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Tanti mestieri, ma un unico interesse e un’unica passione: il diritto del lavoro.

Mi occupo – a tempo pieno, per così dire – di diritto e giustizia del lavoro e della sicurezza sociale solo a far tempo dalla istituzione del giudice del lavoro, nel 1973.

Ne ho assunto, immediatamente, le funzioni - quale unico Pretore del lavoro di Parma - ed ho continuato a svolgerle presso lo stesso ufficio, per poco più di un decennio, e successivamente presso la Corte di Cassazione – per poco meno di un trentennio – fino al pensionamento, nel gennaio 2013.

Alla funzione giurisdizionale ho costantemente affiancato in tale periodo – e continuo a svolgere tuttora – attività di ricerca e produzione scientifica nelle stesse materie.

A questa svolta radicale – nel mio impegno di lavoro e di studio – sono, tuttavia, pervenuto senza avere in precedenza maturato una esperienza specialistica in materia.

Lavoro e sicurezza sociale, infatti, avevano bensì occupato, ma solo marginalmente, il mio impegno – concentrato, essenzialmente, nel diritto e nella giustizia civile e penale – sia nei primi anni, dall’ingresso in magistratura nel 1963, che – ancor prima – negli studi universitari.

Anche per questo, forse, ho sempre collocato il diritto del lavoro e della sicurezza sociale – nel sistema giuridico multilivello – e mi sono sottratto, così, al rischio della specializzazione ed alle conseguenze pregiudizievoli – per la dottrina e la giurisprudenza – che ne sono derivate.

Parimenti la costante attenzione al diritto sovrannazionale mi ha consentito di evitarne – e di denunciarne ripetutamente - la diffusa ignoranza o, quantomeno, la inadeguata conoscenza (non solo) nella nostra giurisprudenza del lavoro.

Ad integrare il diritto interno, poi, le fonti di produzione statale concorrono – come ho ricordato più volte – con quelle regionali, diffusamente trascurate dai giudici comuni, anche dopo che la riforma del Titolo V – alla quale, sia detto per inciso, ho partecipato come parlamentare – ha positivamente influito, nella sostanza, sulla competenza legislativa delle regioni, anche in materia di lavoro.

Ne risulta, in conclusione, che il patrimonio costituzionale comune – nel quale fonti sovrannazionali coesistono con fonti interne, statali e regionali – è stato oggetto e riferimento costante nelle mie attività di giudice e di ricercatore.

Una passione che, in altro modo, ha continuato a esprimere anche negli anni del tuo impegno politico-parlamentare.

 

 È così. La stessa passione per il diritto e la giustizia del lavoro ha promosso ed ispirato – insieme a tali attività – anche quella parlamentare, come Senatore della Repubblica nella dodicesima e tredicesima legislatura, dal 1994 al 2001.

Candidato su iniziativa della società civile condivisa dal Partito Democratico di Sinistra (PDS) – senza alcuna mia interferenza, ma con la mia accettazione grata  e convinta – sono riuscito a svolgere l’attività parlamentare con la consueta  indipendenza interiore – da se stesso, cioè, dai propri ideali ed, ancor più, dai propri interessi – agevolmente adattabile alle funzioni, affatto diverse, di parlamentare e di giudice: per dirla in sintesi, il primo contribuisce alla formazione della legge,  alla quale il secondo è soggetto, nel momento in cui deve interpretarla ed applicarla.

Tanti mestieri, quindi, ma la stessa passione ispiratrice – per il diritto, appunto, e per la giustizia del lavoro – lo stesso riferimento, al patrimonio costituzionale comune, affidando alla indipendenza interiore – gelosamente custodita – l’adattamento ai ruoli, affatto diversi, secondo me, di giudice, ricercatore e parlamentare. 

Procediamo con ordine. Lei ha studiato giurisprudenza a Milano, dove si è laureato all’età di 22 anni.

 

La sede e la Facoltà universitaria non sono state una mia scelta.

A Milano, infatti, ho ricevuto generosa ospitalità da un fratello di mia madre, Girolamo Taccone, direttore e primario pediatra dell’Ospedale dei Bambini di Via Castelvetro (ora Ospedale Buzzi), una autorità nella sua disciplina.

Quanto alla Facoltà, la prima iscrizione a Medicina e Chirurgia per seguire le tradizioni di famiglia – mio padre e mio nonno erano medici – è stata immediatamente revocata, perché affatto estranea alla mia vocazione, mentre sono stato dissuaso dalla Facoltà di Lettere  e dalla Facoltà di  Storia e Filosofia – che mi avevano impegnato, con piena soddisfazione ed ottimi risultati, durante gli studi al liceo classico – con la conseguenza che Giurisprudenza è stata soltanto ineludibile punto di caduta.

Ciononostante, mi sono inserito egregiamente sia nella Facoltà che nella metropoli, pur provenendo dal paese natio, Parghelia, di poco più di mille abitanti.

Una preparazione che viene da lontano.

 

Di sicuro rilievo è stato, da un lato, il livello di maturazione culturale raggiunto  all’esito di studi seguiti con impegno ed esiti brillanti  - la migliore media si coniuga, nell’esame di maturità classica, con la trasmissione al Ministero del mio tema d’italiano (solo per fare qualche esempio) – e, dall’altro, la buona socializzazione in dipendenza della sincera solidarietà e dell’affetto intenso e diffuso, che hanno connotato la vita nel mio borgo natale, del tutto privo di strutture per giovani – le piazzette del paese, ad esempio, ospitavano le nostre partite di calcio – ma ricco di risorse naturali, a cominciare da uno splendido mare che frequentavamo da maggio ad ottobre.

Come era la Facoltà giuridica milanese di quegli anni?

