TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

La sentenza n. 54 del 2022 della Corte Cost.

1. Con la sentenza del 4 marzo 2022, n. 54, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina del c.d. bonus bebè e dell’assegno di maternità nella parte in cui subordina la concessione dei due assegni agli stranieri extracomunitari alla condizione che siano titolari del permesso per soggiornanti di lungo periodo.
La questione in esame conferma che in tema di diritti fondamentali vi sono continue connessioni e interferenze tra la nostra Costituzione e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che coinvolgono tanto il Giudice costituzionale quanto la Corte di giustizia.
La questione affrontata nella pronuncia si inserisce nel più ampio contesto delle condizioni di accesso alle prestazioni di assistenza sociale da parte di cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea, che costituisce un tema complesso per le implicazioni che tali prestazioni possono avere sul bilancio dello Stato e sulle risorse finanziarie disponibili.
La risposta della Corte costituzionale, sia pure prevedibile dopo la sentenza della Corte di giustizia , dimostra non solo l’apprezzabile avanzamento del livello di integrazione europea dal punto di vista sociale, bensì anche come la sinergia tra le due Corti Supreme sia in grado di produrre importanti risultati in termini di tutela dei soggetti più deboli.
I profili interessati dalla vicenda sono molteplici, ma il presente lavoro si colloca in una limitata prospettiva di indagine, in quanto non intende ricostruire in modo esaustivo l’intera problematica. L’obiettivo principale è quello di formulare alcune osservazioni, al fine di mettere in luce come le due pronunce delle Corti Supreme forniscano un’applicazione concreta del principio di solidarietà, che costituisce il fondamento della costruzione europea e della sua evoluzione futura.

2. Com'è noto, la cittadinanza europea ha un significato inclusivo per i cittadini degli Stati membri, in vista di “un’unione sempre più stretta tra i popoli europei”, ma anche escludente nei confronti dei cittadini di Stati terzi . Sicché, lo status dei cittadini extracomunitari non è paragonabile a quello dei cittadini europei, in quanto i primi non beneficiano degli stessi diritti dei secondi. Gli stessi cittadini degli Stati terzi non possono essere messi sul medesimo piano, considerato che essi si trovano in differenti situazioni giuridiche a seconda della condizione in cui versano (regolari, irregolari, soggiornanti di lungo periodo, familiari, lavoratori altamente qualificati, lavoratori stagionali, studenti, ricercatori e così via). Nondimeno, nell’Unione europea è stato avviato il passaggio da una fase improntata alla salvaguardia dei diritti dei cittadini europei ad una nuova fase, più solidale e inclusiva, caratterizzata dall’estensione di taluni di questi diritti alla persona in quanto tale, a prescindere dalla sua nazionalità e dal suo status particolare di migrante . Un contributo determinante in questa direzione è stato fornito tanto dalla Carta dei diritti fondamentali e dall’adozione di diversi atti di diritto dell’Unione quanto da una giurisprudenza evolutiva della Corte di giustizia e dal suo dialogo con i giudici nazionali. È questo il contesto in cui vanno inserite le pronunce delle due Corti supreme che riconoscono taluni diritti ai cittadini di paesi terzi, che si erano visti negare dalle autorità italiane il beneficio dell'assegno di natalità e di maternità non essendo titolari dello status di soggiornanti di lungo periodo.
È il caso di ricordare in merito al rapporto di cooperazione tra le due Corti supreme che dopo il discutibile obiter dictum contenuto nella sentenza 269/2017 , la Corte costituzionale ha modificato il suo orientamento restrittivo, non solo lasciando libertà di scelta al giudice nazionale se sollevare una questione pregiudiziale o di legittimità costituzionale, ma anche promuovendo il confronto con la Corte di giustizia . In quest’ultima prospettiva si è mosso il Giudice delle leggi, che nel caso in oggetto ha essenzialmente seguito lo stesso percorso utilizzato in occasione della vicenda del diritto al silenzio e alla non autoincriminazione in materia di sanzioni adottate dalla Consob. Anche in quella vicenda, infatti, la Corte di Cassazione si era rivolta alla Corte costituzionale e quest’ultima aveva coinvolto il giudice dell’Unione, sottoponendo alla sua attenzione alcuni quesiti pregiudiziali, per poi dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies t.u.f. nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che abbia omesso di fornire alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo ovvero per un reato. L’analogia con la vicenda delle sanzioni adottate dalla Consob si riscontra anche nel fatto che l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte di giustizia concorda con la conclusione alla quale perviene la Consulta . Ciò rappresenta una dimostrazione eloquente del dialogo costruttivo e diretto tra le due Corti per mezzo del rinvio pregiudiziale, che rimane la soluzione migliore per la soluzione dei conflitti, soprattutto su alcuni temi tipicamente “costituzionali” (come, ad esempio, i diritti fondamentali e l’immigrazione). Peraltro, occorre ricordare che nel caso di specie pendeva la “spada di Damocle” della procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea nei confronti dello Stato italiano a causa del non corretto recepimento della Direttiva 2011/98/UE.
