosofie liberali ne La città del lavoro, di aver rimosso il tema del lavoro come fonte di diritti di cittadinanza, scontando l’eredità di una tradizione di pensiero che assegnava priorità alla proprietà).

In particolare, un riferimento che pare pertinente – anche alla luce delle diverse ed adesive citazioni che Trentin gli ha dedicato nel saggio qui commentato e altrove – è al concetto di libertà (sostanziale) come capacitazione della persona, introdotto da Amartya Sen e divenuto poi la base dell’oggi ramificatissimo approccio delle capabilities.

Anzi, leggendo le seguenti parole di Trentin – “Anche per stare meglio, credo direbbe Amartya Sen, la libertà e la conoscenza vengono per prime” – viene da pensare che il nostro sia in consonanza con Sen anche nella critica da questi rivolta alle concezioni della giustizia sociale che, come quella rawlsiana ed altre, sono esclusivamente incentrate sull’eguale distribuzione di beni o di risorse.

Nella prospettiva seniana, l’eguaglianza da perseguire è quella delle capacità in quanto opportunità di scelta che debbono essere messe a disposizione di ciascuno per realizzare il proprio progetto di vita. Il che, se rapportato al rapporto di lavoro subordinato, ingloba concettualmente anche la libertà come non dominio sostenuta dalla concezione neo-repubblicana di Philip Pettit, che tende a divenire la priorità delle priorità nel contesto di un rapporto caratterizzato dal dominio, al quale deve essere contrapposto, pertanto, un solido contropotere.

Nello stesso spirito, mi sembra di poter dire, Trentin sottolinea che la dialettica tra libertà ed eguaglianza non può rimanere la stessa del fordismo, nel senso che invece di puntare alla (comunque inattingibile) eguaglianza dei risultati occorre focalizzarsi, percorrendo sino in fondo il sentiero della libertà, su un’eguaglianza delle opportunità individuali, che diversamente dalla prima sconta l’irriducibile diversità delle singole persone, e quindi mira a una “solidarietà tra diversi”. La rivisitazione dell’eguaglianza è dunque null’altro che la conseguenza della priorità assegnata alla libertà, che produce diversità (così Giovanni Mari, nella postfazione al volume).

In questo movimento, tendente verso la libertà e (come vedremo subito) i diritti, il concetto di collettivo certamente non scompare – ci sarebbe da stupirsi del contrario, in un uomo dalla storia di Trentin – ma si de-ontologizza, facendosi pragmaticamente aperto alla realtà viva delle singole persone e del loro lavoro concreto e riqualificandosi in termini di solidarietà protesa verso la meta dell’eguaglianza delle capacità.

Così concepita come libertà sostanziale in senso forte, che deve essere salvaguardata e promossa con tutti i mezzi disponibili a livello sia legislativo che di azione collettiva, la libertà trentiniana è in grado di superare le perplessità di chi potrebbe pensare che nell’orizzonte del rapporto di lavoro subordinato non ci sia per definizione spazio per la libertà. E rilevo questo pur senza condividere quelle perplessità, avendo altrove sostenuto che la teoria delle capabilities può fornire dei riferimenti normativi importanti al diritto del lavoro del presente e del prossimo futuro.

Non meno innovativo, per riprendere i temi proposti da Giovanni Mari nella postfazione al volume, è il riferimento alla persona come “grado zero” dell’azione politica e collettiva. Una persona che non soltanto rovescia la priorità tradizionalmente attribuita dalla sinistra alle condizioni sociali e materiali (delle quali non per questo ci si disinteressa, tutt’altro), ma che si staglia come entità indefinitamente aperta, aliena da qualsiasi appartenenza di classe o modello antropologico predeterminato e a maggior ragione da qualsiasi storicismo, nonché senza fondamento in quanto fondata soltanto sulla libertà delle proprie scelte.

Questa visione consente anche il recupero di un più sano rapporto con il lavoro, nel senso che esso, per quanto cruciale nell’esistenza umana, ne rappresenta “soltanto” uno dei possibili contesti. In tanto esso (inteso come lavoro concreto, e non più come lavoro astratto massificato) ha valore, in quanto sia oggetto di una scelta finalizzata all’auto-realizzazione della persona (v. ancora Mari). Ed è una scelta personale nel quadro della quale il lavoro si presenta non soltanto come strumento per la propria sussistenza, ma anche come orizzonte di senso (che è sempre un senso individuale).

