TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. La questione della subordinazione oggi.
La classica questione della subordinazione, vale a dire dell’art. 2094 c.c., tuttora la Grundnorm del diritto del lavoro, sta vivendo una rinnovata, vivace stagione nel dibattito dottrinale.
La moda del momento, cui la dottrina dominante soggiace, è lo <sfrangiamento> della fattispecie descritta nella norma codicistica finalizzato ad accogliere le nuove tipologie di lavori indotte dalla rivoluzione digitale e, al seguito di tale sfrangiamento, la (irrealistica) disarticolazione della disciplina tipica in funzione del suo adattamento ad esse. Pur se non manca chi, meno elegantemente, rispolvera la moda d’antan prospettando l’assorbimento tout court di quelle tipologie nella fattispecie dell’art. 2094 con conseguente applicazione dell’intera disciplina tipica.
Mi preme avvertire subito che, da giuslavorista eretico, e quindi démodé, dall’una e dall’altra moda mi terrò distante per procedere con ordine, seguendo diacronicamente l’evoluzione della questione dai primordi.

2. I primordi
Gli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo furono caratterizzati, in giurisprudenza, dalla c.d. pan-subordinazione, alla stregua del principio guida del favor lavoratoris e in forza del criterio della presunzione di subordinazione.
Sono tuttavia opportune due puntualizzazioni. Per un verso in quegli anni (della ricostruzione e del miracolo economico) lo “sport” nazionale praticato in prevalenza dai datori di lavoro era la fuga dal diritto del lavoro, mal contrastabile mediante l’ordinario processo civile, cosicché la rete di detta presunzione nei fatti raccoglieva scarsi frutti. Per altro verso, fino alla riforma processuale del 1973 con l’avvento della fattispecie delle co.co.co., l’ordinamento era polarizzato sul dualismo lavoro subordinato e lavoro autonomo (id est, contratto d’opera).
La dottrina, per parte sua, si impegnava, parallelamente a quella giurisprudenza, in speculazioni teoriche finalizzate a fornire alla fattispecie dell’art. 2094 più una identità (rispetto ad altre fattispecie codicistiche) che una capacità discretiva in funzione della qualificazione dei casi concreti, e quindi di una eventuale diversificazione della disciplina protettiva loro applicabile.
La mia analisi critica, con i relativi riferimenti, è rinvenibile nella monografia sul dirigente d’azienda del 1974 . In essa, preso atto che alla fattispecie dell’art. 2094 venivano correntemente ricondotti casi concreti estremamente eterogenei, proposi, quindi, in certo senso, da precursore, di sperimentare, a partire dalla categoria dei dirigenti, la disarticolazione della disciplina tipica (nonché, in quell’ambito, di quella speciale ablativa).
Mi convinsi successivamente ad abbandonare tale prospettazione per l’acquisita consapevolezza che, specie al di là del lavoro dirigenziale, avrebbe comportato l’attribuzione all’interprete di una assoluta discrezionalità, inconciliabile con un ordinamento giuridico positivo e incompatibile con il valore, di sicuro rilievo costituzionale, della certezza del diritto (quantomeno nei limiti della sua ragionevole conseguibilità).

3. La stagione delle co.co.co.
Sul finire degli anni settanta e nel corso degli anni ottanta, malgrado la crisi che lo affliggeva, il sistema economico-produttivo conobbe una stagione di grandi trasformazioni, specie nei settori dei servizi e della logistica, e, in dipendenza di esse, vide l’emersione di variegate tipologie di lavori ascrivibili alla fisiologica, piaccia o non piaccia, zona grigia tra subordinazione e autonomia.
La giurisprudenza, preso atto che nell’ordinamento esisteva una fattispecie deputata ad accogliere detti lavori ed altresì che nella ricostruzione della fattispecie dell’art. 2094 c.c., l’etero-direzione (priva di autonoma capacità qualificatoria, donde appunto il porsi stesso della questione della subordinazione) andava integrata con l’etero-organizzazione, intesa quale stabile ed organico inserimento del lavoratore all’interno dell’organizzazione produttiva, ha iniziato ad elaborare una serie di indici sulla base dei quali, negli specifici casi concreti, poter distinguere simile inserimento dal coinvolgimento funzionale del collaboratore nell’organizzazione produttiva, coessenziale alla fattispecie dell’art. 409, n. 3, c.p.c.
Mentre la dottrina prevalente perseverava nelle speculazioni teoriche finalizzate a distinguere in astratto le fattispecie previste dalle due norme ho preferito dedicarmi all’analisi delle operazioni giurisprudenziali incardinate sull’utilizzo degli indici (di inserimento stabile ed organico del lavoratore nell’organizzazione produttiva) per offrire, su quel terreno, un contributo critico che, almeno ai miei occhi, potesse apparire utile a chi detto utilizzo andava facendo. Anche su ciò tornerò più avanti.
