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Una breve nota biografica. Nata a Viareggio l’11 settembre 1940, si è laureata in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Firenze, discutendo con il Prof. Giuliano Mazzoni una tesi dal titolo “L’interpretazione dei contratti collettivi”. Libero docente in diritto del lavoro, è stata Professore ordinario di diritto del lavoro nella Facoltà di Economia dell'Università di Genova; nel 2012 è andata in pensione e le è stato conferito il titolo di Professore Emerito di diritto del lavoro nella stessa Università. A partire dal primo agosto 1996 è stata nominata dal Presidente della Repubblica membro della Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei pubblici servizi essenziali, compito che ha svolto per l’intero periodo di sei anni. Ha collaborato dal 1984 al 1995 con la Commissione delle Comunità Europee in qualità di esperto sull'applicazione delle direttive comunitarie in materia di parità tra uomini e donne in materia di lavoro; in qualità di esperto è stata anche membro del Comitato nazionale pari opportunità presso il Ministero del Lavoro, nonché Vicepresidente della Commissione regionale pari opportunità della Regione Liguria. In qualità di Professore invitato ha insegnato (per circa venti anni, a partire dal 1992) nell’Università di Paris X Nanterre; è stata Professore invitato anche a Paris II Panthéon-Assas, Nantes e Lyon II.

Spero di non aver tralasciato nulla di importante. Emerge il profilo di una giuslavorista che ha saputo coniugare la sua attività di ricerca, studio e didattica, significativamente anche in Francia, con importanti ruoli svolti in varie amministrazioni.

In effetti ho avuto occasione di lavorare in istituzioni e amministrazioni diverse dall’Università, e sono state esperienze importanti, ma l’Università è stata comunque al centro della mia vita professionale (e non solo). Per questo alla nota biografica mi pare di dover aggiungere il riferimento all’impegno profuso per due decenni nell’attività accademica, come Direttore di dipartimento, Presidente della biblioteca della Facoltà di Economia, delegata del Rettore ­– tre diversi Rettori, a dire il vero – alle relazioni sindacali e alla contrattazione collettiva di Ateneo. E soprattutto l’impegno nella ricerca, con l’elaborazione e il coordinamento nazionale di progetti di ricerca interuniversitaria, e la trentennale stretta collaborazione con la rivista Lavoro e diritto, alla quale devo il prezioso rapporto culturale e amicale con Umberto Romagnoli, il legame con Guido Balandi, Luigi Mariucci e Anna Rita Tinti, l’interazione con un bel gruppo di studiose e studiosi con cui ho condiviso il viaggio nel diritto del lavoro.

 Andiamo con ordine. La tua formazione scolastica e universitaria è tutta toscana, se non sbaglio.

 In realtà solo la mia formazione universitaria è toscana (fiorentina, per essere precisi). Sono nata a Viareggio per caso: era settembre, l’Italia era entrata in guerra e mia madre aveva preferito restare nella casa al mare, mentre era in corso il trasferimento dei miei genitori da Pisa a Roma. Avevo venti giorni o poco più quando sono stata portata a Roma. Lì ho studiato dalle elementari fino all’ultimo anno di liceo (al Virgilio, che allora era un liceo classico). Dopo una breve parentesi a Bari (sempre per ragioni familiari), mi sono trasferita a Firenze, dove ho continuato i miei studi.

A Bari avevo fatto il primo anno di giurisprudenza, e non ero per niente soddisfatta dei risultati; ma della scelta della facoltà ero convinta: fin da bambina (lo avevo scritto anche nel tema della licenza elementare) avevo l’idea di fare l’avvocato (civilista, come lo zio Werthmüller, fratello di mia madre, che ammiravo molto). La scelta della facoltà era una mia scelta, e ho ragione di pensare non fosse stata influenzata dai miei genitori, ai quali premeva essenzialmente che gli studi universitari mi consentissero di costruirmi un buon futuro professionale. E questo premeva anche a me: del resto, autonomia e indipendenza economica sono valori instillatimi fin dall’infanzia da una madre proto-femminista, molto intelligente e molto colta. Mi è capitato di recente, rileggendo alcuni scritti di Anna Kuliscioff, di ritrovare cose che mi diceva mia madre, nelle nostre lunghe chiacchierate.

 Hai studiato a Firenze e ti sei laureata con Giuliano Mazzoni, che ha governato il diritto del lavoro, anche per l’influenza esercitata su tante generazioni di studiosi e professori, per molti anni. Quali ricordi hai del tuo Professore?

 Il ricordo di Giuliano Mazzoni è il ricordo di una vicenda personale “difficile”, che si intreccia con l’avvio e con i primi anni della mia carriera universitaria. Ho raccontato questa vicenda nelle pagine scritte a pochi mesi dalla sua scomparsa (in RTDPC, 1986): ammetto che si trattava di un necrologio del tutto anomalo (e per questo alcuni lo giudicarono severamente), ma era scritto con tutta la sincerità di cui sono capace. Non desidero ripetere qui le cose scritte allora, rinviando chi ne avesse curiosità alla lettura di quelle pagine.

Posso aggiungere che a tener vivo il ricordo di Giuliano Mazzoni ha in certo modo contribuito la bella amicizia con suo figlio Cosimo, persona amabile e studioso di grande sensibilità, la cui prematura e improvvisa scomparsa mi ha molto addolorata.

Nel tuo ricordo di Giuliano Mazzoni e, più recentemente, nel ricordo di Gino Giugni, parli dei Seminari dell’Istituto di diritto del lavoro di Firenze diretto da Mazzoni. Chi partecipava ai seminari e come erano organizzati?

 Il “Seminario di preparazione per dirigenti aziendali e sindacali”, fulcro dell’attività dell’Istituto di Diritto del lavoro della Facoltà di Giurisprudenza, era un’iniziativa alla quale Mazzoni teneva moltissimo, e giustamente, perché era un raro esempio di “scuola di formazione” impartita nell’Università e destinata ai giovani studiosi della disciplina: per i laureandi in Diritto del lavoro la frequenza del Seminario era un obbligo, oggetto anche di una valutazione finale che aveva il suo peso sul voto di laurea. Il Seminario si svolgeva ogni anno nei modesti spazi dell’Istituto, il sabato pomeriggio, da febbraio a maggio.

       La preparazione del Seminario, sul tema scelto da Mazzoni con grande attenzione all’attualità, coinvolgeva assistenti e giovani volontari, tutti chiamati a predisporre i materiali, inventare i quesiti, preparare interventi. Era un lavoraccio, ma era anche un’occasione formidabile di studio, di esperienza, e di incontro. Da studente e da neolaureata ho potuto conoscere, grazie al Seminario, un’intera generazione di giuslavoristi, con alcuni dei quali si creò fin da subito un rapporto di amicizia (tra questi mi piace soprattutto ricordare il compianto Giorgio Ghezzi). Con grande oculatezza e attenzione al pluralismo delle voci coinvolte nel dibattito, Mazzoni invitava ogni anno giovani studiosi “in carriera”, autori di libri più o meno ragguardevoli, ben lieti di accettare l’invito di un Maestro dotato di notevole potere concorsuale (usato in questo caso per fini apprezzabili).

   Il Seminario era, più o meno, organizzato così: alla relazione del professore o dell’esperto invitato sul tema prescelto faceva seguito la presentazione, da parte dei collaboratori dell’Istituto, delle risposte, più o meno articolate, ai quesiti preventivamente individuati nei lavori di preparazione del Seminario. Questa fase era inframezzata e seguita dalla discussione nella quale intervenivano i partecipanti (altri professori presenti, collaboratori dell’Istituto, e persino tesisti). Le discussioni erano spesso molto vivaci, sempre comunque interessanti: Mazzoni stesso curava che emergesse la pluralità dei punti di vista.