Vero è che non sempre la Corte costituzionale si è rivolta alla Corte di giustizia per l’interpretazione della Carta dei diritti fondamentali, come ad esempio nella controversia inerente alla esclusione dal reddito di cittadinanza dei migranti non appartenenti all’Unione europea, ma presenti in Italia a titolo diverso dai soggiornanti di lungo periodo. In relazione a questa delicata questione il Giudice delle leggi ha recentemente affermato, senza coinvolgere la Corte del Kirchberg, che “il reddito di cittadinanza […] non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale” . In tal caso però l’omesso rinvio pregiudiziale discende dal fatto che l’art. 51 della Carta, sia pure interpretato estensivamente, non consente di attribuire a questa fonte del diritto dell’Unione una portata universale e omnicomprensiva tale da attrarre nella sua sfera applicativa tutte le situazioni che attengono ai diritti fondamentali . Infatti, non avendo l’ordinanza di rimessione spiegato il nesso tra le norme nazionali sul reddito di cittadinanza e il diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51 della Carta, la Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente inammissibili le questioni basate sugli artt. 20 e 21 della Carta. Al di là del merito della questione e, quindi, della possibile interpretazione della Corte di giustizia sul contenuto precettivo di queste norme della Carta, se il giudice remittente avesse fornito valide argomentazioni per far ricadere il reddito di cittadinanza nel cono d’ombra del diritto dell’Unione, richiamando anche le possibili direttive applicabili in materia (ad es. la Direttiva 2000/78 sul divieto di discriminazioni nell’accesso al lavoro e nei rapporti di lavoro), la Corte costituzionale avrebbe dovuto in qualità di giudice di ultima istanza sollevare un rinvio pregiudiziale ex art. 267, terzo comma, TFUE o, quanto meno, avrebbe dovuto prendere in maggiore considerazione la possibilità di collaborazione con il giudice europeo.

3. Per ricostruire brevemente la vicenda è necessario risalire all’ordinanza n.182/2020 con cui la Consulta ha interrogato la Corte di giustizia sulla possibilità di ricomprendere gli assegni di maternità e di natalità nell’ambito di applicazione dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentale e sulla compatibilità della normativa nazionale che esclude i cittadini di paesi terzi, titolari di permesso unico, dal beneficio di tali assegni con l’art. 12, par.1, lett. e) della Direttiva 2011/98 . Quest’ultima disposizione prevede che i lavoratori dei paesi terzi beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne i settori della sicurezza sociale definiti nel Regolamento n. 883/2004 . Lo Stato italiano ha cercato di circoscrivere la portata di questi atti dell’Unione, con un approccio restrittivo e limitativo nei confronti dei cittadini di Stati terzi, dando così origine a un ampio contenzioso che ha finito per coinvolgere la Corte costituzionale e la Corte di giustizia .
Da parte sua, con la sentenza del 2 settembre 2021, la Corte di giustizia aveva preliminarmente confermato la presunzione di rilevanza della questione pregiudiziale sottopostale dal giudice nazionale e aveva dichiarato la sua ricevibilità, nonostante i fatti di cui al procedimento principale fossero anteriori alla data di scadenza del termine di recepimento della Direttiva 2011/98. In particolare, la Corte di giustizia perveniva a questa conclusione sulla base della motivazione che l’interpretazione richiesta dal Giudice delle leggi presentava un rapporto con l’oggetto della controversia che riguardava esclusivamente la legittimità di disposizioni nazionali rispetto al diritto costituzionale nazionale letto alla luce del diritto dell’Unione. Questo ragionamento si completava richiamando gli effetti vincolanti della pronuncia della Corte costituzionale non solo nei confronti del giudice rimettente, bensì di tutti i giudici italiani.