La Facoltà di Giurisprudenza dell’epoca ha avuto la sua parte insieme alle qualità della Milano di allora, alla generosa ospitalità dello zio ed a qualche buona amicizia.

Grandi Maestri del diritto erano attivi, allora, nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano: solo per fare qualche esempio, Aurelio Candian al diritto privato, Enrico Tullio Liebman alla procedura civile, Cesare Grassetti al diritto civile e del lavoro, Giacomo Delitala al diritto penale, ma l’elenco potrebbe continuare.

Devo confessare che, successivamente, ho avuto rara occasione di incontrare – almeno tra i professori di diritto del lavoro, che ho maggiormente frequentato – Maestri di pari grandezza.

La loro irraggiungibilità, della quale resto convinto, ha forse contribuito – insieme alla preferenza per il mestiere di giudice – a farmi declinare qualche proposta di passare alla carriera accademica.

Da quei grandi maestri, tuttavia, ho imparato non solo l’impegno e la puntualità nell’insegnamento – non condizionati, in alcun modo, dalla professione di avvocato – ma anche la concretezza non disgiunta dalla riflessione teorica.

Solo per farne qualche esempio, il recesso da Confindustria delle imprese a partecipazione statale – inserito nella lezione sull’istituto del recesso – si coniugava, parimenti nel diritto privato, con il preesame sul codice civile.

Mentre la strumentalità del processo veniva scrutinata con rigore – in relazione a ciascun istituto processuale – nelle lucide lezioni di diritto processuale civile, da me assiduamente seguite con profitto e con esito brillante.

Né può essere trascurata l’inclusione, tra i libri di testo, della raccolta di sentenze della Corte costituzionale del 1956 – per il diritto costituzionale – e del contratto collettivo dei metalmeccanici per il   diritto del lavoro.

L’esemplificazione, tuttavia, potrebbe continuare ancora a lungo.

Il tutto, peraltro, inserito in un contesto culturale assai vivace, forse unico nell’ Italia di quegli anni.

 

Milano era, già allora, la città più moderna d’Italia, anche sul piano culturale.

Di fondamentale interesse è stato, per me, il teatro di prosa: il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler – che, tra l’altro, portava in Italia le opere di Bertold Brecht – si coniugava, nella seconda metà degli anni ’50 del secolo scorso, con il teatro di avanguardia, a cominciare da Carmelo Bene.

L’esemplificazione potrebbe continuare. È certo, tuttavia, che si radica – proprio in quel momento – il mio interesse per il teatro di prosa che continuo a coltivare, con lo stesso entusiasmo, ancora adesso.

Incontri con scrittori e uomini di cultura emergenti – organizzati dalla Università per gli studenti – concorrevano a completare il quadro.

Di sicuro stimolo erano, altresì, i concorsi a premio fra studenti su temi culturali: ricordo di avere partecipato - vincendo un premio di centosettantamila lire - ad un concorso su “Fatto, Atto e Negozio giuridico”.

Torniamo agli studi giuridici.

 

 

Mi sono dedicato, prevalentemente, agli studi universitari di diritto civile, commerciale, industriale e processuale civile, senza tuttavia trascurare le altre materie, compreso il diritto del lavoro: comunque l’elevata media dei voti ne è una conferma.

Coerentemente mi sono laureato con il massimo dei voti nella sessione di giugno del quarto anno - discutendo una tesi in diritto industriale (relatore Prof. Remo Franceschelli) – sulle invenzioni brevettabili – e due tesine in diritto civile ed in diritto processuale civile.

Ho partecipato alla vita universitaria e – sia pure con un certo distacco - a quella associativa, né ho trascurato la vita fuori dallo studio: ma non ne ricordo nulla che sia meritevole di essere raccontato.

L’ingresso in magistratura nel 1963 è stato immediato, superando il primo concorso utile subito dopo la laurea. Una scelta per passione, immagino, o necessitata anche da esigenze lavorative? 

L’iniziativa di partecipare al concorso in magistratura, che tuttavia avevo talora incluso tra i miei sbocchi professionali, non è stata mia.

Nell’agosto del 1960, l’estate immediatamente successiva alla laurea, era ancora in corso il mio viaggio in Europa e mi trovavo in una località balneare dell’Olanda – piacevolmente occupato e senza pensieri – quando un telegramma di mio padre mi informava della imminente scadenza del termine di presentazione della domanda per partecipare al concorso in magistratura.

Sono rientrato immediatamente in Italia ed ho presentato la domanda.

La preparazione al concorso – durato tre anni – è avvenuta nel mio paese e nella casa di famiglia, in totale solitudine.

Superato il concorso, ho svolto l’uditorato a Roma, inserito in un gruppo affidato alla cura di Antonio Brancaccio, allora sostituto procuratore, divenuto successivamente Presidente Titolare della Sezione Lavoro e, poi, Primo Presidente della Corte di Cassazione – mentre io ero ancora in servizio presso la stessa Sezione – e, infine, Ministro dell’Interno, mentre io ero Senatore.

Nel periodo dell’uditorato, ho imparato – proprio da Brancaccio – il dovere dell’impegno professionale – nel quale sono risultato rafforzato – ed un metodo, per così dire, di autoformazione permanente: muovendo dal caso, imposto dall’approccio giudiziario, approfondire l’istituto giuridico che risulta coinvolto.

Tuttavia, una più significativa lezione di etica professionale del magistrato – fondata, essenzialmente, sulla indipendenza assoluta – mi proviene da un altro fratello di mia madre, Leonardo Taccone, magistrato in Milano per quasi tutta la vita professionale – destinato, essenzialmente, al contenzioso commerciale ed industriale – e, in coerenza con il suo culto per l’indipendenza, convinto antifascista – presumibilmente – non militante.