 Nel 1972 il Seminario emigrò all’Associazione industriali, perdendo così il suo significato didattico e i suoi tratti originari. Da allora non ho più partecipato.

Come era la Facoltà di Giurisprudenza fiorentina negli anni ’60? Ci saranno stati anche altri Professori che hanno inciso nella tua formazione universitaria?

 Era una bella Facoltà, nella quale insegnavano alcuni professori di chiara e meritata fama. Insieme ad un gruppetto di compagni di studio con cui preparavo gli esami più impegnativi (di questi compagni Roberto Zaccaria, Vincenzo Vigoriti, e Ugo De Siervo hanno poi intrapreso la carriera universitaria) passavo le mie giornate in via Laura 48: frequentavo le lezioni e le esercitazioni tenute dagli assistenti, passavo molto tempo in biblioteca, e facevo chiacchiere nel baretto che allora era sistemato al piano terra della Facoltà.

Certamente sulla mia formazione ha inciso lo studio del diritto civile con Salvatore Romano, studio che approfondivo nelle interminabili conversazioni con l’allora suo assistente Francesco Romano: i testi erano davvero ostici anche per uno studente dotato delle migliori intenzioni. Mi sono nutrita di pluralità degli ordinamenti giuridici nella versione romaniana ortodossa: vale a dire, come bene ha messo in evidenza Bobbio, il pluralismo “moderato” (ed anche il “monismo moderato”) di Santi Romano, che «crede ai benefici effetti che l’emergere di gruppi sociali riottosi come i sindacati può produrre in una migliore articolazione dei rapporti fra individui singoli e Stato, ma considera pur sempre come momento finale e necessario della società organizzata lo Stato». Della teoria romaniana della pluralità degli ordinamenti, un po’ fraintesa, e un po’ strumentalmente utilizzata, si faceva peraltro applicazione anche nelle dottrine “privatistiche” del diritto sindacale; anche per questo mi ero trovata a mio agio studiando con Mazzoni.

 Ho menzionato Salvatore Romano, ma ricordo anche il durissimo esame di Diritto romano, un 30 e lode fra i più sudati della mia carriera di studente. Il Prof. Archi (che era anche il Rettore dell’Università) mi propose di prendere la tesi con lui: non accettai l’invito, perché avevo già deciso di prendere la tesi in Diritto del lavoro; ma confesso che tante volte, di fronte alla convulsa mutevolezza del diritto del lavoro, mi è capitato di pensare a come sarebbe stata tranquilla la mia vita se mi fossi dedicata allo studio del diritto romano. Ricordo i professori (Giuseppe) Barile di diritto internazionale, Miele di Diritto amministrativo, Fiorelli di Storia del diritto italiano (che ritrovai poi come docente di fonetica negli anni trascorsi subito dopo la laurea, come borsista CNR, all’Accademia della Crusca).

 Ma a incidere più profondamente sulla mia formazione è stato certamente Virgilio Andrioli, incontrato come professore di procedura penale nell’ultimo anno di corso. Andrioli mi ha trasmesso i ferri del mestiere, insegnandomi a lavorare con la dovuta serietà sulla giurisprudenza. Volle essere correlatore della mia tesi, e l’anno successivo alla laurea mi chiese di collaborare (insieme a Roberto Zaccaria) a raccogliere gli appunti delle sue (magnifiche) lezioni, che riordinò poi in un volume in cui noi due giovani apprendisti comparivamo come co-autori. Nei primi anni dopo la laurea ho annotato decine di sentenze per il Foro Italiano: un lavoro umile, ma fondamentale per farsi le ossa nella ricerca (non ho dimenticato quella volta che mi rimandò indietro una nota in cui avevo scritto “non risultano precedenti in termini” con un commento lapidario: “cerchi meglio”). Andrioli mi ha onorato della sua stima e della sua simpatia, contribuendo a far crescere in me quella dose di autostima che mi ha consentito di andare ostinatamente avanti nei momenti più difficili della mia carriera.

Nei seminari dell’Istituto diretto da Mazzoni, di cui hai parlato prima, partecipava anche Luisa Riva Sanseverino? Quale ricordo hai di Lei, la prima Professoressa di diritto del lavoro?

Luisa Riva Sanseverino, che aveva rapporti di amicizia e colleganza con Mazzoni, non partecipava ai seminari, ma in qualche occasione era venuta a Firenze. Ne conservo l’immagine di una signora elegante e robusta, alla quale ovviamente ero stata presentata, ma che non sembrava nutrire grande interesse per la giovane borsista di belle speranze. Peraltro non ho mai “conosciuto” davvero Luisa Riva Sanseverino, né allora, né successivamente: certo, che fosse la prima donna professore ordinario di diritto del lavoro mi colpiva, ma, come dire, non mi emozionava: mi pareva un professore come gli altri, tanti gradini più in alto di me sulla scala della ferrea gerarchia accademica.

 Partecipava anche Giuseppe Pera, immagino, considerati i rapporti con Riva Sanseverino e Mazzoni. Che impressione, a prima vista, ne hai tratto e quale è stato, nel tempo, il tuo rapporto con lui, un Maestro, senza una Sua “Scuola”, a differenza di Giugni e di altri, ma sempre disponibile con gli allievi degli altri Maestri?

 Pera partecipava assiduamente ai seminari fiorentini, e anche alle cene in un bel ristorante alle quali, nelle grandi occasioni, Mazzoni invitava relatori, partecipanti, e anche la “bassa forza” (i giovani assistenti volontari, che sedevano nei posti in fondo al tavolo: Federico Frediani ed io ci vendicavamo ordinando i piatti più cari). Quale impressione Pera mi abbia fatto a prima vista non saprei dire: sicuramente mi avevano colpita il suo abbigliamento, il suo spiritaccio, ma soprattutto la tecnica rigorosa e l’acume dei suoi interventi.

 L’amicizia con Pera, per me Beppe, è maturata nel tempo; il rapporto con lui è cresciuto di intensità dal momento in cui si si è consumata la mia separazione da Mazzoni e dalla sua scuola. Di quella vicenda conosceva bene le ragioni, e se anche non approvava le mie scelte, aveva un grande rispetto per la mia libertà di pensiero, e si limitava a constatare, magari scuotendo la testa, che nella situazione di tensione che si era venuta a creare era inevitabile che io dovessi trovarmi da sola la strada lungo la quale camminare. Beppe era diventato per me un punto fondamentale di riferimento, anche se non mi risparmiava le sue critiche. Mi rimproverava certi eccessi antiformalistici, non condivideva le mie scelte di metodo, ma non censurava le mie opzioni politiche, pure distanti dalle sue. Fu lui ad indurmi a scrivere il libro sui licenziamenti (1974/75) che pubblicò nella collana che dirigeva. Mi seguì passo passo nel lavoro, ma non intervenne mai sui contenuti; mi impose solo di premettere al mio nome quello del mio primo marito, secondo una tradizione che ancora sopravviveva. La scelta del tema non era, per così dire, neutra: proprio il mio primo tentativo di scrivere una monografia sui licenziamenti (un centinaio di pagine scritte per presentarmi alla libera docenza) aveva provocato la dura reazione di Mazzoni, ed era all’origine della rottura di un rapporto che le forti tensioni politiche dell’epoca (la fine degli anni sessanta) avevano reso sempre più difficile.

 Il libro sui licenziamenti non fu sufficiente a farmi vincere il concorso a cattedra, nel quale peraltro nessuno dei commissari era interessato alla mia sorte, anche se Mancini e Treu mi diedero il loro voto; quanto a Mazzoni, con il quale ormai i rapporti si erano rarefatti, aveva altre priorità. In quegli anni e negli anni successivi Beppe mi è sempre stato vicino, mi ha sostenuto con convinzione quando ha ritenuto che stessi subendo un trattamento ingiusto, ma continuava a dirmi che se volevo vincere una cattedra dovevo fare più attenzione alla scelta dei temi e al modo di svolgerli.