Nel merito, la Corte costituzionale aveva richiesto l’interpretazione congiunta dell’art. 34 della Carta e della Direttiva che ne definisce il contenuto normativo e ne costituisce espressione concreta. Viene sempre più utilizzato questo binomio Carta-Direttiva, in quanto consente di superare i possibili ostacoli derivanti della sfera di applicazione del diritto dell’Unione e dalla sua efficacia diretta . In particolare, è ben noto che diverse sentenze della Corte di giustizia sono pervenute al riconoscimento dell’effetto diretto orizzontale di alcuni articoli della Carta per rimuovere i limiti strutturali delle direttive e, quindi, per produrre gli effetti che tale atto dell'Unione non è in grado di produrre nei rapporti orizzontali . Tuttavia, nel caso di specie non si poneva una questione di efficacia diretta orizzontale della Direttiva, in quanto l’atto dell’Unione era stato invocato nei rapporti verticali, vale a dire da soggetti privati nei confronti di un ente pubblico riconducibile allo Stato. Per questo motivo, verosimilmente, la Corte di giustizia ha incentrato la sua analisi principalmente sulla Direttiva 2011/98 (oltre che sul Regolamento 883/2004), piuttosto che sulla Carta dei diritti fondamentali, non dovendo preoccuparsi di estendere i diritti discendenti dalla Direttiva nei rapporti tra i privati né di soffermarsi sulla differente efficacia dei tre paragrafi dell’art. 34 della Carta .
In realtà, la Corte di giustizia neppure si è soffermata sulla questione generale dell’efficacia diretta della Direttiva 2011/98, attenendosi al contenuto dell’ordinanza di rinvio e dei quesiti pregiudiziali formulati dalla Corte costituzionale, che si è così riservata la possibilità, all’esito della valutazione del giudice dell’Unione, di dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, al fine di rimuoverla dall’ordinamento con effetti erga omnes, anziché dare spazio alla eventuale disapplicazione da parte degli organi giurisdizionali interni. Sta di fatto che la Corte costituzionale non ritiene più di sanzionare con l’inammissibilità per difetto di rilevanza la questione di legittimità costituzionale nell’ipotesi in cui l’organo giurisdizionale nazionale abbia deciso di coinvolgerla in merito a norme dell’Unione provviste di efficacia diretta inerenti ai diritti fondamentali . Pertanto, il riferimento alla Carta dei diritti, ai fini della soluzione del giudizio di compatibilità della norma interna con la Direttiva, corrobora l’esigenza di un giudizio accentrato di costituzionalità, sia pure dopo l’intervento della Corte di giustizia.
Va considerata poi l’esigenza di interpretare conformemente alla Carta tanto la normativa nazionale nell’attuazione del diritto dell’Unione quanto la Direttiva , che nelle situazioni di rilevanza comunitaria impone al giudice interno di dare comunque agli atti dell’Unione e nazionali un significato conforme al livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dalla Carta. Nel caso in esame il principio dell’interpretazione conforme alla Carta poteva però trovare applicazione soltanto in relazione alla Direttiva , in considerazione dell’insanabile conflitto della disciplina interna con il diritto dell’Unione e, quindi, dell’impossibilità di ricorrere a un’interpretazione contra legem.
Entrando in media res, l’arresto della Corte di giustizia ha ricondotto gli assegni di maternità e di natalità nell’ambito dei settori della sicurezza sociale definiti nel Regolamento n. 883/2004, al fine di consentire ai cittadini extracomunitari di beneficiare della parità di trattamento prevista dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), di detta Direttiva. La Corte europea è pervenuta a tale affermazione sulla base di motivazioni lineari e convincenti, optando per un’interpretazione che ha valorizzato gli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare le sue finalità ed i presupposti per la sua applicazione. La trama argomentativa ha privilegiato quindi la sostanza sulla forma e si è collocata nel solco del diritto dell’Unione, che spesso ha utilizzato una propria terminologia superando gli ostacoli derivanti da rigidi schemi formali o ristrette qualificazioni giuridiche nazionali. In tal senso, infatti, le sentenze pregiudiziali della Corte di giustizia hanno definito nozioni autonome, come, ad esempio, quelle di lavoratore dipendente , di impresa , di giurisdizione nazionale e di autorizzazione , con l’obiettivo di evitare che le norme interne escludano unilateralmente persone, enti e organi dalla sfera di applicazione del diritto dell’Unione.