Dopo l’uditorato ed il servizio militare di leva quale Ufficiale di complemento dell’Aeronautica – presso la Scuola di Guerra Aerea (ora di Difesa Aerea) di Firenze e, poi, presso l’aeroporto di Linate e la Regione aerea di Milano – sono approdato a Parma, ancora una volta senza mia richiesta.

È diventata subito, tuttavia, la mia città per il resto della vita.

Determinante è stato il matrimonio con una parmigiana, Ida Luisa Maghei, con la quale convivo felicemente da più di cinquant’anni, allietato dalla nascita di due figli, Antonio e Mara Teresa, e da cinque nipoti.

Ha concorso, tuttavia, il rapporto intenso stabilito con la città – e culminato nella mia elezione a Senatore, con larghissima maggioranza – soprattutto nella decisione di mantenere a Parma la residenza della famiglia, nonostante il mio trasferimento a Roma, presso la Corte di Cassazione ed il Senato della Repubblica.

Prima di arrivare in Cassazione Lei ha svolto dal 1966 a Parma le funzioni di Pretore, dal 1973 come giudice del lavoro. Come si svolgeva, in quegli anni, il lavoro di Pretore? Quali ricordi ha?

 

Dal mio arrivo a Parma, nel 1966, alla data di istituzione del giudice del lavoro, nel 1973, ho svolto le funzioni di giudice civile e penale, con qualche incursione nel contenzioso del lavoro, allora scarso e poco rilevante.

Del contenzioso civile non ricordo nulla di interessante, fatta eccezione per una azione possessoria esercitata, con successo, per contrastare l’occupazione dell’azienda da parte dei lavoratori.

Non sono mancati, tuttavia, procedimenti d’urgenza – i cosiddetti “700” – per problemi di concorrenza sleale, dei quali tuttavia non ricordo i dettagli.

Nel contenzioso penale, ricordo la sospensione del procedimento - a carico dei disturbatori di un comizio di Giorgio Almirante (storico segretario del Movimento Sociale Italiano -MSI) - in attesa della definizione di un altro procedimento, pendente in Tribunale, contro Almirante per apologia del fascismo – consumata nello stesso comizio – supponendone l’influenza sulla meritevolezza di tutela penale per il comizio, asseritamente, disturbato.

Di particolare interesse, tuttavia, erano le questioni di diritto penale alimentare, in periodo precedente alla larga depenalizzazione.

Problemi relativi a processi produttivi e  prodotti o alla pubblicità suggestiva si coniugavano con quelli relativi alla individuazione dei responsabili per le scelte di politica aziendale – nella ipotesi, ad esempio, dell’accusa ad una multinazionale pastaia di impiegare grano tenero (accusa, sia detto per inciso, risultata infondata) – nelle grandi imprese alimentari della food valley , che – con i loro difensori di elevata professionalità (ricordo, in particolare, un avvocato genovese) – contribuivano ad elevare la  qualità  del dibattito processale.

Anche l’attività artigianale dello stesso settore alimentare, tuttavia, offriva occasioni per un contenzioso penale interessante: i tanti processi penali per il burro sporco – in dipendenza del processo tradizionale di produzione, che trascurava qualche misura igienica – si coniugavano con quelli per inquinamento dei corsi d’acqua da c.d. colaticcio proveniente dai tanti allevamenti di maiali, destinati essenzialmente alla produzione del prosciutto di Parma, del salame di Felino e di altri prodotti meno blasonati.

C’è chi dice che la repressione penale avrebbe contribuito a migliorare processi produttivi e prodotti.

C’è chi dice, altresì, che io avrei – fin da allora – ottimizzato la conduzione dei processi ed il rispetto dei riti: mi pare, tuttavia, benevola anticipazione di giudizio riferito a quanto è avvenuto effettivamente con il processo del lavoro.

 

Poi è sopravvenuto il processo del lavoro, che ha inciso profondamente sul modo di rendere giustizia nella nostra materia. I primi anni non devono essere stati facili.

Con il nuovo processo del lavoro la giustizia del lavoro cambiò radicalmente.

Innovazioni del rito si coniugarono con quelli organizzativi – a cominciare dalle sezioni stralcio per il contenzioso arretrato, che hanno consentito l’applicazione immediata del nuovo rito al contenzioso sopravvenuto – ma con essi concorreva, tuttavia, un impegno diffuso per assolvere al meglio quella che era diffusamente avvertita come una missione esaltante ed ineludibile.

Io ho applicato rigorosamente il rito del lavoro, da subito, determinando di fatto la – non voluta - selezione degli avvocati e, soprattutto, esiti di sicura soddisfazione sul piano dei tempi della giustizia del lavoro: ne offre documentazione, in coerenza con il diffuso riconoscimento, Il Diritto del Lavoro (1980, fasc. 5, I. 349-350), laddove risultano, tra l’altro, tempi di definizione dei processi di due mesi e tempi di deposito delle sentenze di venti giorni (dal 1974 al 1978).

Tuttavia, non risulta trascurata la qualità del prodotto: il diffuso riconoscimento si coniugava, in tale prospettiva, con la pubblicazione su molte riviste di numerose sentenze.

Mi limito a ricordarne soltanto alcune – di merito – essendo quelle sul rito assorbite, per così dire, dal buon funzionamento del processo, appena ricordato.

Non posso non fare menzione, tuttavia, di avere dichiarato d’ufficio la nullità di ricorso introduttivo – perché non ne risultava il tema del contendere – e di avere applicato rigorosamente preclusioni e decadenze: si tratta, all’evidenza, di regole del rito, che sono risultate essenziali per il successo del processo del lavoro.

Quanto alle decisioni di merito, rinvio alla tanta giurisprudenza edita del Pretore di lavoro di Parma (c’è chi dice che sia stato il più pubblicato!) – dal 1974 al 1984 - limitandomi a poche citazioni.