D’altronde, la scelta rispondeva al mio risalente convincimento che la riconduzione degli specifici rapporti lavorativi alla fattispecie dell’art. 2094 c.c. vada necessariamente operata alla stregua della loro sussunzione in essa non per identificazione (con gli, insufficienti, elementi costitutivi offerti dalla norma) bensì per approssimazione (con il tipo sociale sotteso a tali elementi e coerente con la correlata disciplina tipica).
Come dicevo, dunque, sono andato analizzando l’utilizzo giurisprudenziale del metodo degli indici nella sua evoluzione (in una fase, è stata adottata, nei casi più incerti, la presunzione di conformità al nomen iuris attribuito dalle parti) e ne ho considerato gli esiti con riguardo alle tipologie di lavori coordinati senza subordinazione provvisti di una apprezzabile fisionomia sociale. Mi sono formato così l’opinione che detto utilizzo si fosse consolidato in un assetto applicativo equilibrato e dagli esiti (nei limiti della ragionevolezza) prevedibili.
Poiché il frutto della mia analisi non è condensabile in poche battute, confido che gli organizzatori del Focus mi perdoneranno se, tradendo forse l’intestazione stessa di esso, mi asterrò da una ricognizione degli indici giurisprudenziali rinviando agli scritti nei quali sono andato svolgendola ex professo . Ciò non toglie che sulla questione degli indici, in generale, tornerò più avanti.

4. La stagione del contratto a progetto.
Agli inizi del primo decennio di questo secolo l’anzidetto assetto giurisprudenziale è stato investito da un interventismo legislativo che continuo a considerare improvvido e la cui ragione di fondo ho sempre ravvisato nella miopia dello stesso legislatore, il quale, nei decenni precedenti, non si era dato carico di corredare la fattispecie dell’art. 409, n. 3, c.p.c. di una specifica disciplina protettiva più ampia di quella, elementare, concernente la copertura pensionistica, per malattie e per infortuni.
Tale miopia ha infatti favorito il maturare di una marcata ostilità nei riguardi delle co.co.co., considerate veicoli di fuga fraudolenta dalle tutele del lavoro. Ostilità che ha trovato la sua teorizzazione nel “Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia” del 21 ottobre 2001 e la sua prima traduzione legislativa nel D. lgs. n. 276/2003 (c.d. Legge Biagi).
Nel contesto della riforma, prima preconizzata e poi attuata, lo sfavore nei riguardi di quella fattispecie aveva peraltro anche la funzione, sul piano ideologico, di contrappeso pro labour della c.d. flessibilizzazione/riduzione delle tutele; ciò, un po’ come sarebbe accaduto con l’art. 2, comma 1, D. lgs. n 81/2015 [da ora, art. 2, comma 1] nel contesto della nuova <Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni>, c.d. Jobs Act.
Il decreto del 2003, negli artt. 61-68, ha operato così la sostanziale incorporazione, con conseguente marginalizzazione, delle co.co.co. nel c.d. lavoro a progetto [<devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici>; così dopo il 2012, per la soppressione delle originarie aggiunte <o programmi di lavoro o fasi di esso>], poi perfezionata (per così dire) dalla L. n. 92/2012 (c.d. legge Fornero) con la revisione di quegli articoli e con l’aggiunta degli artt. 69 e 69-bis.
L’innovazione legislativa, pur dovendo scontare, data anche la caoticità della regolamentazione offerta, il dispiegarsi di un ampio contenzioso giudiziario, ha inevitabilmente inciso, con il meccanismo delle presunzioni, sull’esito delle operazioni giurisprudenziali anche quando ancora memori del metodo degli indici di subordinazione .
Il menzionato decreto n. 81 del 2015 ha posto fine alla vicenda del lavoro a progetto abrogando tutti gli articoli che lo disciplinavano (art. 52, comma 1) e, al tempo stesso, ha esplicitamente consacrato la permanente vigenza dell’art. 409 c.p.c., id est delle co.co.co. (art. 52, comma 2).
Il legislatore del Jobs Act tuttavia, al pari di quello a suo tempo ispirato dal Libro Bianco, non si è dato carico di prevedere congrue tutele, aggiuntive rispetto a quelle già derivanti della copertura assistenziale e previdenziale derivante dall’iscrizione alla Gestione separata dell’Inps, per prestazioni lavorative non subordinate ma pur sempre economicamente dipendenti e funzionalmente collegate con l’organizzazione produttiva dell’impresa committente. Né lo ha fatto il D. Lgs. 101/2019 che si è limitato a qualche ritocco di detta copertura (art. 2-bis).