 Quando pubblicai (sempre nella collana da Lui diretta) il libro sulla Cassa integrazione (1985), lo accolse con molta soddisfazione. «Finalmente» – mi disse – «hai scritto una bella monografia ‘anni Trenta’! Tesi di Tizio, tesi di Caio, nostra tesi». Proprio così: lo avevo scritto con quella intenzione, per rispondere a chi aveva giudicato il mio libro sul lavoro delle donne del 1979 (il più importante, il più letto se non il migliore che ho scritto) non all’altezza di una cattedra universitaria.

 Una piccola pera d’argento fu il Suo dono per festeggiare il mio tardivo successo nel concorso a cattedra, svoltosi a distanza di sei anni da quello precedente dal quale ero stata esclusa. La pera è appoggiata su una libreria e ogni tanto la lucido. Con tenerezza.

Hai incontrato per la prima volta Gino Giugni nel Seminario del 1963 dedicato a “La categoria e la contrattazione collettiva”, i cui atti sono stati pubblicati da Giuffrè nel 1964. Quali furono le tue impressioni in quella occasione?

 Come ho scritto di recente, ricordando Gino Giugni a dieci anni dalla scomparsa, nell’anno in cui si svolse quel Seminario stavo lavorando alla mia tesi di laurea, e ascoltare Giugni non mi aveva particolarmente emozionata: la privatizzazione del diritto sindacale era per gli allievi di Mazzoni pane quotidiano. C’è da dire che in tutti i suoi interventi Giugni, ben consapevole dell’accusa di “sociologismo” mossa dalla dottrina dominate alla sua Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, si preoccupava di dare una veste giuridico-formale alla trattazione degli argomenti che gli erano stati affidati. Tuttavia Mazzoni commentava così la relazione di Giugni: «Ringrazio il Prof. Giugni della sua chiara esposizione, alla quale veramente si potrebbe applicare l’aforisma “ex facto oritur ius”» (La categoria, p. 166).

 Quanto a me, sfogliando quel libro ormai molto ingiallito, ho constatato che prendevo spesso la parola, non sempre a proposito. Mi ha fatto sorridere (anche per l’arguta risposta di Mazzoni) rileggere un mio intervento in cui citavo Cesarini Sforza (evidentemente molto fiera di averlo letto) e la “giuridicità in sé delle associazioni allo stato fluido”, per sostenere che la categoria la quale si fosse data un’organizzazione qualsivoglia era un’entità giuridica “prima ancora della costituzione del sindacato”. Risposta di Mazzoni: «La signorina Ballestrero è influenzata dalle idee di Cesarini Sforza, che vede un ordinamento giuridico anche nella coda che si forma davanti a un negozio» (p. 39).

All’inizio hai dimostrato diffidenza nei confronti della teoria dell’ordinamento intersindacale come ordinamento originario e autosufficiente (una costruzione artificiosa secondo Giovanni Tarello, oggetto anche di una polemica tra i giuslavoristi, ad esempio Giuseppe Pera). Nel terzo Congresso dell’AIDLaSS dedicato a Il contratto collettivo di lavoro, che si è svolto a Pescara-Teramo dal 1° al 4 giugno 1967, nel quale una delle due relazioni fu svolta da Gino Giugni (l’altra era affidata a Valente Simi), hai svolto un intervento nel quale hai chiarito il tuo punto di vista sull’ordinamento sindacale.

 Durante l’elaborazione della tesi avevo letto la monografia di Giugni, destinata a grande fama, ma all’epoca molto controversa (mi riferisco, ça va sans dire, alla Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva). Condividevo la scelta pluralista dell’autore: il fatto è, come ho già detto, che ero allieva di Salvatore Romano e dunque la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici mi era familiare. Tuttavia mi ero nutrita dell’ortodossia romaniana, e suscitava in me reazioni non positive l’uso disinvolto da parte di Giugni della teoria della pluralità degli ordinamenti, e la costruzione dell’ordinamento intersindacale come ordinamento originario e autosufficiente. Avevo continuato a riflettere sul tema, e nell’intervento al quale fai riferimento (il tema era quello delle modificazioni in pejus dei contratti collettivi) era condensato quello che pensavo allora sulla pluralità degli ordinamenti: non mi convincevano né l’originarietà, né tantomeno l’autosufficienza dell’ordinamento intersindacale, perché, pluralista moderata e moderata monista, attribuivo all’art. 39 Cost. il valore di norma di riconoscimento del potere normativo autonomo dell’ordinamento sindacale.

 Posso aggiungere che, per capire l’importanza dell’opera di Giugni dal punto di vista del rinnovamento metodologico dello studio del diritto sindacale (e del diritto del lavoro più in generale), ho avuto bisogno di un po’ più di tempo e di molte letture (fondamentale quella del libro di Giovanni Tarello); tempo e letture necessari soprattutto per capire la forte opzione politica che stava dietro “quella” privatizzazione del diritto sindacale (distante dalla privatizzazione riconducibile a Francesco Santoro-Passarelli e alla sua scuola) e la rifondazione teorica proposta da Giugni, rivoluzionaria ai tempi, ma accolta in seguito molto largamente, quando ormai (siamo alle soglie del 1970) le vicende dell’autunno caldo avevano fatto perdere di interesse all’opzione politica da cui la teoria dell’ordinamento intersindacale originario era nata e alla quale era funzionale (per esplicito riconoscimento del suo stesso autore).

 La teoria dell’ordinamento intersindacale non ti convinceva, però avevi apprezzato e trovato convincente e innovativa la relazione di Gino Giugni sulla funzione giuridica del contratto collettivo.

 Se sulla teoria dell’ordinamento intersindacale nutrivo le perplessità di cui ho detto, apprezzai molto la relazione di Giugni sulla funzione giuridica del contratto collettivo al terzo Congresso della neonata AIDLaSS; relazione più attenta a risolvere questioni rilevanti sul piano dell’ordinamento statuale che a valorizzare le logiche interne al cosiddetto ordinamento intersindacale.

 La costruzione proposta da Giugni toccava in particolar modo due questioni molto controverse: la nozione di interesse collettivo e conseguentemente di categoria; gli effetti della parte normativa del contratto collettivo di diritto comune e l’inderogabilità che la giurisprudenza consolidata faceva discendere dall’applicazione dell’art. 2077 c.c. Le critiche mosse a Giugni da esponenti assai autorevoli della disciplina aiutano a capire quale fosse il clima politico-accademico dell’epoca. Per quanto riguarda interesse collettivo e categoria, le tesi di Giugni non urtavano più che tanto la sensibilità dei teorici della privatizzazione del diritto sindacale, ma il sostegno più convinto al relatore lo espresse Mancini, che ribadiva la tesi già formulata nella famosa prolusione sull’art. 39 Cost. (Mancini 1963), insistendo sulla definizione dell’interesse del sindacato come interesse degli iscritti al sindacato (lo stesso Giugni qualificava come “alieno” per il sindacato l’interesse dei non iscritti). Quanto alla costruzione dell’inderogabilità del contratto collettivo di diritto comune proposta da Giugni (che a me era piaciuta molto) il dissenso era invece corale; duro l’intervento di Mengoni, ma molto critico anche l’intervento di Ghezzi.

 Quale era l’oggetto, vero, di quella discussione, che trovava tutti, tranne Federico Mancini (da sempre coerente con la sua famosa prolusione del 1963 sull’art. 39 Cost.), in dissenso da Gino Giugni, nel contesto politico – accademico dell’epoca?