Anche a quest’ultimo proposito si ribadisce il valore della libertà come presupposto fondamentale. La libertà, infatti, è intesa da Trentin non soltanto come resistenza all’oppressione sul lavoro, ma, in positivo, come condizione della creatività del lavoro, e quindi anche della sua produttività nell’economia della conoscenza, del che le stesse imprese sono chiamate a prendere atto, nella possibile complementarietà di interessi con i lavoratori, di cui si diceva sopra.

 

3. Il lavoro dei diritti

Ai fini dei compiti che si sono descritti viene pienamente in gioco il ruolo del diritto del lavoro, e più in generale dei diritti, dei quali Trentin, qui distaccandosi nettamente dal Marx critico dei “diritti borghesi”, riafferma il carattere cruciale, sia pure nella consapevolezza della loro storicità. Diritti che egli vede primariamente trainati, da sindacalista, dall’azione collettiva e contrattuale; ma essi possono evidentemente anche essere – soprattutto, aggiungo da giurista, qualora li si voglia qualificare “fondamentali”, come pure fa Trentin – di fonte legislativa.

Ciò premesso, dal punto di vista del giuslavorista interessato a riflettere sulle trasformazioni dell’identità del diritto del lavoro in questo lungo periodo di transizione, la novità dell’approccio trentiniano (sebbene non tradotto in un programma compiuto) risiede nel fatto che la concezione dei diritti è resa compatibile (o, almeno, c’è il tentativo di renderla tale) con una visione del lavoratore non considerato semplicemente come contraente debole da proteggere (anche se il bisogno di proteggerlo dagli abusi del dominio imprenditoriale c’è sempre), bensì come soggetto capace di iniziativa e di autonomia, ed eventualmente di creatività. Nel che il giuslavorista può rintracciare utili spunti per un rinnovamento del tradizionale paradigma del diritto del lavoro.

Sono i diritti che hanno il compito di allargare progressivamente gli spazi di libertà e di autorealizzazione del lavoro, riscattando la spersonalizzazione fordista. “La questione dominante – scrive Trentin nei Diari – è l’attitudine dei diritti universali a costruire solidarietà tra diverse categorie di cittadini, o per lo meno all’universalità delle categorie più deboli superando ogni dimensione corporativa, i diritti che costruiscono per la loro realizzazione una solidarietà tra diversi”.

L’idea di Trentin è che, oltre ai diritti “antichi” da salvaguardare, come quello a non patire licenziamenti arbitrari, c’è bisogno di diritti di nuova generazione, che siano rispondenti alla progettualità richiesta dalla riscrittura del patto sociale fordista: non più lavoro irreggimentato a fronte di retribuzione e stabilità, bensì retribuzione collegata a un’occupazione anche flessibile ma a fronte di un lavoro più autonomo e creativo e dell’acquisizione da parte del lavoratore di un’effettiva impiegabilità sia nell’impresa che nel mercato del lavoro.

In questo ordine di idee, un diritto che campeggia in modo particolare, nelle proposte di Trentin, è quello alla formazione permanente, da garantire in sinergia tra imprese e capillari servizi pubblici sul territorio. Esso è inteso come un basilare diritto di libertà, atteso che questa non si può dare senza conoscenza, secondo un nesso che Trentin ha particolarmente enfatizzato nella Lectio doctoralis veneziana del 2002 su Lavoro e conoscenza (anch’essa raccolta nel volume della FUP).

La formazione è intesa come componente essenziale della creazione di quell’impiegabilità che, in una con la creazione di un “welfare effettivamente universale”, è concepita come la vera risposta alla precarizzazione altrimenti recata in dote dal post-fordismo. Mi esimo dal soffermarmi, peraltro, sulle note carenze e manchevolezze che hanno caratterizzato, quantomeno nell’esperienza italiana, la realizzazione della pars construens (la “nuova sicurezza” evocata da Trentin nella Lectio poc’anzi citata) di quello che è poi divenuto il programma europeo della flexicurity.

Un’enfasi non minore è dedicata da Trentin ai diritti di controllo sull’organizzazione, vale a dire al diritto ad essere informati e consultati preventivamente, con passaggi di partecipazione seppure non deliberativa (Trentin non pare interessato a varcare il confine della distinzione tra impresa e lavoratori), sulle principali scelte imprenditoriali in tema di organizzazione del lavoro e di governo dei tempi di lavoro.