5. La stagione dell’art. 2, comma 1, d. lgs. 81/2015.
Il legislatore del 2015, invece, presumibilmente per soddisfare le esigenze del politically correct di un Governo guidato dal PD e senza un adeguato supporto tecnico-giuridico, ha ritenuto di poter creare una ulteriore fattispecie generale di lavoro (ora comunemente definito etero-organizzato), intermedia tra quelle degli artt. 2094 c.c. e 409, n. 3, c.p.c., ricollegandole l’intera disciplina tipica del lavoro subordinato.
Questo, tout court e improvvidamente, sempre a mio avviso, giacché, come ammesso dalla celebrata sentenza n. 1663/2020 della Suprema Corte, nel dichiarato esercizio della funzione nomofilattica, e dalla dottrina dominante, non tutti i tratti di quella disciplina sono compatibili con le caratteristiche peculiari delle nuove tipologie di lavori indotte dalla rivoluzione digitale. Sul punto tornerò più avanti.
Il banco di prova per le esercitazioni ermeneutiche sulla nuova norma, prima in dottrina e subito dopo in giurisprudenza, è stato offerto dalla tipologia emergente dei c.d. riders, in un clima politico-mediatico acceso, apparendo essi, per alcuni versi, assimilabili all’archetipo di lavoratore subordinato. Appartengono ad un ceto sociale debole, lavorano per strada in qualunque condizione atmosferica, sono prevalentemente immigrati, la piattaforma può localizzarli, non godono di alcuno statuto protettivo (a parte la primissima esperienza di Foodora, le imprese del delivery non stipulano con loro contratti di co.co.co.).
Di contro, però, la loro collaborazione presenta alcuni tratti caratterizzanti radicalmente incompatibili non solo con la fattispecie dell’art. 2094 c.c. ma anche con qualsiasi fattispecie di attività etero-organizzata. Infatti non hanno l’obbligo di lavorare, ed oltre al se, sono liberi di stabilire il quando, il quanto, il dove (potendo scegliere il luogo in cui posizionarsi per ricevere le chiamate della piattaforma), il come (con quale mezzo e secondo quale percorso) lavorare. Infine, non hanno neppure l’obbligo di fedeltà (potendo collegarsi liberamente a più piattaforme).
La persistente miopia del legislatore del 2015 poc’anzi denunciata ed altresì quella delle imprese del delivery, che hanno ritenuto troppo scomodo il ricorso alla fattispecie dell’art. 409, n. 3, c.p.c., hanno creato le migliori condizioni affinché negli interpreti dell’art. 2, comma 1, si formasse il retropensiero della sua ineluttabile applicabilità ai riders, a mo’ (per usare le parole di Riccardo Del Punta) di “una sorta di scivolo che riconduce all’ambito effettuale della stessa [della fattispecie dell’art. 2094 c.c.] le forme contrattuali di confine” .
Il risultato è stato conseguito a prezzo di forzature logiche, tecnico-giuridiche, financo grammaticali, che ho ritenuto di poter riscontrare nella già menzionata sentenza n. 1663/2020 della Suprema Corte , alla quale si è conformata la prevalente giurisprudenza di merito. Forzature, a cominciare dalla fantasiosa configurazione dell’art. 2, comma 1, come “norma di mera disciplina”, pur rinvenibile anche in dottrina .
Né certo un credibile <puntello> a questo orientamento giurisprudenziale è venuto, al di là dell’ipotetica intentio del legislatore, dall’intervento operato nel 2017 , sul versante delle co.co.co., con l’aggiunta, all’art. 409 c.p.c., n. 3, della precisazione per cui <La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa>.
Nella citata sentenza, la Suprema Corte stabilisce una equazione tra etero-organizzazione e imposizione delle modalità di coordinamento da parte del committente.
L’imposizione delle modalità di coordinamento non può però evincersi, contrariamente a quanto assunto dalla Corte, dalla loro determinazione da parte del committente giacché l’accordo richiesto dalla novellata norma codicistica può essere costituito dall’accettazione, pure per fatti concludenti, da parte del collaboratore delle modalità proposte dal committente . Senza che in ciò possa ravvisarsi nel nostro ordinamento, in mancanza di una diversa specifica previsione, la compromissione della volontà del collaboratore.
V’è solo da aggiungere, per completezza, che non sono mancate e non mancano tuttora sentenze di merito pervicacemente ostinate ad adottare la qualificazione del rapporto come subordinato pur se, francamente, ha dell’inverosimile la riconduzione alla fattispecie dell’art. 2094 c.c., imperniata su <chi si obbliga a collaborare nell’impresa […] sotto la direzione dell’imprenditore>, di chi, va ribadito, è libero di decidere se, quando, quanto e come lavorare.