 Il dissenso investiva in egual misura il metodo antiformalistico e la sostanza. La privatizzazione del diritto sindacale “in carenza” di legge (la legge di attuazione dei commi da 2 a 4 dell’art. 39 Cost.) aveva reso obsolete le letture pubblicistiche, che pure sopravvivevano in un settore minoritario della dottrina: Carlo Esposito, non Costantino Mortati, per intenderci. Ma la privatizzazione portava a conseguenze assai diverse a seconda di come l’autonomia sindacale veniva costruita: tra un’autonomia collettiva costruita sulle gambe corte del codice civile, e un’autonomia sindacale costruita come portato di un ordinamento giuridico complesso, dotato di un potere normativo originario e autosufficiente, correva una notevole distanza.

Penso alle soluzioni che potevano prospettarsi in ordine al problema dell’efficacia (reale o soltanto obbligatoria) della parte normativa del contratto collettivo e alla sua inderogabilità ad opera del contratto individuale di lavoro; al problema dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, portato alla ribalta dai forti contrasti sulla legittimità costituzionale della legge Vigorelli. E penso anche alle diatribe intorno alla legge del 1956 sul distacco delle aziende a prevalente partecipazione statale da Confindustria, risolte dalla Corte costituzionale (sentenza n. 1/1960) che definì l’obbligo di sganciamento delle imprese pubbliche da Confindustria un atto di autodeterminazione associativa dello Stato.

 Con la dottrina del diritto sindacale dell’epoca pre-statuto il tuo approccio, mi è sembrato di capire, era critico. Cosa non ti convinceva e cosa invece ritenevi apprezzabile?

 Più che di approccio critico parlerei, più onestamente, di incertezza. Ero stata formata a una scuola privatistica, ne condividevo l’impianto complessivo, ma non le estremizzazioni (specie quelle di taglio confindustriale). Ho detto sopra del mio pluralismo e del mio monismo anch’esso moderato: partendo dall’idea che l’ordinamento sindacale derivasse la propria autonomia da una norma statuale (l’art. 39), ritenevo che lo Stato potesse e anzi dovesse intervenire per garantire ai lavoratori la protezione che una contrattazione collettiva orfana dell’efficacia generale non era in grado di assicurare. Nel mio primo lavoro impegnativo ma immaturo sul tema dell’interpretazione dei contratti collettivi (su cui avevo già lavorato per la tesi) avevo speso molte pagine per dimostrare che la legge Vigorelli era pienamente rispettosa dell’autonomia sindacale. Mazzoni non era d’accordo, in coerenza con una concezione privatistica nella quale non c’era posto per l’intervento di una legge dello Stato; a me invece quella legge piaceva.

 Lo “Statuto dei diritti dei lavoratori”, a cui hai dedicato molti studi, ha rappresentato una svolta, anche nel modo di fare legislazione. Cosa ha rappresentato le legge fondamentale dei diritti dei lavoratori negli anni ’70 e in quelli successivi e come ha inciso nella dottrina e nella pratica dei giuslavoristi?

 Lo Statuto dei lavoratori era, e resta, una legge diversa dalle altre: una Carta dei diritti dei lavoratori che le riforme degli anni sessanta non erano riuscite a portare dentro i cancelli delle fabbriche. Lo Statuto dei lavoratori non nasceva nel vuoto e neppure per caso: la sua elaborazione avvenne nel cuore dell’ “autunno caldo” sindacale, la stagione del rinnovo di una cinquantina di contratti collettivi di categoria, simbolicamente egemonizzata dalla lotta dei metalmeccanici; la pressione politica era forte e a guidare le scelte era la ricerca di un compromesso accettabile per la stessa controparte padronale: un dispositivo generale e astratto di riconoscimenti reciproci di doveri e di diritti, come ha scritto di recente Marco Revelli.

 Il confronto politico fu serrato e sboccò, in Parlamento, nella “sofferta” astensione del PCI e del PSIUP nella votazione in aula, malgrado che il lavoro svolto in Commissione avesse consentito di ampliare notevolmente, rispetto al disegno di legge originario, tutto incentrato sui diritti sindacali, la parte della legge dedicata ai diritti individuali dei lavoratori, che era invece il cuore dei progetti presentati da questi due partiti. In effetti, nel testo dello Statuto approvato dalle Camere convivevano ormai due anime: l’una rivolta alla tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori mediante la tecnica delle norme inderogabili, l’altra promozionale dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, che assumeva valenza strumentale rispetto alla tutela dei diritti individuali. Ma non era solo l’intreccio tra individuale e collettivo a caratterizzare lo Statuto, il cui baricentro si spostava dalla contrattazione alla mediazione giudiziaria, per l’innegabile espansione della parte riservata ai diritti individuali “giustiziabili”, ma anche e soprattutto per l’introduzione di una disposizione (sostanziale e processuale insieme) sulla repressione della condotta antisindacale (art. 28), destinata a diventare la “norma di chiusura” del sistema di tutele collettive (ma anche individuali, grazie alla “plurioffensività” della condotta antisindacale) predisposto dalla Statuto.

 Quanto alla tua domanda sull’incidenza dello Statuto nella dottrina e nella pratica dei giuslavoristi non posso cavarmela dicendo: l’incidenza è stata enorme. Mi corre l’obbligo di fornire qualche spiegazione, anche minima. Vale allora la pena di ricordare che lo Statuto era stato accolto male sia dalla destra sia dall’estrema sinistra, e di ciò recavano traccia le prime interpretazioni dottrinali. Forti divergenze vi erano anche tra i giuslavoristi “di sinistra”, divisi tra coloro per i quali cardini centrali della tutela del lavoro dovevano essere il sindacato e la contrattazione collettiva (questa dottrina, detta “sindacale”, era riconducibile a Giugni e Mancini), e coloro per i quali la legge doveva rendere certi e “giustiziabili” (di fronte al giudice togato) tutti quei diritti individuali dei lavoratori (incluso il diritto di sciopero), che già potevano essere letti nella Costituzione, cui la legge doveva dare finalmente attuazione (questa dottrina, detta “costituzionalista”, era riconducibile ai giuristi della Rivista giuridica del lavoro, allora diretta da Ugo Natoli). Ma questa divergenza era destinata ad avere vita breve: accantonate le polemiche della prima ora, era divenuta corrente una lettura dello Statuto che consentiva di intrecciare individuale e collettivo, coordinando le due parti della legge. Insomma lo Statuto invitava i giuslavoristi a mettere da parte vecchie polemiche per affrontare una trasformazione profonda del diritto del lavoro, nel quale i diritti “di cittadinanza” dei lavoratori diventavano diritti contrattuali; il contratto di lavoro subordinato, pure restando formalmente un contratto, nella sostanza abbandonava l’area dominata dalla logica privatistica del contratto come patto tra eguali in diritto, per aprirsi all’ingresso dei diritti fondamentali dei lavoratori.

 Ce n’era abbastanza perché un’intera generazione di giuslavoristi trovasse nello Statuto la via maestra per rinnovare gli studi di diritto sindacale e del lavoro, alla riscoperta dei valori fondanti della nostra Costituzione, forte dell’apporto della critica antiformalistica che sorreggeva il rinnovamento metodologico.

Lo “Statuto” in quali parti può ritenersi ancora oggi attuale? Pensi che abbia bisogno di una sana manutenzione ed estensione della tutela di altri soggetti, come alcuni sostengono?

Le fortune dello Statuto non hanno avuto lunga durata; la crisi del suo sistema di rigide garanzie, cominciata già nella seconda metà gli anni Settanta, è proseguita nei decenni successivi, e ha subito una forte accelerazione in questi ultimi dieci anni di riforme e controriforme che hanno profondamente segnato il diritto del lavoro, mettendo ai margini, o addirittura eliminando, proprio quelle parti dello Statuto che nel lontano 1970 avevano creato la nuova identità del diritto del lavoro, anche se non tutte le sue disposizioni sono state espressamente o implicitamente abrogate, o tanto fortemente rimaneggiate da renderle irriconoscibili.