Intanto di sicuro rilievo le ordinanze (23 ottobre e 22 novembre 1976) di rimessione alla Corte Costituzionale  - che ha condotto alla declaratoria di illegittimità costituzionale (sentenza n. 204 del 1982) - dell’articolo 7 dello statuto di lavoratori – in quanto le garanzie procedimentali, ivi previste, non sono applicabili al licenziamento disciplinare – dopo avere riscontrato che l’applicazione diretta delle stesse garanzie  – stabilita con una delle mie prime sentenze da giudice del lavoro (31 gennaio 1974) – era in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che le limitava alle sanzioni conservative.

L’assunzione obbligatoria anche degli invalidi psichici – stabilita (nella sentenza 20 ottobre 1982), in applicazione dell’articolo 38, terzo comma, della Costituzione – ha imposto al giudice d’appello la rimessione della questione di legittimità costituzionalità, che la Corte costituzionale non accolse immediatamente – demandando ogni scelta al legislatore – ma solo qualche anno dopo, a seguito della permanente inerzia del legislatore.

L’assemblea in locali dell’azienda, durante lo sciopero, la giusta retribuzione – per il detenuto che presti la propria opera in favore di una impresa privata – il diritto al rimborso delle spese per specialità medicinali – non comprese nel prontuario dell’INAM, allora tenuto alla erogazione, ma – indispensabili ed insostituibili: sono queste soltanto alcune delle altre mie pronunce da Pretore del lavoro.

L’elencazione potrebbe, ovviamente, continuare molto a lungo.

Tanto basta per rendere evidente la varietà dei temi affrontati – anche grazie alle iniziative di un Foro divenuto di eccellenza – e la costante attenzione per valori e principi costituzionali.

Quali sono stati gli ulteriori sviluppi professionali?

 

La feconda esperienza maturata – quale Pretore del lavoro di Parma – mi ha indotto alla partecipazione al concorso per l’assegnazione del posto di Presidente della Sezione Lavoro del Tribunale di Bologna.

Il primo posto da me conseguito in base ai criteri fissi di valutazione fondati sulla specializzazione – a cominciare dalla attività di Pretore del lavoro – sono stati sopravanzati - da valutazione discrezionale – nella deliberazione del CSM, che il TAR di Parma – da me adito – ha investito di pesanti critiche, annullando la nomina del vincitore.

La mia nomina successiva a Magistrato d’Appello applicato all’ufficio del Ruolo e del Massimario della Corte di Cassazione e l’assunzione del posto ha – presumibilmente - indotto il Consiglio di Stato all’annullamento della sentenza di primo grado, del quale rinunciai a denunciare l’assenza palese di qualsiasi motivazione.

Resta il sostegno autorevole, che – nel Consiglio Superiore della Magistratura – ho ricevuto da Federico Mancini, che ne era membro.

Mi duole anticipare, tuttavia, che questo è stato solo il primo dei maltrattamenti, per così dire, che – forse in dipendenza della mia estraneità ai deprecabili sostegni correntizi – ho ricevuto, anche successivamente, dallo stesso organo di governo della magistratura, senza che ne sia stata impedita – ma soltanto limitata, ad un passo dal vertice – la mia carriera.

In quella occasione, mi è stato preferito – come Primo Presidente della Corte di Cassazione – un collega di sicuro valore – ma di minore anzianità – sulla base della asserita qualità della produzione scientifica, senza neanche considerare la mia. Non aggiungo altro. Tuttavia, ho deciso di rinunciare alla tutela giurisdizionale – diffusamente suggerita – declinando la generosa offerta di difesa – palesemente disinteressata – da parte di avvocai autorevoli.

Le medesime manovre correntizie hanno ostacolato, altresì, la mia elezione a giudice costituzionale - tentata due volte – sebbene la presentazione obiettiva dei miei titoli in un documento fatto pervenire a tutti i magistrati della Corte, che ho preferito alle consuete richieste personali del voto – avessero riscosso diffuso apprezzamento, non di rado accompagnato dal dichiarato convincimento che sarei stato degno – per qualcuno il più degno – della elezione.

Presso la Corte di Cassazione, la mia funzione – di magistrato d’appello applicato all’Ufficio del Ruolo e del Massimario – è stata affiancata, immediatamente, dalla applicazione alla funzione – fino al conseguimento (nel 1988) della nomina – di Consigliere della Sezione Lavoro.

Di rilievo determinante – e di grande soddisfazione personale – è stato, in questo periodo, il sostegno di Antonio Brancaccio – come già detto sopra, Presidente Titolare della Sezione Lavoro e, poi, Primo Presidente della Corte di Cassazione – che mi ha costantemente apprezzato, anche in atti pubblici ed in sedi istituzionali.

In considerazione di quanto ha raccontato sulla Sua carriera, devo dedurne che la partecipazione alla vita associativa dei magistrati non sia stata affatto determinante.

 

È proprio così. È proseguito il mio distacco dalla Associazione Nazionale Magistrati -ANM- e dalle sue correnti, pur risultando iscritto alla associazione e cooptato, per così dire, nella corrente di sinistra, magistratura democratico, in coerenza delle mie idee politiche.

Coerentemente, ho partecipato ad un solo congresso nazionale della associazione, che si è svolto a Mondovì, ed a nessun congresso di Magistratura Democratica.

Ciò non ha impedito, tuttavia, che – mentre ero Pretore di Parma – sia stato eletto, senza averne interesse,  segretario della sezione locale della associazione,  in contrapposizione ad esponente autorevole di magistratura indipendente – sinceramente non so se per mio merito o per demerito del mio avversario -   e che, in tale ruolo, abbia organizzato una assemblea aperta, su tema che non ricordo, alla quale hanno partecipato, tra gli altri, il Sindaco della città – avvocato socialista a partigiano – ed il segretario della Camera del lavoro.