Pongo termine alla riflessione sulle correnti operazioni ermeneutiche relative all’art. 2, comma 1, rilevando come, in definitiva, il loro vero punctum dolens (che accomuna alla giurisprudenza la dottrina di cui mi occuperò tra breve) è la sottovalutazione, anzi, l’omessa considerazione, nel suo complesso, della riforma operata dal D. L. n. 101/2019 (conv. in L. n. 128/2019); il quale novellando, all’interno del Capo I, l’art 2, comma 1, ha contestualmente aggiunto il Capo v-bis contenente la “Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”.

6. I sottotipi di co.co.co. e il nuovo sottotipo di lavoro subordinato.
Orbene, l’art. 47-bis, comma 1, precisa che, <fatto salvo quanto previsto dall’art. 2, comma 1, le disposizioni del presente capo stabiliscono livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore […] attraverso piattaforme anche digitali>.
Il comma 2 aggiunge che <ai fini di cui al comma 1 si considerano piattaforme digitali i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione>.
Dunque è (rectius, considerato il corrente panorama dottrinale e giurisprudenziale, dovrebbe essere) giocoforza prendere atto che la novella del 2019 ha creato per i ciclofattorini, date le innegabili peculiarità della loro attività, un sottotipo di co.co.co., individuando gli elementi fisionomici del coordinamento implicato dall’attività medesima e correlandogli una specifica disciplina protettiva.
“Salvo”, appunto -ed è questa la ragione della premessa- che la piattaforma limiti l’autonomia del collaboratore al di là di quanto strettamente indispensabile per l’esecuzione dello specifico servizio di presa e consegna di un bene al cui espletamento ha accettato di impegnarsi (invio alla piattaforma della propria disponibilità, ricezione da essa dell’indicazione dei luoghi di presa e consegna, invio alla piattaforma stessa della comunicazione di avvenuto espletamento dell’incarico).
Certa giurisprudenza di merito, non lo ignoro, ritiene che la etero-organizzazione si verifichi qualora la piattaforma, nell’affidare l’incarico, utilizzi il c.d. ranking, cioè orienti i propri algoritmi in modo che siano interpellati prioritariamente, anche solo in parte e in taluni slots, i ciclofattorini individuati dagli algoritmi medesimi come più assidui. Il meccanismo, in quanto penalizzante per i ciclofattorini pretermessi, è ritenuto assimilabile all’esercizio del potere disciplinare cui soggiace il lavoratore subordinato e conseguentemente rilevante ai fini della qualificazione del rapporto.
A parte l’evidente inconsistenza giuridica dell’assimilazione, va rilevato che tale meccanismo non attiene alle “modalità di esecuzione” della collaborazione né esplica ingerenza alcuna nella sfera di autonomia dei collaboratori bensì attiene esclusivamente alla libertà di scelta, da parte del committente, dei soggetti cui proporre l’incarico tra quelli che risultano, in un dato momento, per loro decisione, disponibili ad assumerlo. Anzi, più questa scelta è libera più ci si avvicina alla fattispecie limite del contratto d’opera .
Il Capo V-bis correda il rapporto di lavoro dei ciclofattorini che presenta gli elementi di fattispecie descritti nei menzionati commi 1 e 2 dell’art. 47-bis di una specifica tutela.
Trattandosi di un sotto-tipo di co.co.co., nel sistema deve ritenersi che di questa tutela faccia parte, sebbene non menzionata, l’assicurazione alla Gestione Speciale prevista dall’art. 2, comma 26, L. n. 335/1995.
Vero che l’art. 47-septies si preoccupa invece di puntualizzare (ribadire) l’attinenza del rapporto – “comunque” - all’assicurazione obbligatoria INAIL, ma solo al fine di prevedere alcune integrazioni di essa in relazione alle peculiarità del sotto-tipo.
Ciò deve ritenersi nel sistema, dicevo, perché l’obbligo della copertura previdenziale risulta implicitamente allorché il legislatore stabilisce, all’art. 2, comma 2, l’inapplicabilità della disciplina tipica del lavoro subordinato qualora sia applicato uno specifico ccnl afferente alla categoria. Tanto più che nel successivo art. 1, comma 2-bis, si preoccupa di integrare le prestazioni previste dalla assicurazione alla Gestione Speciale.
Concludo allora, sul punto, ripetendo che tra lavoro autonomo e lavoro subordinato è ineluttabile la sussistenza di una, ed unica, fattispecie generale di lavoro coordinato senza subordinazione, quella di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. Fermo restando, ovviamente, che il legislatore può ritenere socialmente opportuno individuare, e corredare di specifica disciplina, fattispecie sotto-tipiche di lavoro non subordinato.