Certo qualcosa del disegno statutario resta fermo: primo fra tutti il diritto dei lavoratori ad una propria rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, della quale i datori di lavoro debbono rispettare le prerogative e con la quale sono (talora) tenuti a negoziare. Ma rispetto allo Statuto, che ancora si muoveva sulla linea del non intervento diretto della legge (la “legge promozionale”), e al modello di RSA incarnato dal suo art. 19 (mutilato da un referendum e rammendato dalla Corte costituzionale), è diventata evidente la necessità di un intervento diretto della legge, che garantisca a tutti i lavoratori il diritto ad una rappresentanza sindacale effettivamente rappresentativa, la cui attività sia basata sul consenso e sia comunque soggetta al controllo dei rappresentati.

Un altro fondamentale perno dell’architettura dello Statuto ha invece ceduto: l’inderogabilità delle norme lavoristiche ha smesso da un pezzo di essere un elemento identitario del diritto del lavoro. La crisi dell’inderogabilità comporta la riduzione dello spazio per la tutela in giudizio di posizioni soggettive di incerta qualificazione; i limiti ai poteri datoriali si sono affievoliti, mentre alcuni diritti fondamentali dei lavoratori conoscono un lungo inverno, dal quale temo non riuscirà a farli uscire la riscoperta del valore del lavoro imposta dal disastro economico e sociale indotto dalla pandemia.

A fronte di tutto ciò, è forte la tentazione di conservare lo Statuto come un pezzo da esporre nella bacheca di un museo della “buona legislazione”. Ma è – a mio parere – una tentazione da respingere, almeno da parte di chi pensa (come io penso) che il diritto del lavoro da vent’anni a questa parte stia sacrificando sull’altare dell’efficienza competitiva delle imprese la funzione, cui lo chiamano sia la Costituzione, sia (seppure più timidamente) il diritto dell’UE, di imporre al mercato regole dirette a correggere, in senso pro-labour, lo squilibrio delle forze in gioco, anziché riformulare in termini giuridici le cosiddette “leggi” del mercato.

Se tenere in vita quello Statuto pare oggi un’impresa tanto ardua quanto forse inutile, dovrebbe essere invece possibile tenere saldi i principi che lo ispirano. Con quali strumenti è questione controversa e di non facile soluzione, perché coinvolge­ – tra l’altro – la questione della dicotomia lavoro autonomo/lavoro subordinato e la scelta della strada da seguire per garantire una serie di diritti fondamentali anche a chi presta lavoro a favore di altri in condizioni di autonomia.

Con la riforma del 1973 (che non a caso ha la paternità di Giugni) anche il processo del lavoro ha assunto una forza dinamica, moderna e a sostegno della tutela dei diritti del lavoro. Ma non sempre i giudici e l’opera della giurisprudenza sono stati apprezzati. Come valuti la giurisprudenza innovativa degli anni ’70 e di quelli immediatamente successivi?

 

 

La storia dello Statuto è, per buona parte, storia della giurisprudenza del lavoro. Del resto, non si coglierebbe appieno la portata della riforma del diritto del lavoro introdotta dallo Statuto, se si trascurasse l’apporto decisivo dato dalla riforma del rito del lavoro (legge n. 533/1973) al ruolo crescente dell’intervento dei giudici in ambiti fino ad allora rimasti fuori dalle aule giudiziarie: non una mera supplenza del giudice, in caso di insufficienza della via contrattuale, ma una vera e propria via maestra aperta all’ingresso della giustizia dello Stato nell’anomico sistema italiano di relazioni industriali. Dei mutamenti profondi che lo Statuto apportava all’intero diritto del lavoro si sono resi interpreti i giudici: la pattuglia di “pretori d’assalto”, investiti dalla feroce critica del settore più conservatore della dottrina giuslavoristica e non solo, ma anche quella giurisprudenza di merito che nel suo insieme ritrovava nella Costituzione i principi-guida per l’interpretazione delle nuove regole statutarie.

 Per quanto mi riguarda, ho sempre dedicato molta attenzione alla giurisprudenza e non ho condiviso le critiche rivolte ai giudici che nei primi anni ’70 hanno fatto vivere, mediante la loro interpretazione, gli enunciati normativi dello Statuto: qualche eccesso c’è stato, non c’è dubbio, ma complessivamente l’apporto della giurisprudenza ha contribuito al rinnovamento del diritto del lavoro in sintonia con gli assetti delineati da una generazione di giuslavoristi, più aperta culturalmente e più sensibile politicamente delle precedenti.

Quale è il ruolo del giudice del lavoro, oggi, e quale deve essere a tuo avviso in rapporto all’interpretazione e all’applicazione nel caso concreto delle leggi, anche con riferimento alle fonti europee e internazionali?

 La questione del ruolo dei giudici, e l’implicito interrogativo se la tutela dei diritti dei lavoratori debba essere prevalentemente affidata al giudice o invece alla mediazione sindacale (e dunque alla contrattazione, vale a dire alla soluzione compromissoria del conflitto di interessi), che aveva cominciato a porsi con insistenza negli anni ’70 (non senza l’enfatizzazione dei guasti prodotti da una giurisprudenza non disponibile a dare priorità alle soluzioni contrattuali: penso ad esempio alla vicenda dell’onnicomprensività della retribuzione), ha continuato a porsi nei decenni successivi, trovando nel legislatore una sempre più comoda sponda per limitare lo spazio di intervento del giudice del lavoro.

 Lo spazio si è obiettivamente ridotto, ma il ruolo del giudice del lavoro oggi non è, e non deve essere, diverso dal ruolo che aveva ieri: al giudice spetta interpretare la legge e risolvere, sulla base di un corretto procedimento interpretativo, nel quale rientra a pieno titolo l’interpretazione “adeguatrice” o “costituzionalmente orientata”, il caso concreto sottoposto al suo giudizio.

 Per quanto riguarda le fonti europee e internazionali è confortante poter constatare quanto sia cresciuta, nei nostri giudici, la padronanza delle soluzioni corrette da dare alle non facili questioni relative agli effetti orizzontali diretti e verticali diretti, agli effetti indiretti, ai rapporti tra le Corti, alla pregiudizialità del giudizio della Corte Costituzionale e alla doppia pregiudizialità.

 Nell’opera di interpretazione assume sempre più importanza il diritto vivente, di formazione giurisprudenziale. E molte sono le critiche derivate anche da operazioni di evidente “creazionismo” giudiziario, anche nella prospettata, e ripetuta, necessità di assicurare la “certezza del diritto”. Quale è la tua opinione in proposito e come deve essere contemperato il diritto legale e il diritto giurisprudenziale del lavoro?

La risposta a questa domanda implica una teoria dell’interpretazione per la quale rimando senz’altro a Guastini. Ma per rispondere brevemente alle tue domande riprendo alcune considerazioni con le quali ho introdotto la ricerca sulla giurisprudenza svolta in occasione del trentennale di Lavoro e diritto, parlando di “costruzione” del diritto del lavoro ad opera dei giudici.