Muovendo da questa premessa e da una costante interpretazione estensiva della nozione di sicurezza sociale nella giurisprudenza della Corte di giustizia , quest’ultima ha chiarito che la concessione delle prestazioni di cui si discute non dipende da una valutazione individuale e dalle esigenze personali del richiedente, bensì da criteri oggetti e legalmente definitivi. Quanto all’assegno di natalità, si tratta di un contributo pubblico al bilancio familiare ai sensi dell’art. 3, par.1, lett. j), del Regolamento n. 883/2004 che inizialmente veniva concesso tenendo conto delle risorse del nucleo di appartenenza del genitore richiedente sulla base di un criterio oggettivo stabilito ex lege e successivamente è stato attribuito indipendentemente dal livello del reddito del nucleo familiare, sia pure calcolando il suo importo sulla base di questo indicatore economico. Allo stesso modo, l’assegno di maternità viene concesso sulla base del criterio oggettivo della condizione economica del richiedente e per questo motivo è stato ricondotto nell’ambito del settore della sicurezza sociale di cui all’art. 3, par. 1, lett. b) del Regolamento 883/2004. Come logica conseguenza della propria qualificazione giuridica degli assegni di maternità e di natalità, la Corte di giustizia ha messo in chiara evidenza che tali prestazioni di sicurezza sociale non possono essere negate ai soggetti che non beneficiano dello status di soggiornanti di lungo periodo, non avendo, peraltro, lo Stato italiano deciso di avvalersi della facoltà prevista dalla Direttiva di derogare al diritto alla parità di trattamento né fornito alcuna giustificazione razionale e trasparente per limitare questo diritto

4. Con la sentenza n. 54 del 4 marzo 2022 la Consulta ha chiuso il fruttuoso dialogo in merito alla legittimità della legislazione nazionale che escludeva dagli assegni di natalità e di maternità i cittadini di Paesi terzi non soggiornanti di lungo periodo, recependo correttamente le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia nella sentenza appena riportata .
La Consulta è stata chiamata a sindacare la ragionevolezza e la congruità delle provvidenze de qua attraverso un’analisi fondata non solo sui parametri costituzionali, ma anche sulle norme dell’Unione applicabili in materia. Partendo dal cd. bonus bebè, è utile ricordare che secondo il giudice rimettente la limitazione dell’assegno ai bambini nati da stranieri extracomunitari titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo andava a nocumento proprio dei soggetti nati in condizione di maggiore indigenza. Condizione, questa, desumibile dal fatto che i loro genitori erano sprovvisti dei requisiti necessari all’ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo . In tal senso, è stato prospettato anzitutto il contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art.3 e poi con l’art. 31 Cost., che sancisce l’obbligo per l’ordinamento italiano di agevolare con misure economiche e altre provvidenze la formazione e lo sviluppo della famiglia, proteggendo la maternità, l'infanzia e la gioventù. Inoltre, la Cassazione ha sollevato anche la questione del contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 della Carta di Nizza che elevano a diritti fondamentali protetti dall’ordinamento dell’Unione la tutela dell’infanzia (art.24), il divieto di discriminazione (artt.20 e 21), nonché la protezione della famiglia (art.33) e il diritto alla sicurezza ed assistenza sociale (art.34).
Di contro, l’INPS ha chiesto alla Corte di respingere tutti i sopra menzionati rilevi sul presupposto che «la disposizione censurata risponderebbe all'esigenza di incrementare il tasso di natalità e introdurrebbe una provvidenza che, al pari di analoghe misure disciplinate da alcune leggi regionali, non tutelerebbe bisogni primari della persona (…). Non sarebbe, pertanto, né irragionevole né lesiva dell'art. 117 Cost. (…) spett(ando) pur sempre alla discrezionalità del legislatore l'individuazione dei presupposti delle prestazioni sociali, in considerazione delle limitate risorse finanziarie disponibili» . A sostegno delle argomentazioni dell’INPS, la difesa dello Stato italiano, costituito in giudizio, ha aggiunto che il limite indicato dalla disciplina nazionale sarebbe stato giustificato per scongiurare il "turismo assistenziale" .
Con riguardo all’assegno di maternità, anch’esso attribuito unicamente ai cittadini dell’Unione e agli stranieri soggiornanti di lungo periodo , la Cassazione ha sollevato i medesimi dubbi di legittimità costituzionale prospettati per il bonus bebè. Secondo il giudice remittente, infatti, anche la disposizione in esame contrasterebbe con i principi di eguaglianza e ragionevolezza, introducendo «un criterio selettivo disancorato dallo stato di bisogno e dalla finalità del beneficio, che mira a soddisfare «esigenze primarie» connesse alla nascita o all'adozione di un bambino, e determinerebbe così arbitrarie disparità di trattamento tra situazioni omogenee» . Inoltre, anche in questo caso il giudice a quo ha sottolineato come il limite soggettivo stabilito dalla disciplina violerebbe l’art.31 Cost., non tutelando le situazioni di maternità, che presumibilmente si caratterizzano per un maggiore disagio socio-economico. Infine, anche questa ipotesi è parsa in contrasto con i sopra menzionati parametri di legittimità comunitaria (art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 CDFUE), non rispettando i vincoli atti a garantire la tutela della famiglia né, più in generale, l’assistenza e la previdenza sociale. Sul punto, si è costituita anche la parte ricorrente nel giudizio principale, evidenziando come l’assegno in questione fosse concesso a donne prive di sostegno economico alla maternità, che non lavorano né possono lavorare in ragione dei divieti concernenti i mesi successivi al parto. Inoltre, poiché la madre è «una donna tendenzialmente giovane», non potrebbero valere le considerazioni sul contributo pregresso, svolte dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 50 del 2019 con riferimento all'assegno sociale, che si rivolge alle persone che abbiano compiuto 65 anni di età ed è, quindi, finalizzato a ricondurre le provvidenze allo stabile inserimento dello straniero in Italia .