Così il legislatore ha proceduto con il Capo V-bis del d. lgs. 81/2015, come detto, e parimenti con il d. lgs. n. 36/2021 nell’<area del dilettantismo>, in cui il lavoro sportivo <si presume oggetto di contratto di lavoro autonomo, nella forma della collaborazione coordinata e continuativa> (art. 28, comma 2, d. lgs. 36/2021 come sostituito dall’art. 16 del d. lgs 163/2022, nella ricorrenza dei <requisiti> indicati nelle lettere a e b dello stesso comma 2).
Invece <nei settori professionistici, il lavoro sportivo prestato dagli atleti come attività principale, ovvero prevalente, e continuativa si presume oggetto di contratto di lavoro subordinato> (art.27, comma 2) salva la ricorrenza dei requisiti indicati nel comma 3.
È tuttavia importante sottolineare come si tratti qui di una fattispecie sotto-tipica di lavoro subordinato giacché ad essa si applica una disciplina resa appunto speciale dall’abbondanza e dall’incisività delle previsioni ablative o adattative delle norme correlate alla fattispecie dell’art. 2094 c.c. (art. 26, commi da 1 a 7).

7. La relazione di Campobasso di Marina Brollo e la questione nell’ultima dottrina.
Quanto appena rilevato è il miglior viatico per tornare al principio di queste riflessioni, cioè alla moda che ho definito dello <sfrangiamento> della fattispecie tipica del lavoro subordinato e dell’articolazione della relativa disciplina.
Dico subito che, anche per ottuagenaria pigrizia, mi varrò largamente del contributo recato in materia dalla relazione di Marina Brollo alle recenti giornate di studio Aidlass di Campobasso
Marina prende opportunamente le mosse, per le sue dense riflessioni, dall’avvertimento di Edoardo Ghera , così da lei sintetizzato: occorre “tenere distinta la subordinazione, che resta effetto essenziale del contratto di lavoro, come assoggettamento del prestatore al potere direttivo e gerarchico dell’imprenditore, dalla situazione o status di sottoprotezione sociale, che è alla base (ratio) delle tutele inderogabili e ancor più dei diritti sociali del lavoratore non solo come contraente debole, ma anche come cittadino (bivalenza della subordinazione)”.
Marina richiama poi, ancora opportunamente, la “prudenza” raccomandata da Massimo D’Antona nel risalente, ma sempre fondamentale, saggio del 1995 .
Prudenza al cospetto, osserva la Relatrice, dell’”avvento dei modelli organizzativi <deconcentrati e flessibili> della produzione [che] rende incerto non solo il significato classificatorio, ma anche quello assiologico della subordinazione, essendo in discussione il <chi> della tutela, il <come> e soprattutto il <perché>: quali lavoratori tutelare mediante la eterodeterminazione dei contenuti del contratto; in quali forme normative, in funzione di quale bilanciamento di valori nella sfera socio-economica”.
L’esplorazione prudente di Massimo D’Antona nella valutazione della Relatrice ha prodotto il risultato importante secondo cui “il corpo normativo del diritto del lavoro attualmente polarizzato attorno alla figura del lavoratore subordinato va disaggregato e riorganizzato in tre livelli, ma si potrebbe dire in tre cerchi concentrici in cui il più largo comprende il lavoro senza aggettivi, l’intermedio è occupato dai contratti di lavoro, sia autonomo sia subordinato, che realizzano l’integrazione onerosa del lavoro nell’attività economica del datore/committente [in definitiva, io direi, l’integrazione tramite un coordinamento funzionale con l’organizzazione produttiva], il cerchio interno [o ultimo] raccoglie, infine, il lavoro subordinato in senso stretto”.
Dal prosieguo della relazione di Marina risulta però che la dottrina dei giorni nostri pare non avere più come consigliera la salutare prudenza.
Il colto ed elegante <lungo saggio> di Adalberto Perulli e Tiziano Treu vuole darsi carico, con ampio respiro, delle esigenze di congrue tutele postulate dall’avvento di nuove e multiformi tipologie lavorative indotte dalle trasformazioni del sistema economico-produttivo e, correlativamente, del tessuto sociale nell’era della digitalizzazione.
All’uopo viene suggerita al legislatore l’adozione di una tecnica definita da Marina come “matriciale, ordinata in base ai valori e ai principi” e non più “secondo la logica fattispecie-effetti”. Una tecnica indubbiamente suggestiva, ma poco idonea ad offrire al legislatore indicazioni guida affinché possa, abbandonando le “categorie preconfezionate”, fornire al giudice parametri di riferimento per operare, nel concreto, una articolazione delle tutele ragionevolmente affidabile, non rimessa al suo soggettivo senso della giustizia.