La Corte di Cassazione è stata una seconda, grande, famiglia.

Presso la Corte di cassazione ho svolto funzioni di Consigliere della Sezione Lavoro dal 1984 al 1994 e delle Sezioni Unite Civili dal 1992 al 1994, congiuntamente alle funzioni presso l’Ufficio del Ruolo e del Massimario (essenzialmente relazioni sulla giurisprudenza e la dottrina) fino al 1988.

Dopo l’aspettativa per mandato parlamentare, dal 1984 al 2001, ho svolto funzioni di Consigliere della Sezione Lavoro fino al 2005 – ma non delle Sezioni Unite perché da poco tempo in Cassazione (sic!), secondo la motivazione del Primo Presidente pro-tempore, condivisa dal Consiglio Superiore della Magistratura da me adito – di Presidente di Sezione dal 2006 e di Presidente Titolare della Sezione Lavoro dal 2009 al pensionamento nel 2013, ammesso d’ufficio, senza mia domanda, alle Sezioni Unite – anche come Presidente del Collegio – nello stesso periodo.

Enorme il numero delle sentenze redatte nello stesso periodo e, in larga parte, pubblicate su primarie riviste giuridiche.

Prassi aziendali come fatto giuridico, servizio mensa e retribuzione imponibile a fini contributivi, natura di fonte secondaria – e non contrattuale – dei decreti – adottati previa contrattazione collettiva – che hanno governato il personale sanitario prima della privatizzazione: sono questi i temi di alcune delle sentenze delle Sezioni Unte da me redatte.

Per le sentenze della Sezione Lavoro, mi limito a ricordare le tante pronunce che coinvolgono il diritto comunitario – dai medici specializzandi al precariato scolastico – le molte pronunce in materia di licenziamenti, di repressione della condotta antisindacale, di contrattazione collettiva – quale la deroga alla naturale efficacia erga omnes dei contratti aziendali per i lavoratori iscritti a sindacato diverso da quello stipulante – e, per quanto riguarda la sicurezza sociale, le tante pronunce in materia di retribuzione imponibile, di benefici contributivi e sui nuovi problemi posti dalla previdenza privatizzata.

Come Presidente Titolare della Sezione Lavoro, poi, ho introdotto un nuovo modello organizzativo – che coinvolgeva tutti i Consiglieri della Sezione fin dal cosiddetto spoglio dei fascicoli in funzione della fissazione delle udienze – ed ho sottoposto a non infrequenti assemblee di Sezione l’esame di problemi nuovi imposti da innovazioni legislative, da nuove pronunce della Corte di Giustizia, dalla esigenza di eventuali rinvii pregiudiziali alla stessa Corte o di rimessione alla Corte costituzionale, come da ogni altra novità.

Ne è risultato, quantomeno, ridotto il rischio di quella giurisprudenza estemporanea – all’evidenza incompatibile con la nomofilachia – che continua a riguardare, addirittura, anche le Sezioni Unite Civili.

Un controllo discreto, quanto rigoroso, sul deposito delle sentenze ha contribuito, poi, ad ottimizzare i tempi della giustizia del lavoro in Cassazione.

Anche come studioso Lei è stato un pioniere del diritto comunitario, ora eurounitario, nel diritto del lavoro e previdenziale. Quali sono le tappe fondamentali dell’affermazione nel nostro ordinamento del diritto dell’Unione Europea?

 

Alla attività giudiziaria ho sempre affiancato l’attività di ricerca e di produzione scientifica, che continua, tuttavia, anche dopo il pensionamento.

Il diritto comunitario – ed ora, eurounitario – ne è stata solo una parte, forse la più originale, per così dire, nel nostro panorama – dottrinario e giurisprudenziale – scarsamente attento (per dirla con un eufemismo!) al diritto sovrannazionale del lavoro e della sicurezza sociale.

In principio, sono state le note a sentenze della Corte di Giustizia – nelle stesse materie – pubblicate su Il Foro Italiano: ne ho sempre messo in evidenza la ricaduta – sul nostro ordinamento interno, ancorché non investito dalla sentenza – in coerenza con il mio consueto metodo d’approccio allo stesso diritto comunitario.

Sono, infatti, state dedicate - al lavoro nel diritto comunitario e l’ordinamento italiano - due relazioni, del 1985 e del 2918, al Convegno Nazionale del Centro Studi Domenico Napoletano e, rispettivamente, al seminario a me dedicato dall’Università di Parma per i miei 80 anni: entrambe rielaborate in saggi pubblicati da primarie riviste giuridiche, oltre che negli atti che dal convegno e dal seminario sono derivati.

Lo stesso approccio – al diritto dell’Unione Europea, appunto – nei saggi – su autonomia e subordinazione e sul nostro precariato scolastico – risulta esplicito, fin dal titolo, nel saggio su Licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione Europea e l’ordinamento italiano.

E, da ultimo, nel mio recente contributo su Il contratto di lavoro subordinato nel diritto dell’Unione Europea, destinato ad opera collettanea in corso di pubblicazione.

Non mancano, ovviamente tanti altri temi oggetto di attenzione e ricerca scientifica.

 

Numerosi saggi risultano dedicati ai licenziamenti – nel nostro ordinamento – dal tramonto della recedibilità ad nutum del datore di lavoro al blocco pandemico dei licenziamenti economici – tra i quali includo il licenziamento individuale del dirigente, per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 604 del 1966 – passando, tuttavia,  dalla riforma della tutela reale al tempo delle grandi intese e nelle tutele crescenti : il palese cammino a ritroso , nelle stesse tutele appunto, risulta coerente, da un lato,  con la evoluzione del rapporto di forza – tra posizioni pro labour e posizioni di segno contrario – e pare ispirato, dall’altro,  dal “Libro bianco del mercato del lavoro”( del 2001), da me considerato come la  madre di tutte le flessibilità.