 I giudici agiscono – se così posso dire – di rimessa rispetto alle fonti del diritto del lavoro che sono chiamati ad interpretare ed applicare. Il diritto del lavoro “vivente” (così è detto il diritto costruito nelle decisioni dei giudici, soprattutto di ultima istanza) è, in buona misura, un diritto di “secondo livello”: la politica del diritto del lavoro la fanno i legislatori (al plurale, perché dobbiamo oggi parlare di una molteplicità di “legislatori” e di una politica del diritto multilivello). Anche i giudici fanno politica del diritto, ma lo spazio in cui operano è condizionato dall’operato dei legislatori. Questo non significa né che lo spazio sia necessariamente ristretto, né che la politica del diritto dei giudici sia necessariamente subalterna. Basta pensare, tanto per chiarire fin da subito il senso di questa affermazione, che nel nostro ordinamento i giudici sono i motori dell’intervento della Corte Costituzionale: detto grossolanamente, chiedere alla Corte di decidere della legittimità costituzionale di una legge vuol dire non accettare, in limine, le scelte politiche del legislatore. Sono ancora i giudici i motori dell’intervento in via pregiudiziale della Corte di giustizia; dunque spetta a loro mettere in discussione la conformità al diritto dell’Ue delle scelte del legislatore interno. Resta però da dire che il manufatto creato dai giudici non può prescindere dai materiali che vengono forniti loro: se i legislatori forniscono una normativa del lavoro succube del pensiero economico neo-liberista (così avviene da molti anni a questa parte, e segnatamente dall’inizio di questo secolo), ai giudici rimasti fedeli ad un diritto del lavoro più autonomo o meno succube non resta che uno spazio interstiziale di manipolazione, che riempiranno con le interpretazioni correttive, conformi, e adeguatrici di cui è ricca l’esperienza giurisprudenziale di questi decenni.

 In sostanza, parlando di costruzione del diritto del lavoro ad opera della giurisprudenza ho voluto dire che il lavoro dei giudici non consiste solo nell’attribuire significato ad un testo normativo, ma di frequente anche «nel costruire – a partire da norme “esplicite”, espressamente formulate dalle autorità normative – norme “inespresse” (“implicite”, ma in un senso molto ampio, non logico, di questa parola): norme, insomma, che nessuna autorità normativa ha mai formulato», norme cioè di cui non si può dire che costituiscono il significato (uno dei significati) di una determinata disposizione (Guastini). A chi contesta l’operato dei giudici in nome della certezza del diritto risponderei: è l’interpretazione, bellezza!

Hai sostenuto, nell’intervento al Congresso AIDLaSS di Bari, del 23-25 aprile 1982, dal titolo “Prospettive del diritto del lavoro per gli anni ’80”, la priorità della tutela in giudizio delle garanzie che la legge attribuisce al lavoratore e la netta distinzione tra collettivo e individuale, sottraendo alla competenza dell’autonomia collettiva la disposizione sui diritti individuali garantiti dalla legge. Oggi che il disegno politico che era alla base delle idee di Gino Giugni (sviluppate nella sua relazione) del garantismo flessibile e delle norme semi-imperative, non si è realizzato, nell’evidenza della crisi dell’inderogabilità delle norme lavoristiche, qual è la tua posizione?

 La mia posizione attuale non è sorretta dalla stessa vis polemica con cui allora mi contrapponevo al disegno riformista che era alla base della relazione di Giugni. Ma nella sostanza non ho cambiato opinione.

 La tua esperienza professionale è stata essenzialmente quella dell’insegnamento, oltre a quella di studio e ricerca, ovviamente. Quale è stato il tuo “metodo” e quale rapporto hai avuto con gli studenti?

 Il mio “metodo”, se vogliamo chiamarlo così, non è rimasto eguale a sé stesso per i quarant’anni e più in cui ho insegnato, e soprattutto è mutato in ragione della dimensione dell’aula che avevo di fronte: una cosa è lavorare con un gruppo limitato di studenti, con i quali è possibile costruire un percorso di tipo seminariale, altra cosa è fare lezione a duecento studenti. Una costante per me è stata comunque la ricerca della chiarezza nella presentazione degli argomenti, insieme allo sforzo di costruire le nozioni attraverso una lettura diacronica del contesto economico e politico nel quale i materiali utilizzati (testi normativi, dottrine, giurisprudenza) si inseriscono. Peraltro ho sempre pensato che una lezione universitaria non debba somigliare a una lezione liceale (anche ottima); la mia didattica non è mai stata friendly né accattivante, ma credo di poter dire di avere goduto di un alto livello di attenzione da parte degli studenti. Ho fatto largo uso delle prove scritte (sobbarcandomi il lavoro, spesso ingrato, di correggere centinaia di compiti), perché credo nella loro utilità per gli studenti e per chi deve giudicarli, contribuendo così alla fama dell’esame di Diritto del lavoro: ma nessuno ha mai contestato un mio giudizio, neppure quando era negativo. Infine credo di poter dire che il mio rapporto con gli studenti è stato un buon rapporto: sono sempre stata considerata severa, ma anche disponibile a dare spiegazioni a chi ne aveva bisogno e a seguire attentamente i tesisti, aiutandoli ad affrontare le difficoltà di un elaborato scritto.

E quale è stato, e continua ad essere, il tuo rapporto con gli allievi della “scuola” genovese?

 Di questo dovrebbero piuttosto parlare loro... Io cosa posso dire? La mia scuola, se faccio riferimento agli allievi diretti, è numericamente piccola: Gisella De Simone e Marco Novella, attualmente professori ordinari nel Dipartimento di Giurisprudenza, Anna Rivara e Stefano Costantini, che dopo aver conseguito il dottorato di ricerca, si sono dedicati ad altre professioni, continuando però a coltivare gli studi giuslavoristici. Insegnando a Economia, il numero di studenti sui quali poter fare un “investimento” – se così posso dire – in vista di una eventuale continuazione del percorso accademico è sempre stato minimo, e si è ridotto a zero dopo l’introduzione del 3+2, quando il Diritto del lavoro è diventato insegnamento della laurea triennale e gli insegnamenti lavoristici nei corsi di laurea magistrale si sono andati via via riducendo. Anche per questo ho sempre pensato che siano stati loro, i miei allievi, a scegliere me, chiedendomi la tesi e accettando poi la mia proposta di continuare a studiare, ben sapendo che avevo poco da offrire: del resto, sulla mancanza di potere accademico, e sulla mia totale inettitudine all’intrigo, sono sempre stata molto chiara.

      Non spetta a me dire se sono stata un buon Maestro; posso però dire di aver messo molto impegno nel guidare gli allievi nella ricerca, rispettando la loro autonomia, ma non risparmiando loro – se del caso – la severità del mio giudizio. Infine, sono infinitamente grata a Gisella e a Marco della profonda amicizia e dell’affetto che mi dimostrano e della considerazione che continuano ad avere per il loro Maestro; e non sono meno grata ad Anna e Stefano del rapporto affettuoso che hanno voluto mantenere con me.

I tuoi manuali di diritto sindacale e del lavoro (quest’ultimo condiviso anche con due tuoi allievi), sono molto apprezzati e adottati anche in altre università. Cosa spinge un professore a realizzare un manuale? È una iniziativa che nasce dall’esigenza di armonizzare le lezioni agli studenti con il testo scritto per agevolarne lo studio oppure è anche una scelta dettata dalla necessità di mettere a punto la materia oggetto di insegnamento, anche per confrontarsi con le altre scuole di pensiero?

Credo che la ragione principale alla base della scelta di affrontare la fatica di scrivere un manuale sia l’esigenza di disporre di un testo armonico con il contenuto delle lezioni, ma ci sono spesso anche altre ragioni. I manuali che portano la mia firma hanno storie e ragioni diverse.

 Il manuale di diritto sindacale (la prima edizione è del 2004) è un lavoro totalmente personale (nel senso che non c’è una riga di quel testo che non abbia scritto io) ed è nato quando, dopo aver insegnato per tanti anni il diritto sindacale, di cui sono sempre stata appassionata, e aver accumulato diversi faldoni di appunti, frutto di una notevole messe di letture, ho deciso di mettere finalmente ordine in quel materiale e tirare fuori il libro che desideravo da tempo scrivere. Il risultato (nelle varie edizioni il testo ha subito qualche cambiamento, ma l’impianto è rimasto lo stesso) è un manuale diverso da altri manuali in circolazione, che rispecchia il mio modo di insegnare una materia fatta più dai giuristi che dal legislatore; una materia che, a mio giudizio, si presta poco all’apprendimento mnemonico, e richiede invece la ricostruzione del contesto delle vicende e delle idee nelle quali si colloca l’elaborazione delle categorie giuridiche. Più che un manuale, considero il mio “diritto sindacale” uno dei libri di maggior impegno scritti nel corso della mia carriera.