Tanto che, non può non rilevare la Relatrice, dalla tecnica matriciale scaturisce, in definitiva, la proposta di sostituzione delle co.co.co. con il lavoro autonomo economicamente dipendente (L.A.E.D); cioè, mi permetto di osservare, con una indistinta fattispecie-voragine.
Il contributo di Edoardo Ales, peraltro offerto in un saggio dedicato al lavoro agile , è considerato da Marina “un’analisi ampia ed articolata dell’approccio legislativo a fronte del dilagare di modalità <non tipicamente subordinate> di svolgimento della prestazione di lavoro e della necessità di apprestare per esse tutele adeguate”.
L’analisi conduce Ales a constatare come quell’approccio abbia generato uno scenario di <elevato grado di confusione> determinato dai diversi metodi di risposta a tale necessità, rispondenti a brillanti etichette: “rimediale estremo, per le co.co.org.; auto-contraddittorio per i rider, chiarificatore concettualizzante, per le co.co.co.; indifferente alla fattispecie nella normativa per la trasparenza; autodeterminazione controllata delle parti per il lavoro agile”.
Tale <confusione>, così è sintetizzato da Marina il pensiero di Ales, “solo il legislatore è in grado di dissipare, seguendo la traccia segnata dalla normativa sulla trasparenza (D. L.vo n. 104/2022), incentrata sul nesso rischio-bisogno-tutele, che rifiuta l’esclusione aprioristica di taluni effetti (tutele) rispetto a determinate fattispecie”.
Ma come a tal fine il legislatore dovrebbe concretamente operare resta misterioso. Tanto che Ales, non può non rilevare Marina, “dopo aver ribadito la perdurante capacità della subordinazione di soddisfare le esigenze di tutela vecchie e nuove, aggiunge <qualora costruita dal legislatore in maniera puntuale ma flessibile [<qui il neretto è mio>] a svolgere la sua funzione di tecnica di tutela>”.
Il culmine, ma spererei piuttosto l’epilogo, della moda di destrutturazione delle fattispecie e di abbandono degli indici di subordinazione è segnato dall’ultimo saggio che la Relazione assume come rappresentativo della dottrina di questi giorni, quello di Giuseppe Ferraro , della cui elegante facondia Marina pare, almeno in principio, subire il fascino.
Osserva infatti che l’A. “parte dalla riforma (in tre fasi 2015-2017-2019) delle collaborazioni coordinate e continuative attribuendo ad essa il merito di aver dato all’elaborazione dottrinale sulla subordinazione una <scossa salutare>, liberandola da <dogmi inveterati> e da <incrostazioni polverose>, entrambi avallati da una giurisprudenza conservatrice e appiattita su una <definizione oleografica del lavoro dipendente, ogni giorno sempre più lontana dal mondo reale>”.
Ma queste frasi icastiche rivelano il loro spessore solo affabulatorio da subito, allorché (sempre a pag. 351) il processo regolativo che ha preso le mosse dall’art. 2, comma 2, D. L.vo 181/2015 viene esaltato in quanto riferito ad <una figura social-tipica paradigmaticamente assunta quale modello di nuovi rapporti di produzione. Figura sociale e prototipo giuridico che è andato ad affiancarsi a quel prototipo impolverato che affiora dalla trama dell’art. 2094 c.c.>.
Tuttavia, una <figura sociale> che resta avvolta dal mistero fino al termine del saggio, quindi rimessa alla fantasia dell’interprete, cui competerebbe il compito di stabilire liberamente i confini della <dilatazione della fattispecie> finalizzata all’estensione della disciplina tipica (come propugnato a pag. 354).
Ma il mistero resta, perché per Ferraro è sufficiente l’obiettivo estensivo a determinare la produzione degli effetti senza la necessità dell’individuazione di una nuova fattispecie, bastando all’uopo l’adozione di <una concezione funzionale, e non statica della subordinazione>. Anche perché, ammette l’A., una nuova fattispecie tra quella del lavoro subordinato e quella del lavoro solo coordinato non è immaginabile perché sarebbe inevitabilmente appiattita sulla seconda.
Senza dire che Ferraro dedica considerazioni non proprio perspicue alla (distinzione ovvero) endiadi di etero-direzione ed etero-organizzazione da un lato e mero coordinamento dall’altro, riconoscendo peraltro la fragilità, quale spartiacque, dell’espediente del previo <consenso delle parti> .