Autonomia e subordinazione, tipologie contrattuali, lavoro agile, uguaglianza e lavoro – nel nostro ordinamento, senza tuttavia trascurare il diritto dell’Unione – sono soltanto alcuni dei temi che occupano altri saggi.

Non è mancata, poi, l’attenzione per la tutela della salute fra tradizione ed innovazioni al tempo del Covid-19, da un lato, e potere di controllo del lavoratore tra codice civile e codice della privacy, passando per lo statuto dei lavoratori.

Il diritto regionale del lavoro – prima e dopo la riforma del titolo V della Costituzione – ha formato oggetto di relazione a convegno nazionale del Centro studi Domenico Napoletano – trasfusa in saggio ospitato da riviste giuridiche – e, rispettivamente, da alcuni saggi successivi, talora parimenti rivenienti da relazioni a convegni.

Saggi su processo del lavoro in generale si coniugano – in tema di diritto processuale civile – con contributi su temi diversi, quali: ricorso per cassazione per vizi formali; atto d’appello bel rito ordinario; deflazione del contenzioso; overruling processuale delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, nel primo decennio di questo secolo, ed attuale overruling processuale e sostanziale  tra affermazione della litispendenza necessaria dell’ente previdenziale, in tutte le controversie nelle quali si pongano questioni di contributi, e negazione de diritto del lavoratore alla posizione contributiva.

Possiamo, senza esagerazione alcuna, parlare di una produzione scientifica sterminata.

Sono lusingato da queste parole. Per un elenco delle mie pubblicazioni scientifiche, tuttavia, sono costretto a rinviare alla bibliografia – peraltro aggiornata all’inizio del 2019 – ospitata negli atti del seminario a me dedicato per gli 80 anni – pubblicati nel Quaderno numero 16 di ADL, a cura di Stefano Brusati ed Enrico Gragnoli, pagine 133 e seguenti.

Si tratta, comunque, di due monografie - in tema di tutela differenziata contro i licenziamenti illegittimi e di diritto regionale del lavoro - e di numerosi saggi - in materia di diritto del lavoro, diritto comunitario del lavoro, diritto regionale del lavoro, diritto della previdenza sociale e diritto processuale civile - tutti pubblicati su primarie riviste giuridiche ( tra queste: Il Foro Italiano, Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, Giornale di Diritto del Lavoro, Rivista Giuridica del Lavoro, Quaderni Regionali, Diritto del Lavoro, Argomenti di Diritto del Lavoro, Rivista di Diritto della Sicurezza Sociale, Il Lavoro nella Giurisprudenza, Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, Labor - Il lavoro nel diritto, Variazioni su temi di diritto del lavoro, Lavoro Diritti Europa, CSDLE “Massimo D’Antona”) e negli atti di numerosi convegni e seminari.

Il contributo al dialogo scientifico – che ne risulta – si coniuga, talora, con l’intento di contrastare gravi errori di giurisprudenza e dottrina, in funzione del loro, auspicato, emendamento.

Intanto l’overruling processuale delle Sezioni Unite Civili nel  primo decennio  di questo secolo – da me severamente criticato in un contributo significativamente intitolato Overruling processuale versus strumentalità del processo civile?, appunto, al  Primo rapporto sulla giustizia civile in Italia, organizzato dalla Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC)  ed altri (Roma, Corte di Cassazione- Aula Magna, 3 marzo 2012) – risulta da tempo emendato dalla Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, con indicazioni di rimedi, quale il prospective overruling in caso di overruling processuale.

Ne risulta applicato alla giurisprudenza – nella sua evoluzione diacronica, appunto – il principio tempus regit actum.

Allo stesso obiettivo tendono - con fiducia, alimentata anche dai precedenti appena ricordati – le critiche ben più severe (se possibile!), rivolte all’attuale overruling processuale e sostanziale – tra affermazione del litisconsorzio necessario dell’ente previdenziale, in tutte le controversie nelle quali si pongano questioni di contributi, e negazione del diritto del lavoratore alla posizione contributiva - in quanto determina lo stravolgimento del contenzioso del lavoro.

Ne risulta, infatti, inopinatamente imposto il litisconsorzio necessario dell’ente previdenziale – ancorché carente di interesse – in tutte le controversie nelle quali si pongano questioni di contributi.

La insussistenza del fatto, addotto a sostegno del licenziamento – che risulta sanzionata con la tutela reale – è stata riferita, da parte della dottrina e da una sentenza della Corte di Cassazione, al fatto materiale – sia pure in coerenza con il tenore letterale della legge, peraltro suggerito dalla stessa dottrina – sebbene quel fatto non possa non essere considerato giuridico in dipendenza dell’effetto – giuridico, appunto – di detta sanzione.

La mia nota critica pubblicata dal Foro Italiano - all’unica sentenza della Cassazione che, per quanto si è detto, aveva condiviso la denegata soluzione – è stata seguita da miei saggi, parimenti critici, ed è culminata nell’emendamento dell’errore da parte della stessa Cassazione, con giurisprudenza ora consolidata.

Ne risulta palese la paventata contrapposizione - in relazione, appunto, a fattispecie lavoristiche – fra rischio della specializzazione ed approccio sistemico: ignorate dal primo e ben note al secondo risultano, infatti, le nozioni istituzionali di fatto, atto e negozio giuridico.