Anche sotto questi profili, secondo la difesa dello Stato, le questioni sarebbero manifestamente infondate, in quanto lo scopo della norma sarebbe quello di incentivare la natalità e non anche di migliorare le condizioni di vita della madre. Per questi motivi, secondo l’Avvocatura di Stato, «sarebbe ragionevole e compatibile con gli altri parametri costituzionali invocati la scelta di richiedere «un sufficiente radicamento» sul territorio nazionale, anche nella prospettiva di «un attento contemperamento dei diritti individuali/familiari con le imprescindibili esigenze di compatibilità finanziaria della relativa spesa» .
Orbene, al Giudice delle Leggi è spettato il compito di determinare le reali finalità degli assegni in esame, per poi valutarne la legittimità costituzionale, in conformità anche alla più ampia prospettiva indicata dal giudice europeo.
A tal fine la Consulta ha ritenuto opportuno, in primo luogo, un’analisi dell’evoluzione del quadro normativo in cui si inserisce la legislazione in questione. Essa ha ricordato, infatti, come il legislatore nazionale sia intervenuto subito dopo il rinvio alla Corte di giustizia a modificare il quadro normativo con la legge n.46 del 1° aprile 2021 . In particolare, l'art. 3, comma 1, lettera a), numero 2), della legge delega ha posto le premesse per il superamento o la graduale abolizione dell'assegno di natalità di cui si discute. Vero è che il decreto legislativo 29 dicembre 2021, n. 230 -, in attuazione della delega, ha istituito un assegno unico e universale per i figli a carico a decorrere dal 1° marzo 2022. Nella sentenza si segnalano anche le modifiche introdotte dall'art. 3 della legge 23 dicembre 2021, n. 238 , che ha ridefinito le condizioni di accesso dei cittadini dei Paesi terzi alle prestazioni sociali sia in termini generali che con specifico riguardo all'assegno di natalità e all'assegno di maternità. In particolare, la riforma ha previsto l'equiparazione degli stranieri titolari di permesso di soggiorno UE di lungo periodo ai titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, e introdotto, all’art. 41, comma 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 (inserito dall'art. 3, comma 1, lettera b), della legge n. 238 del 2021), le condizioni per la «fruizione delle prestazioni costituenti diritti alle quali si applica il Regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale». In definitiva, il nuovo quadro legislativo assimila ai cittadini italiani ed europei gli stranieri titolari di permesso unico di lavoro , estendendo così l’ambito di applicazione soggettiva per l’ottenimento dell’assegno sia di maternità che di natalità.
La Corte riconosce che le nuove norme non sono applicabili al giudizio de qua, che concerne avvenimenti anteriori alla novella , ma sembra fare espresso riferimento ad esse per meglio leggere ed interpretare la volontà del legislatore di conformarsi al diritto dell’Unione e di rimuovere le ormai “vecchie” disposizioni oggetto di censura. Secondo la Consulta, infatti, non è «eccentrico» il richiamo del giudice remittente all'art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998 che equipara gli stranieri ai cittadini italiani, per sostenere l'irragionevolezza della deroga fissata dalle norme in commento rispetto ai principi generali che sovraintendono i sistemi di accesso alle prestazioni di assistenza. Piuttosto, tale riferimento evidenzia, secondo la Corte, un elemento imprescindibile per valutare l’operato del legislatore e accertare una «specifica, trasparente e razionale» giustificazione delle eventuali deroghe» . Da questo dato la Suprema Corte ha dedotto che la stessa riforma del 2021 trova sostanziale ancoraggio nel medesimo art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998 e siffatta evoluzione del quadro legislativo, in senso ad esso conforme, può senz’altro aiutarla a meglio scrutinare la conformità alla Costituzione delle scelte di volta in volta compiute dal legislatore.
Tale esame è poi stato sostanzialmente favorito dalla risposta fornita da giudice comunitario, nella suddetta pronuncia, per cui entrambi gli assegni vanno correttamente inseriti nell’ambito delle prestazioni di cui al Regolamento(CE) n. 883/2004. In particolare, per quel che concerne il bonus bebè accoglie l’indicazione del giudice europeo secondo cui l’assegno costituisce una prestazione previdenziale poiché concesso «in base a criteri obiettivi, attinenti al reddito e alla composizione del nucleo familiare e svincolati da una valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali dei beneficiari» . Tale assegno viene qualificato, inoltre, come prestazione familiare, in quanto contribuisce a supportare il bilancio delle famiglie, che risulta evidentemente aggravato a seguito della nascita o dell’adozione di un nuovo membro. Analogamente, l’assegno di maternità è considerato una previdenza sociale perché viene concessa su specifici requisiti fissati ex lege, che esulano da qualunque apprezzamento individuale dei soggetti interessati.