8. Merito e legittimità nei giudizi di qualificazione con il metodo degli indici di subordinazione.
Penso risulti a questo punto evidente la mia convinzione che la qualificazione dei rapporti di lavoro, nel contesto dell’ordinamento positivo, debba necessariamente essere operata con il metodo della sussunzione per approssimazione, sulla base della variabile sussistenza e combinazione degli indici elaborati nell’esperienza giurisprudenziale.
Penso risulti altrettanto evidente la mia consapevolezza che questo metodo comporta inevitabilmente un’ampia discrezionalità in capo al giudice; una discrezionalità in cui è giocoforza ammettere che possa insinuarsi con particolare accentuazione la sua c.d. <precomprensione>. Da qui la necessità che egli sia sensibile al monito, mirabilmente argomentato dal Maestro Luigi Mengoni , circa il dovere del giudice, a tutti i livelli, di governare la propria <precomprensione>. Da qui, altresì, l’utilità del controllo della dottrina, cui ho fatto prima cenno, circa l’attuazione, nelle sentenze, di quel monito.
Ho scritto volutamente “a tutti i livelli” perché non so resistere alla tentazione di tornare ancora sul tema dei limiti del sindacato della Corte di cassazione nei giudizi comportanti l’anzidetta discrezionalità valutativa . Per di più sollecitato dal prezioso contributo, per così dire <dall’interno>, recato in materia, dall’angolazione delle c.d. <clausole generali>, da un Consigliere della Suprema Corte di cui apprezzo la lucidità e la robustezza metodologica .
Il saggio cerca di tranquillizzare “qualche sospettoso lettore della giurisprudenza della Corte sul tema” (nel cui novero non nego certo di rientrare!) fugando il suo “dubbio che, oltre le ribadite affermazioni di principio, il confine del sindacato sia mobile nell’applicazione operata nelle controversie che giungono all’attenzione dei vari collegi, decisamente influenzato, volta per volta, dalle suggestioni del fatto che interpella le coscienze dei consiglieri e il loro sentimento di giustizia del caso concreto”.
All’uopo, analizzate attentamente le varie speculazioni teoriche che hanno recentemente segnato il percorso della Suprema Corte volto a preservare il discrimen tra merito e legittimità, l’A., però, deve infine prendere atto dell’esito di tale percorso: “il quadro complessivo che emerge dalle numerose pronunce di legittimità in materia restituisce l’impressione che, pur ribadendosi l’assunto che il giudizio applicativo di clausole generali rappresenta una quaestio iuris, si tende a preservare una sfera di intangibilità riservata al giudizio di merito”.
Ma allora l’A. torna a dover rassicurare “chi adombra l’insinuante sospetto secondo il quale la Corte dichiarerebbe il vizio di sussunzione solo laddove il criterio di valore, utilizzato dal giudice di merito nell’apprezzare le circostanze del caso concreto fondanti il licenziamento, non coincida con quello della maggioranza che compone il collegio decidente, animata da pur comprensibili impulsi equitativi” [o viceversa, aggiungerei, negherebbe il vizio qualora il criterio di valore coincidesse].
Lasciando dunque da parte, riconoscendo che in definitiva è sterile, la querelle se il discrimen tra merito e legittimità sia o meno di carta velina, assimilabile ad una fictio. Si tratta INFATTI di un discrimen comunque insito nell’ordinamento processuale.
Quel che conta è piuttosto che la rassicurazione sia affidata dall’A. a raccomandazioni rivolte al Giudice della legalità del tutto ragionevoli, che condivido in toto, anche in funzione di un minimo di certezza del diritto: “per liberare il campo da dubbi leciti, in presenza di sentenze che investano le giustificazioni di un licenziamento occorre porre la questione del serrato controllo dell’argomentazione giuridica che le sorregge, che non può limitarsi alla salvifica invocazione di non meglio precisati dati extra sistemici corrispondenti ad una supposta comune civiltà del lavoro ovvero alla seriale enumerazione di norme costituzionali e sovranazionali che esprimerebbero principi asseritamente idonei a regolare il caso di specie”.
Ovviamente, oggi v’è anche da confidare che il rispetto di tali raccomandazioni non sia ostacolato dalle esigenze di “speditezza” che paiono animare, con il viatico legislativo, i lavori anche della Sezione lavoro della Corte di cassazione.
Per non rimanere sul generico riporto di seguito, scusandomi per la ripetizione, quanto scritto in un altro saggio .
Mi sono già assunto la responsabilità di segnalare con un esempio paradigmatico i rischi, per l’autorevolezza e per la credibilità stessa della Suprema Corte, derivanti dal ricorso sempre più ampio e direi spesso disinvolto, seppure con l’ultima riforma incentivato da inopportune scelte legislative, alla trattazione delle cause in Camera di Consiglio.