Lo stesso approccio sistemico – anche in prospettiva diacronica – concorre a sorreggere, in contrasto con la dottrina prevalente, la mia tesi – ora condivisa dalla giurisprudenza prevalente del Tribunale di Roma e dalla  giurisprudenza più recente e meglio argomentata del Tribunale di Milano – della inclusione del licenziamento economico individuale del dirigente tra i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 604 del 1966, che sono soggetti al blocco pandemico – sulla base, essenzialmente, della stessa nozione  legale di giustificato motivo oggettivo ed alla sua storia interna, contestualmente  ribadendo - in coerenza con remote suggestioni della Corte costituzionale ( del 1972!) – la delimitazione della prevista esclusione dei dirigenti dalla stessa legge 604 del 1966 -  sulla quale riposa, essenzialmente, la denegata tesi contraria – alla disciplina limitativa dei licenziamenti,  di cui agli articoli da 5 a 8 della stessa legge. 

Trasfuse nei menzionati saggi – almeno in larga parte – sono le relazioni – sui medesimi temi – a convegni organizzati da Università od altre istituzioni culturali, quale il Centro nazionale studi di diritto del lavoro Domenico Napoletano, per il quale ho svolto – nel secolo scorso – numerose relazioni a convegni nazionali o di sezione ed – in questo secolo – le relazioni di sintesi in tutti i convegni nazionali dal 2002 al 2013.

Non è mancata l’esperienza universitaria.

 

L’insegnamento universitario ho avuto l’occasione di svolgerlo fin dagli anni ’70 del secolo scorso – quale Professore incaricato o a contratto -   presso l’Università degli Studi di Parma – chiamato dal Prof. Aldo Cessari – in diritto del lavoro e in diritto della previdenza sociale; presso le Università degli Sudi di Perugia e di Macerata – chiamato dal Prof. Maurizio Cinelli – in diritto comunitario ed in diritto regionale del lavoro; presso l’Università di Roma “La Sapienza”– chiamato dal Prof. Edoardo Ghera – in diritto del lavoro della Comunità Europea (senza tuttavia svolgere le lezioni, se ben ricordo, a seguito della mia elezione a Senatore della Repubblica); presso l’ Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia – chiamato dalla Prof. Luisa Galantino dal 2002 e successivamente confermato fino al 2015 – in materia di Cessazione del rapporto di lavoro e di Rapporto di lavoro nelle crisi d’impresa

L’Università di Parma mi ha generosamente dedicato due seminari – sul tema: “Una prima esperienza sulla nuova disciplina dei licenziamenti “, nel 2013, e sul tema: “Il lavoro nel diritto comunitario (ora eurounitario) e l’ordinamento italiano: (più di) trent’anni dopo”, nel 2018 – pubblicandone gli atti nei Quaderni di ADL n. 12 e 16, entrambi a cura di Stefano Brusati ed Enrico Gragnoli.

E, da ultimo, l’attività forense.

Iscritto all’albo degli avvocati cassazionisti dal 2015 - due anni dopo il pensionamento – ho partecipato soltanto ad una udienza, dinanzi alla Corte di Giustizia, svolgendo – quasi esclusivamente - attività pareristica.

I miei pareri pro veritate riguardano problemi di diritto sostanziale e processuale – quale la cessazione della materia del contendere – del precariato pubblico -   nonché, tra l’altro, medici specializzandi, trattamento di fine rapporto ed ipotesi di discriminazione. Mentre i parei collegiali – ai quali ho contribuito insieme a professori universitari – investono il rapporto fra procedimento disciplinare e processo penale nel rapporto di impiego pubblico, alle dipendenze dell’Università, in qualità di professore.

L’astensione dalla difesa dinanzi ai giudici nazionali sembra riposare, essenzialmente, sul lungo esercizio pregresso della funzione di giudice.

C’è da domandarsi, tuttavia, se questa sia una ragione idonea a giustificarla e, comunque, se lo sia ancora a poco meno di dieci anni dal pensionamento.

Quale era l’oggetto della controversia trattata davanti alla Corte europea di Lussemburgo?

 

Riguardava la condizionalità eurounitaria – per il divieto di conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato, stabilito dal nostro ordinamento nazionale nel caso di ricorso abusivo a contratti a termine nel pubblico impiego – la mia difesa in udienza dinanzi alla Corte di Giustizia.

Risulta palese, fin dal titolo (condizionalità eurounitaria per il divieto di conversione, nel pubblico impiego, previsto dall’ordinamento italiano: la parola passa alla Corte), nel testo che la riproduce – pubblicato in alcune riviste giuridiche - passando la parola alla Corte di Giustizia.

La Corte, tuttavia, è pervenuta – nella sentenza Santoro, 8 marzo 2018, in causa C - 494/16 – ad opposta conclusione, nei termini testuali seguenti: “La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.


Veniamo all’attività politica e parlamentare. Come è maturata la scelta di candidarsi al Senato, nel Collegio di Parma, nel 1994? Una scelta che sembra contraddire il profondo significato dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato. Oppure non è così?

Sono stato Senatore della Repubblica per la XII e XIII legislatura (dal 1994 al 2001) – eletto con larga maggioranza nel collegio di Parma, dove avevo lavorato fino a dieci anni prima, come indipendente di sinistra nelle liste dei progressisti federativi e, rispettivamente, dei DS - L’Ulivo – senza averne richiesto, per quanto ho già è detto, la candidatura, che tuttavia ho accettato con gratitudine ed entusiasmo.

Era, infatti, espressione di quella stessa passione e di quegli stessi ideali pro-labour, che da sempre continuano ad orientare le mie scelte di vita, restando costantemente coerenti – forse grazie alla mia indipendenza interiore – con i ruoli diversi, che ho avuto occasione di svolgere.

Senza rinunciare alla mia indipendenza, quindi, ho esercitato la funzione di parlamentare, rispettandone le peculiarità – come per le altre attività, che ho avuto occasione di svolgere – e le regole, a cominciare dalla disciplina di gruppo parlamentare, che non preclude – sia detto per inciso – voti e, in genere, scelte di coscienza.

Ne risulta confermato il mio convincimento che le cosiddette porte girevoli – al centro, attualmente, di un vivace dibattito politico – sono un falso problema.