La Consulta ha richiamato altresì il passaggio della Corte di giustizia in cui si evidenzia che lo Stato italiano non ha esercitato l’opzione - di stretta e rigida interpretazione – prevista dall’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della Direttiva 2011/98/UE – che consente agli Stati di derogare alla parità di trattamento nei settori della sicurezza sociale .
Chiarite le «coordinate nazionali ed europee», la Corte costituzionale è pervenuta a dichiarare la fondatezza delle questioni sollevate dalla Cassazione, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE, così come concretizzato nelle norme di diritto derivato. In tal senso, la limitazione soggettiva stabilita dalle disposizioni censurate è risultata costituzionalmente illegittima sia rispetto ai parametri interni che europei, nella piena realizzazione di quella sinergia di intenti prospettata nell’ordinanza di rimessione. In questo modo l’art. 34 CDFUE - “riempito” dei contenuti e definito nel suo perimetro applicativo dal Regolamento 883/2004 e dalla Direttiva 2011/98/UE - secondo la Consulta «si raccorda ai principi consacrati dagli artt. 3 e 31 Cost. e ne avvalora e illumina il contenuto assiologico, allo scopo di promuovere una più ampia ed efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi» . La Corte non nega la discrezionalità del legislatore nella realizzazione delle politiche di previdenza, ma ne rimarca la subordinazione al principio di ragionevolezza che deve sovraintendere l’azione normativa. Nel caso di specie, l’individuazione dei criteri di selezione all’accesso degli assegni di maternità e natalità è apparsa ultronea, non proporzionata e, quindi, irragionevole alla luce della natura delle provvidenze in commento. Quest’ultime, infatti, costituiscono misure atte a sostenere particolari situazioni di bisogno legate all’evento della nascita o dell’adozione, con il precipuo compito di venire incontro a nuovi ed evidenti aggravi economici. In tal senso, la limitazione soggettiva delle norme censurate appare “irrazionale” e non idonea a concretizzare la rimozione di quegli ostacoli di ordine economico- sociale di cui all’art. 3 Cost., né ad agevolare la formazione della famiglia come richiesto dall’art. 31 Cost.

5. La sentenza in esame rappresenta un utile metro per misurare lo spazio intercorrente tra competenze nazionali ed europee nel campo delle politiche sociali. Infatti, le norme in questione rientrano senz’altro nelle legislazioni in materia di previdenza ed assistenza sociale che, come noto, costituiscono un settore di competenza concorrente ai sensi dell’art.4, paragrafo 2, lettera b del TFUE, secondo cui l’Unione può intervenire nel settore della politica sociale limitatamente agli aspetti definiti dal Trattato FUE. In tal senso, la libera circolazione dei lavoratori – perno dei Trattati europei - ha giustificato sin dall’origine l’adozione da parte del legislatore comunitario di norme volte al coordinamento dei diritti sociali . L’affermazione della cittadinanza europea ha successivamente esteso tali diritti ai soggetti economicamente inattivi, giustificando interventi di coordinamento sempre più ampi. Certamente tra questi rientra il citato Regolamento n. 883/2004 (che sostituisce il Regolamento (CEE) n.1408/71 del 14 giugno 1971), il quale semplifica un contesto normativo stratificato attraverso una disciplina onnicomprensiva sia ratione materiae che ratione personae . Infatti, il Regolamento, prevede disposizioni relative a tutti i settori della sicurezza sociale (previdenziale, assistenziale, assicurativo e di tutela della salute e sicurezza del lavoratore) ed è indirizzato a tutti i cittadini dell’UE, quindi non solo ai lavoratori ma anche ai soggetti inattivi (familiari, superstiti, invalidi, ecc.). Invero, lo stesso Regolamento riserva, attraverso una serie di allegati, ampio spazio alle scelte dei legislatori nazionali, nel rispetto delle differenze socio – economiche dei diversi modelli di welfare. Il rispetto della disciplina europea, quantunque di ampia portata, è quindi dichiaratamente limitato alle fattispecie di rilevanza europea e al rispetto delle misure individuate a livello nazionale. Il quadro normativo di riferimento non è, dunque, unificato a tal punto da consentire una qualificazione univoca delle misure nazionali di assistenza e previdenza sociale ed è per queste ragioni che la sentenza in commento appare un prezioso strumento di indagine. Il richiamo dei vincoli comunitari (tra cui l’art. 34 CDFUE, il Regolamento 883/2004 e la Direttiva 2011/98) è, infatti, subordinato in primis all’esistenza di una fattispecie di interesse europeo e, in seconda battuta, all’esistenza di una normativa nazionale che non si è avvalsa degli spazi di autonomia pur riconosciuti dalla stessa normativa europea. In questo senso, il diritto dei cittadini extracomunitari non soggiornanti di lungo periodo giustifica l’applicazione del diritto dell’Unione nella misura in cui lo stesso diritto nazionale stabilisce, all'art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, l’equiparazione degli stranieri ai cittadini italiani ed europei senza avvalersi dei poteri derogatori concessi dalla Direttiva 2011/98.