In quella occasione avevo fermato l’attenzione anche sul contenuto dell’ordinanza . In questa sede intendo segnalare una recentissima ordinanza considerando piuttosto il modus operandi della Corte .
Il giudizio verteva sul diritto del lavoratore ingiustamente licenziato ad essere risarcito, fornendone la prova, del c.d. danno ulteriore (alla professionalità, all’immagine etc.) derivante dall’inattività lavorativa conseguente al licenziamento.
La questione, pur riguardando un caso anteriore al 2012, era, ed è, obiettivamente delicata, suscettibile anche di riverberi su casi interessati dalla riforma c.d. Fornero e dal Jobs Act.
Dunque già per questo, a mio avviso, meritava, in considerazione della funzione nomofilattica della Suprema Corte, non solo il rango della discussione in pubblica udienza e della decisione con sentenza, ma, di più, la rimessione alle Sezioni Unite della Cassazione.
Non così, certamente, se l’operazione ermeneutica dell’ordinanza fosse “in linea con la giurisprudenza di questa Corte”, come affermato sulla scorta di alcuni precedenti della Corte medesima.
Se non che solo uno di essi è pertinente, quanto al principio di diritto sancito , ma la risarcibilità del danno ulteriore sin dal licenziamento è ivi sostenuta esclusivamente sulla base del richiamo di due sentenze anteriori della Corte. Le quali però riguardano, rispettivamente, il danno da mancata reintegra e il danno da licenziamento ingiurioso .
Sono queste ultime le sentenze richiamate anche dall’ordinanza, unitamente ad un’altra ancora anteriore, riguardante essa pure il danno da mancata reintegra .
Molte sentenze, puntualmente argomentate, seguono invece un ben diverso orientamento. Così, ad es., quella che distingue chiaramente “il danno causato dalla mancanza del lavoro e della retribuzione”, rientrante nell’indennità prevista dall’art. 18 St. lav., dal danno “causato dall’intrinseco comportamento datorile con cui il licenziamento è attuato (licenziamento ingiurioso ovvero pretestuoso ovvero persecutorio)”, risarcibile se provato .
Parimenti la sentenza che ritiene risarcibile, in quanto provato, il danno ulteriore da licenziamento discriminatorio/persecutorio diversamente dal “danno non patrimoniale per coincidenza dei fatti costitutivi con l’impugnazione del licenziamento” (id est, danno derivante dal licenziamento in sé siccome comportante l’estromissione dall’azienda) .
Chiudo con il richiamo dell’elegante puntualizzazione operata da una sentenza del 2018 , anche se (o proprio perché) relativa ad un licenziamento intimato già nel vigore del testo novellato dell’art. 18 St. lav.
“La Corte territoriale - si legge nella sentenza - si è correttamente conformata al principio consolidato affermato da questa Corte secondo cui, ove il licenziamento sia dichiarato illegittimo e se il datore di lavoro sia condannato al risarcimento del danno nella misura legale, l’ammontare di tale risarcimento copre tutti i pregiudizi economici conseguenti alla perdita del lavoro. Ciò non esclude la possibilità per il lavoratore di fornire la prova di ulteriori danni, ivi compreso il danno biologico., che siano conseguenze solo mediate e indirette (e quindi non fisiologiche e non prevedibili) del licenziamento)”.
Quindi, con tutta evidenza, danni (ulteriori) che non derivino dalla mera estromissione del lavoratore dall’azienda e dalla conseguente cessazione della sua attività lavorativa nella stessa.

9. Non una conclusione ma un auspicio
Avendo ricostruito il contesto normativo sulla cui base, a mio avviso, i lavori vecchi e nuovi vanno ordinati e qualificati per ricondurre loro le tutele correlate alle diverse fattispecie offerte dall’ordinamento (perché è dalle fattispecie che si deve partire e non da questo o quel nucleo di disciplina ritagliato arbitrariamente dall’interprete alla ricerca, poi, di una fattispecie cui imputarla), più che con una conclusione ritengo di poter terminare con un auspicio.
L’auspicio che la dottrina giuslavorista cessi di fare teoresi mescolata a politica del diritto per tornare a fare ermeneutica giuridica. Forse la giurisprudenza, sempre più sedotta dalle operazioni valoriali teleologicamente orientate, potrebbe, ancora auspicabilmente, trarne giovamento nella prospettiva disegnata nel paragrafo precedente.
Ciò, per usare ancora le parole conclusive del saggio con cui mi sono confrontato, “in nome di un positivismo moderato che -alieno dalle fascinazioni creative della osannata comunità interpretante- fornisca al giudice strumenti volti ad eliminare o, quanto meno ridurre l’arbitrio soggettivo che attinga a non meglio definite coscienze comuni e rendano controllabile la decisione che sia adeguatamente motivata”.

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