Si ribadisce altresì l’importanza del diritto a una pari retribuzione a parità di lavoro, al di fuori di regimi derogatori e precarizzanti che erano emersi o stavano per emergere nella legislazione di allora. A parte questo aspetto, il tema retributivo è in qualche misura marginalizzato in Trentin, risentendo della critica a politiche sindacali di tipo “salarialista”. Una critica, peraltro, che forse l’odierno contesto italiano porterebbe a ricollocare, dominato com’è dai problemi delle basse retribuzioni e in generale del lavoro povero (si veda il dibattito in corso, anche a livello europeo, sul salario minimo legale).

C’è pure un’apertura sul welfare, circa il quale si prefigura il diritto a un allungamento volontario e incentivato dell’età pensionabile, in una logica (sostenuta in diverse occasioni da Trentin) di promozione dell’invecchiamento attivo.

Se quelle menzionate sono le linee essenziali dell’idea di “democrazia industriale” avanzata da Trentin (che è scettico, invece, su forme di “democrazia economica”), la sua riflessione prende altresì un respiro più ampio, nel momento in cui giunge a coinvolgere anche il ruolo dell’impresa, nel quadro di una visione contemplante un forte interventismo pubblico rivolto a curare i (tanti) fallimenti del mercato. Fallimenti che Trentin evoca con parole di straordinaria attualità, che fanno esplicito riferimento a un’idea di stakeholder capitalism relativa ad esempio al campo degli investimenti per ricerca e formazione ed a quello dei programmi di risanamento ecologico, cioè a campi nei quali l’ideologia del “breve termine”, tante volte prevalente nelle imprese sull’altare della creazione di valore per gli azionisti, si rivela particolarmente inadeguata in vista dell’interesse generale.

Se si pensa a quel che è accaduto negli anni successivi, e cioè la crisi del 2007-2008, l’esplosione della digitalizzazione e infine la crisi pandemica, e se si considera come da tutto questo stia forse emergendo, fatti salvi rebound populistici sempre possibili, un nuovo consenso trasversale e post-liberista che ruota attorno ai concetti di sostenibilità e inclusività, si apprezza come le intuizioni di Trentin avessero lo spessore del futuro e si coglie, altresì, come la sua idea di valorizzazione del lavoro delle persone fosse soltanto un tassello, per quanto cruciale, di una più ampia riconciliazione tra il sociale e l’economico.

 

4. Il socialismo pragmatico di Bruno Trentin

Bruno Trentin non manca, infine, di porsi la domanda potenzialmente più imbarazzante, per un uomo con il suo percorso: che cosa resta del socialismo in questo progetto? Ma vi risponde con una mossa del cavallo che contiene un’ammissione e che contemporaneamente rilancia la sfida: “Certo, il socialismo non è più un modello di società compiuto e conosciuto, al quale tendere con l’azione politica quotidiana. Esso può essere concepito soltanto come una ricerca ininterrotta sulla liberazione della persona e sulla sua capacità di autorealizzazione, introducendo nella società concreta degli elementi di socialismo – le pari opportunità, il welfare della comunità, il controllo sull’organizzazione del lavoro, la diffusione della conoscenza come strumento di libertà; superando di volta in volta le contraddizioni e i fallimenti del capitalismo e dell’economia di mercato, facendo della persona, e non solo delle classi, il perno di una convivenza civile. Non è questo, in definitiva, il ‘movimento’ di cui scriveva Marx nel Manifesto? Non era forse questo l’interrogarsi, nella pratica e nella sperimentazione di una utopia della vita quotidiana, del socialismo delle origini, da Owen a Cole?”

Questa evocazione pragmatica di “elementi di socialismo” chiudeva il cerchio del disegno politico-sociale trentiniano, del quale conoscenza, libertà e persona rappresentavano la triade di valori portanti, ciascuno dei quali presupposto degli altri. L’affermazione politica di tali valori prefigurava un percorso in fondo al quale Trentin scorgeva, da visionario realistico, la possibilità di una vera rivalutazione del lavoro umano, che riscattasse la falsa partenza del Novecento e che offrisse a ciascuna persona un orizzonte di liberazione e di realizzazione esistenziale.

 

 

 

 

 

 

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