 Il manuale di diritto del lavoro, scritto a quattro mani con Gisella De Simone (e con la collaborazione ad una parte di Marco Novella) ha una storia diversa. La prima edizione è del 2012 (l’anno del mio pensionamento), il che significa che entrambe, Gisella ed io, abbiamo esitato a lungo prima di affrontare la grande fatica di scrivere un manuale di Diritto del lavoro, vista l’enorme dimensione assunta dalla materia da trattare. La decisione è nata dalla constatazione della necessità di mettere a disposizione degli studenti un testo che rispondesse alla struttura e al metodo dei nostri corsi (dopo il pensionamento ho continuato ad insegnare per altri 5 anni) meglio di quanto potessero fare altri manuali che avevamo utilizzato negli anni precedenti.

 Ad affrontare la stesura del manuale Gisella e io siamo arrivate avendo alle spalle l’elaborazione di un altro testo che abbiamo adottato per qualche anno nei nostri corsi di Diritto del lavoro a Economia: si trattava in sostanza di un case-book, nel quale, chiariti i riferimenti normativi, illustravamo un caso tratto dalla giurisprudenza, proponendo una serie di domande e suggerendo il percorso per arrivare alla loro soluzione. Un testo obiettivamente difficile per gli studenti (tra noi lo chiamavamo scherzosamente “Casi vostri”), ma costruito su una ricerca giurisprudenziale molto seria, che ci è stata di grande aiuto nel momento in cui abbiamo deciso di scrivere un manuale di taglio tradizionale.

 Abbiamo costruito insieme la struttura del manuale, poi ci siamo assegnate i vari capitoli, facendoci carico della gran parte del lavoro, ma chiedendo aiuto a Marco per una parte su cui la sua competenza era maggiore della nostra; abbiamo cercato, anche mediante una attenta revisione, di dare omogeneità metodologica e stilistica al testo. Al lettore attento non sfuggono certamente le differenze che corrono tra le parti scritte dai diversi autori, ma nell’insieme credo che il manuale si presenti come un’opera collegiale.

Purtroppo la bulimia che affligge il legislatore ci costringe, in media ogni due anni, a fare una nuova edizione: una fatica che fa rimpiangere i tempi in cui lo smilzo volumetto delle Nozioni di Santoro-Passarelli bastava e avanzava.   

 Raccontaci qualcosa di interessante della tua lunga esperienza di insegnamento all’estero, che ha arricchito il tuo percorso intellettuale. Quali sono i giuristi stranieri più importanti con i quali hai avuto modo di collaborare?

Sarebbe una storia lunga e non voglio annoiare i lettori raccontandola. Ho incontrato molti colleghi stranieri (a partire dalla indimenticabile esperienza dei seminari internazionali di Pontignano: basta citare Bill Wedderburn e Miguel Rodriguez Piñero y Bravo Ferrer) e con alcuni di essi ho avuto occasioni di collaborazione. Ma l’esperienza indubbiamente più importante, anche per la sua durata ventennale, è stata quella del seminario che, ogni anno, tenevo nell’ambito del corso di diritto del lavoro comparato del troisième cycle, poi master, diretto da Antoine Lyon-Caen, che per vent’anni mi ha voluto accanto a sé come professore invité. Ogni anno, lungo l’arco di un mese, tenevo due seminari la settimana sul diritto sindacale italiano. Con Antoine lavoravamo molto sulla terminologia (tanto per fare un esempio banale: non puoi tradurre in francese diritto sindacale con droit syndical; per non essere frainteso da chi ti ascolta devi dire droit des relations professionnelles), ma ovviamente non meno sulle costruzioni dottrinali e giurisprudenziali.

 Oltre alla grande amicizia con Antoine, che stimo profondamente come studioso di grande valore ma di cui apprezzo molto anche le doti di affascinante conversatore, e alla familiarità con il diritto sindacale francese, quella esperienza mi ha dato due cose preziose: la gioia di vivere ogni anno a Parigi per un mese (in compagnia di Riccardo Guastini, che era contemporaneamente invitato da Michel Troper), e la padronanza del francese.

 Ho avuto anche la chance di collaborare con Alain Supiot, come professore invité a Nantes e nell’ambito di un gruppo internazionale costituito da Alain intorno ad alcuni progetti di ricerca. L’intelligenza, la spiccata personalità e il grande charme di Alain sono noti a tutti.

La tua esperienza professionale, però, non è fatta solo di insegnamento. Dal 1996 al 2002 hai fatto parte della seconda Commissione di Garanzia dello Sciopero con Gino Giugni Presidente; un Collegio nel quale hai potuto confrontarti con giuristi e studiosi di diversa formazione e sensibilità come Luisa Galantino, Gian Primo Cella, Giorgio Ghezzi, Sergio Magrini, Giulio Prosperetti, Francesco Santoni, Giuseppe Ugo Rescigno, poi sostituito da Cesare Pinelli. Cosa puoi raccontarci di questa esperienza?

La nomina mi aveva colta di sorpresa (ho saputo di essere stata nominata quando Giugni mi ha telefonato per convocarmi alla prima riunione), ma ne ero stata molto felice. Conoscevo bene la materia, perché con Umberto Romagnoli, che all’epoca era membro della prima Commissione, avevo lavorato al Commentario della legge n. 196/1990 (pubblicato nel 1994), e quel lavoro mi aveva consentito di studiare, oltre ai problemi di interpretazione della legge, anche il ruolo svolto dalla Commissione di garanzia e le soluzioni elaborate alle molte questioni che si era trovata a dover affrontare.

 I sei anni (allora erano due mandati) in cui sono stata Commissaria sono stati anni di intenso lavoro; ho vissuto un’esperienza molto ricca anche sul piano dei rapporti umani: basta leggere il nome dei Commissari per capire quanto potesse essere stimolante il confronto che si verificava durante le riunioni (tutte le settimane, con la sola pausa del mese di agosto) quando dovevano essere affrontate questioni difficili, che ancor più difficili erano diventate per noi a partire dall’entrata in vigore della legge n. 83/2000, che introduceva modifiche molto rilevanti nella disciplina della materia, alcune delle quali incidevano direttamente sul modo di agire della Commissione e sulle sue responsabilità.

 Trovarsi a Roma tutte le settimane e passare ore insieme aveva fatto nascere delle belle amicizie tra noi Commissari: voglio ricordare specialmente Gian Primo Cella, con il quale condividevo anche il viaggio da e per Fiumicino; devo a lui uno dei più bei complimenti che abbia mai ricevuto: “Maria Vittoria risolve più problemi di quanti ne crea”; come dire: chi la considera una piantagrane non ha mai lavorato con lei. Ma non dimentico la simpatia e l’ospitalità di Giulio Prosperetti.

 In Commissione sono stata responsabile del settore del trasporto aereo, per il quale ho elaborato la proposta di regolamentazione provvisoria approvata dalla Commissione, che, con le inevitabili e necessarie modifiche, resta tutt’ora in vigore; un lavoro enorme, costato decine di audizioni e di riunioni, che ha richiesto tra l’altro l’acquisizione di una serie di conoscenze tecniche sulla complicata rete di servizi strumentali al volo; sono stata responsabile anche del settore credito, nel quale, attraverso una serie di incontri con le parti sociali, non sempre facili, sono arrivata a concludere un buon accordo. Per me è stata davvero preziosa la collaborazione di Giovanni Pino e Maria Paola Monaco.