È in virtù di queste premesse che la Consulta è pervenuta alla conclusione che le scelte del nostro legislatore in questa peculiare ipotesi debbano essere scrutinate anche alla luce dei dettami costituzionali europei, che corroborati, come nel caso in questione, da una ricca disciplina di dettaglio giustificano l’“ingerenza” del diritto dell’Unione in fattispecie che, evidentemente, non possono più essere contenute in una dimensione meramente nazionale. La linea di confine che segna il passaggio tra questioni di competenza puramente interne e questioni di rilievo europeo in materia di diritti sociali sembra, quindi, sempre più assottigliarsi. Ciò si realizza questa volta grazie allo stesso Giudice delle leggi che, in totale autonomia, esibisce una dichiarata sensibilità europea e censura il nostro legislatore, dopo un confronto aperto con il giudice dell’Unione.
A nostro sommesso avviso, il risultato cui perviene la sentenza sarebbe stato raggiunto anche in assenza del rinvio pregiudiziale. Infatti, la Consulta fornisce nelle sue argomentazioni contenute nella ordinanza di rimessione e nella sentenza n. 54/2022 una prova inconfutabile dell’elevato grado di maturità orami raggiunto rispetto ai rilevanti profili europei. Pertanto, la necessità del conforto del giudice lussemburghese sembra in queste circostanze giustificata dalla delicatezza dei temi in causa che, come sopra precisato, si collocano nel “limbo” delle competenze concorrenti, la cui attrazione nel cono d’ombra del diritto europeo pare ancora oggetto di particolare attenzione da parte degli ordinamenti nazionali. In altri termini, nella sentenza in commento la Corte costituzionale rimarca l’estensione delle competenze europee in materia di politiche sociali e, a questo fine, sembra gradire l’avallo del giudice dell’Unione. In definitiva, lo spazio di manovra conferito al legislatore nazionale in materia di politiche sociali appare ridotto a seguito di questa pronuncia che - pure alla luce della recente riforma del 2021 sull’assegno universale per i figli a carico - intende avere un significato più ampio rispetto alla semplice dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme censurate.

6. Con la pronuncia in commento sembra che la Corte abbia voluto affermare a chiare lettere il principio di solidarietà, pur non richiamandolo mai espressamente. L’impressione è che la sentenza, attraverso questo intreccio di Corti e di Carte, abbia inteso valicare gli stretti limiti dei doveri solidaristici, affermati anche nell’art. 2 della nostra Costituzione , al fine di promuovere e valorizzare il più ampio principio di solidarietà di matrice europea , della cui rilevanza sembrano ormai avvedersi pure gli Stati membri . Invero, la Consulta già da tempo, proprio in materia di stranieri e prestazioni previdenziali , aveva trovato “la quadra” grazie al dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., in virtù del quale è riuscita a tutelare la persona in quanto tale, a prescindere dal requisito della cittadinanza . Pertanto, è possibile collocare la giurisprudenza in epigrafe nel solco di questi precedenti in cui è stato riconosciuto il diritto degli stranieri ad essere equiparati ai cittadini nazionali ai fini delle politiche di welfare. In particolare, in più occasioni , è stata sancita l’incostituzionalità di alcune leggi regionali che, limitando gli interventi di solidarietà sociale ai soli cittadini italiani, vanificavano gli intenti degli artt.2 e 3 della Costituzione .