Il correntismo e le altre degenerazioni della magistratura – che si intendono giustamente rimuovere (io stesso, per quanto si è detto, ne sono stato vittima!) – non dipendono, infatti, dal passaggio dalla magistratura alla politica e viceversa – attraverso le porte girevoli. appunto – ma dal portare, per quel che qui interessa, la cattiva politica nella giustizia.

Non è un caso che i più noti protagonisti del correntismo e delle analoghe degenerazioni della magistratura non hanno mai attraversato le porte girevoli o, comunque, da queste prescindono.

Di cosa si è occupato, in particolare, negli anni del Senato?

 

Diritto e giustizia del lavoro e della sicurezza sociale hanno occupato – in coerenza con la mia passione di sempre – anche l’attività parlamentare.

Sono stato capo del mio Gruppo parlamentare – nella Commissione Lavoro del Senato – e, allo stesso tempo, Presidente della Commissione contenziosa - organo dell’autodichia, parimenti del Senato – nonché Presidente della Commissione parlamentare di controllo sugli enti previdenziali ed assistenziali.

Dedicati al lavoro ed alla sicurezza sociale risultano, infatti, prevalentemente dedicati i tanti disegni di legge – da me presentati, come primo firmatario – e le tante attività da Senatore, quali il controllo ispettivo (essenzialmente, ma non solo, interrogazioni e interpellanze), relazioni a disegni di legge in commissione ed in assemblea, interventi ai dibattiti, proposte emendative a disegni di legge e tanto altro.

Quale Presidente della Commissione contenziosa, organo di autodichia del Senato – che si occupa, essenzialmente, del contenzioso lavoristico del suo personale -  ho contribuito ad azzerarne l’arretrato ed ho esteso molte sentenze, alcune delle quali sono state pubblicate su primarie riviste giuridiche (quali, ad es.,  Il Foro italiano) ed hanno formato oggetto di attenzione da parte della dottrina, insieme a qualche innovazione organizzativa, quale la pronuncia delle sentenze “In nome del Popolo Italiano” – come stabilito dalla Costituzione – nonostante il silenzio del regolamento che governa la Commissione.

Come Presidente della Commissione bicamerale di controllo sugli enti previdenziali ed assistenziali, ne ho organizzato l’attività  - che si è concretata, tra l’altro, in più sedute settimanali per quasi cinque anni – ne ho ottimizzato la funzione di controllo sugli enti -  mediante indagine, relazione , discussione collegiale e votazione del parere  sul bilancio annuale di ciascun ente, peraltro redatto seguendo il  modello predisposto dalla Commissione – ed ho redatto personalmente - parimenti all’esito di   indagine, relazione  e discussione collegiale sulla legislazione previdenziale ed assistenziale – relazioni in materia di riforma pensionistica, riforma degli enti pubblici di previdenza, assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, totalizzazione e ricongiunzione di posizioni contributive, prospettive di riforma degli enti privatizzati di previdenza: tutte raccolte in un volume, edito dal Parlamento, ed, in larga parte, pubblicate anche su primarie riviste giuridiche (quali Il Foro Italiano) e, talora, prese  in esame anche dalla dottrina.

All’indomani della riforma Dini (legge n. 335 del 1995) – alla quale ho contribuito intensamente, anche in rappresentanza del mio gruppo parlamentare – ne ho avviato la messa a terra – affidata, appunto, all’aggiornamento della funzione di controllo sugli enti previdenziali – e, con essa, la definizione delle linee politiche di prospettiva, affidata alle ricordate relazioni.

Nella legislatura successiva – per la quale non sono stato candidato – non mi risulta che la Commissione abbia proseguito l’attività – che avevamo utilmente avviato – ritornando nella irrilevanza, alla quale era stata sempre confinata.

Nella mia attività parlamentare, ovviamente, non ho trascurato il mio collegio elettorale – cioè Parma e parte della provincia – variamente intervenendo su situazioni di crisi od altrimenti rilevanti – da crisi aziendali, solo per fare qualche  esempio, a problemi riguardanti i nostri preziosi IGP e DOP – affidando a proposte emendative – che sono state accolte – la stabilizzazione di numerosi precari deli enti locali di Parma e provincia – insieme a tanti altri nel resto del paese – nonché la stessa sopravvivenza del locale Museo Napoleonico  “Glauco Lombardi” – dedicato a Maria Luigia – attraverso l’ammissione al c.d. canone politico stabilito per legge – in luogo del più oneroso canone di mercato, insostenibile dal museo – per continuare ad occuparne la sede tradizionale in un immobile di proprietà dello stato. 

Qual è il messaggio conclusivo e l’insegnamento che ci può lasciare?

Tanti mestieri, tutti per passione – senza sacrificare mai l’indipendenza – hanno assicurato costante felicità – alla mia lunga vita – in concorso, tuttavia, con l’affetto delle mie famiglie – d’origine, acquisita e da me costituita – nonché con la stima e l’affetto di tutti gli ambienti di lavoro e sociali - nei quali sono stato inserito, non di rado casualmente, per quanto si è detto – e, persino, con qualche maltrattamento, che mi è capitato di subire.

Ne sono risultato, infatti, rafforzato nel convincimento – non disgiunto, forse, da personale presunzione – di essermi collocato dalla parte giusta – rifiutando, consapevolmente, sicuri vantaggi del correntismo e di analoghe faziosità, come le proposte di adesione ad organizzazioni deputate a favorirne gli adepti – e di avere conservato, allo stesso tempo, la libertà di esprimere, anche in questa sede, le critiche – che ritengo giuste – nei confronti di chicchessia. 

Molte grazie, Presidente, per questo affresco di vita vissuta da primo attore, densa di tanti interessi professionali e curiosità intellettuali.

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