Il valore aggiunto della giurisprudenza in commento è quindi dato da una lettura delle rilevanti norme costituzionali che travalica la dimensione prettamente nazionale per confrontarsi, attraverso l’art.117 Cost., con i vincoli europei, segnatamente con l’art. 34 CDFUE, che, non a caso, rientra nel titolo della Carta espressamente intitolato alla “Solidarietà”, e con le norme che ne definiscono il contenuto. La Corte costituzionale sembra promuovere anche in questa occasione, per mezzo della più ampia dimensione offerta dalla Carta di Nizza, il suo approccio solidaristico volto alla tutela della persona in quanto tale. Al riguardo, la Corte ricorda che la sua azione deve essere realizzata «in una prospettiva di massima espansione delle garanzie» , avvicinandosi in tal modo all’affermazione di un principio di solidarietà universale che punta al massimo conferimento delle tutele. Esulando da qualsiasi lettura formale e letterale della sentenza, il principio di solidarietà sembra contenuto nella statuizione della Corte secondo cui «la tutela dei valori primari della maternità e dell’infanzia, tra loro inscindibilmente connessi, non tollera distinzioni arbitrarie e irragionevoli» . La Corte nelle sue motivazioni non dedica spazio alla solidarietà come principio generale, prediligendo un approccio pragmatico e sostanziale, che concretizza tale principio attraverso un’applicazione ampia e generalizzata delle provvidenze in esame. Tale scelta se, da un lato, può apparire come un’occasione mancata per i teorici della solidarietà, dall’altro lato, rappresenta un ottimo esempio di solidarietà de facto e universale. Aiutare le categorie più deboli, sostenere chi ha bisogno a prescindere da rigidi requisiti di reddito o di cittadinanza: questa sembra la vera frontiera della solidarietà sociale europea di cui la Consulta diventa autorevole portavoce, non solo nella sua veste di Giudice delle leggi, ma nel suo rinnovato ruolo di “amica” della Corte di giustizia.

7. In definitiva, attraverso i singoli passaggi della vicenda qui in commento, la Corte costituzionale è riuscita a promuovere un avanzamento delle tutele sociali offerte dall’ordinamento nazionale in senso solidaristico ed universale. L’adeguamento del nostro legislatore al suddetto approccio appare senz’altro favorito dal rinvio alla Corte di giustizia. La Consulta sembra in tal modo avere indirettamente allertato il potere legislativo sulla necessità di rispettare i parametri europei anche in tema di diritti sociali.
A bene vedere, la Magna Charta dell’Unione ha ricevuto finanche una maggiore attenzione da parte della Corte costituzionale rispetto alla Corte di giustizia. Difatti, quest’ultima ha accertato l’antinomia delle norme nazionali non solo con la Direttiva ma anche con la Carta dei diritti fondamentali, quale parametro interposto di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost., a differenza della Corte di giustizia che ha incentrato il suo giudizio di incompatibilità soltanto sull’atto di diritto derivato dell’Unione.
Ad ogni modo, i vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione sembrano oramai lasciare poco spazio a chiusure e restrizioni anche nel campo dell’assistenza sociale, che tradizionalmente rappresenta un settore gelosamente custodito dagli Stati membri. Soprattutto in un momento storico in cui la solidarietà europea è diventata la risposta più efficace alle continue crisi ed emergenze , il legislatore nazionale deve agire conformemente a questo valore fondamentale dell’Unione, rendendo residuali possibili argomenti contrari. È il caso della “sostenibilità finanziaria” e della minaccia del “turismo assistenziale”, che diventano giustificazioni sempre più deboli a fronte dell’esigenza di realizzare sistemi di welfare aperti e solidali. Per quanto attiene al requisito della “sostenibilità finanziaria”, occorre porre in chiara evidenza che la Corte ha escluso espressamente che tale limite possa rilevare nel caso di specie. La «limitatezza delle risorse disponibili» e, quindi, la legittimità di misure sociali strettamente selettive sono recessive rispetto alla soddisfazione di “un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale” , riflettendo tale bisogno il godimento dei diritti inviolabili della persona. Sotto questo profilo, infatti, la prestazione non è tanto una componente dell’assistenza sociale, quanto un necessario strumento di garanzia di un diritto inviolabile della persona (art. 2 Cost.) . Per quel che concerne il «turismo assistenziale» paventato dalla difesa dello Stato italiano e invocato come ratio giustificatrice del requisito del radicamento territoriale, è evidente l’infondatezza di tale argomento, poiché le misure in esame non costituiscono un benefit di cui avvalersi in maniera premeditata (come potrebbe accadere, ad esempio, nel caso del reddito di cittadinanza) , ma un sussidio fondamentale concesso in presenza di eventi imprevisti, quali la maternità e la nascita di un bambino.
In conclusione, la sentenza in esame è un fulgido esempio di come il principio di solidarietà - inteso non come mero intento programmatico ma come autentico parametro interpretativo - stia guadagnando progressivamente spazio nella giurisprudenza costituzionale e conducendo ad importanti risultati, grazie a quel processo osmotico tra ordinamenti nazionale ed europeo in relazione alla tutela dei diritti.

 

 

 

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