 Ho parlato prima di intenso lavoro, e credo non sia un’esagerazione; mi sono state affidate delibere interpretative di indubbia difficoltà e delicatezza, e ho sempre partecipato attivamente alle settimanali riunioni a Roma. Il Presidente e i Colleghi apprezzavano la mia velocità nel redigere delibere mentre erano ancora in corso le discussioni; ricordo che a fine discussione Gino si rivolgeva a me chiedendomi: Maria Vittoria, abbiamo un testo? Leggevo il testo, si facevano i ritocchi del caso e si passava la pratica alla segreteria.

 Dopo l’assassinio di Massimo D’Antona, gli anni del secondo mandato li ho passati sotto scorta: disagio notevole, ma vissuto almeno senza paura; anche se non era proprio, come mi aveva detto il capo della Digos di Genova per indorarmi la pillola, avere il taxi di Stato.   

In questo Collegio il rapporto con Giugni è stato più diretto e hai potuto apprezzarlo anche nel concreto di una attività di non facile mediazione. Quali sono i tuoi ricordi in proposito?

La presidenza di Giugni dava grande autorevolezza a una Commissione che di autorità ne aveva poca, dato che la legge del 1990 non l’aveva dotata dei poteri necessari per imporre le proprie decisioni; poteri che le sono stati riconosciuti, in parte, dalla legge del 2000. Di questo eravamo tutti consapevoli, incluso chi, come Giorgio Ghezzi, per ragioni di prestigio e di età, aveva con Giugni un rapporto “alla pari”, se così posso dire. Quando aveva assunto la presidenza, Giugni portava già i primi segni della malattia che l’aveva colpito, ma guidava con sicurezza la Commissione, sfruttando bene la sua fama, il grande rispetto di cui godeva e l’attenzione che gli riservavano i media per portare all’attenzione generale i problemi del conflitto nei servizi pubblici e la necessità di dotare la Commissione dei mezzi e degli strumenti (anche giuridici) necessari ad intervenire efficacemente per salvaguardare i diritti degli utenti. Purtroppo la malattia si era progressivamente aggravata; nell’ultimo periodo del secondo mandato Giugni era stato costretto a diradare la sua presenza, delegando parte delle sue funzioni al vice-presidente (ruolo non previsto, ma istituito per far fronte alla situazione e per il quale avevamo scelto Prosperetti). Ma la nostra Commissione era la “Commissione Giugni”, e tutti noi abbiamo lavorato – con impegno, ma anche con vero affetto – perché i problemi che si ponevano all’interno a causa della malattia del nostro Presidente rimanessero appunto un problema di organizzazione interna della Commissione.  

Quello dello sciopero nei servizi pubblici essenziali è anche un tema di tuo approfondimento, a partire dal Commentario alla legge n. 146/1990 scritto insieme a Umberto Romagnoli. Pensi che sia una legge ancora da modificare e in che modo?

La legge ha certamente bisogno di manutenzione per rispondere più efficacemente al ruolo di regolatore dei conflitti nel settore dei pubblici servizi, a fronte dell’aggravarsi della frammentazione sindacale e dell’uso patologico dello sciopero come strumento per acquistare visibilità.

 Di riforme della legge si parla molto, e sono state avanzate da autorevoli componenti della Commissione di garanzia alcune proposte sulle quali ho avuto occasione, anche di recente, di formulare un giudizio critico. Senza ripetere qui le cose che ho scritto (mi riferisco ad un saggio pubblicato nel 2018 in Lavoro e diritto), mi pare di potermi limitare a segnalare che il nodo è rappresentato dalla questione della titolarità del diritto di sciopero, da cui derivano conseguenze rilevanti in ordine alla possibilità dei lavoratori di scioperare. Per chi come me pensa che la titolarità del diritto di sciopero sia individuale e non collettiva, o addirittura sindacale, le proposte di limitare l’esercizio del diritto in ragione della rappresentatività del soggetto collettivo proclamante sono inaccettabili, così come suscitano non poche perplessità le proposte di sottoporre la partecipazione allo sciopero a procedure di accertamento preventivo, che porterebbero a legittimare solo lo sciopero approvato dalla maggioranza dei lavoratori coinvolti nel conflitto.  

Ti sei, poi, occupata, per oltre dieci anni, come esperta della Commissione Europea, delle direttive europee in materia di parità di trattamento tra uomini e donne, oggetto di una parte importante dei tuoi studi.

 Al network di esperti indipendenti (più donne che uomini, in realtà), voluto da Odile Quentin, una dirigente di grande capacità e notevole polso, era affidato il monitoraggio sull’applicazione delle Direttive a livello nazionale; gli esperti redigevano un dettagliato rapporto sulla situazione nazionale e si riunivano a Bruxelles per discuterne i contenuti e compararne i risultati. Dal network venivano anche avanzate proposte, rivolte alla Commissione, sulle azioni da intraprendere per correggere le cattive pratiche nazionali, ma anche per migliorare la “legislazione” europea. Gli esperti nazionali (per l’Italia Treu ed io) affrontavano impegnative discussioni nelle quali emergevano spesso punti di vista profondamente differenti: penso alla definizione della discriminazione indiretta e alle azioni positive in particolare. Il network fu direttamente coinvolto in due interessanti Colloques organizzati all’Università di Louvain-la-Neuve, per iniziativa del Prof. Verwilgen, in cui sono stata relatrice; dell’esperienza di Bruxelles conservo inoltre il ricordo dell’amicizia con Eliane Vogel-Polski, studiosa di grande prestigio, e donna straordinaria.

 E di pari opportunità, a livello ministeriale e regionale.

 Se non ricordo male era il 1986 (a volte faccio fatica con le date, perché ho l’abitudine di buttar via sistematicamente le “carte”, inclusa la corrispondenza, che riguardano il mio passato, nella convinzione che conti solo ciò che conservo nella mia memoria).

 L’allora Ministro del lavoro (il socialista De Michelis) aveva preso l’iniziativa di costituire presso il suo Ministero un Comitato pari opportunità, da lui stesso presieduto, specializzato in materia di lavoro, a far da contraltare ad una Commissione pari opportunità che era stata invece istituita presso la Presidenza del Consiglio. Nel Comitato erano rappresentati, oltre alle parti sociali, il vasto mondo dell’associazionismo femminile; con Bianca Beccalli, Tiziano Treu, Renata Livraghi e qualcun altro che ho dimenticato, facevo parte di un ristretto gruppo di esperti al quale spettava l’elaborazione di proposte da sottoporre al vaglio dell’assemblea. Il Comitato non aveva né una sede, né una struttura; si riuniva al ministero e si avvaleva del supporto di una micro-segreteria ministeriale. L’ambiente non era certo friendly; ho imparato lì la tipica risposta dei funzionari ad ogni richiesta: «nun ze pò ffà» (chiedo scusa per la rozza traslitterazione); e il Comitato non aveva la vita facile. Credo comunque che la cosa più interessante che il gruppetto di esperti è riuscito a fare è stata l’elaborazione, in collaborazione con Franco Liso, che, se non erro, era capo dell’ufficio legislativo del Ministro del lavoro, di un primo progetto di legge sulle azioni positive, materia sulla quale specialmente Bianca ed io avevamo maturato studi e idee. Quel progetto si è poi arricchito parecchio strada facendo, ma ancora riconosco le tracce del nostro lavoro in alcune parti della legge n. 125/1991.

  Devo aggiungere che, per quanto il Comitato italiano fosse alquanto abborracciato, far parte di un organismo ministeriale mi dava un ruolo istituzionale, così da farmi ritrovare in giro per l’Europa in Convegni organizzati dai vari Comitati e Commissioni operanti nei diversi Paesi e sponsorizzati dalla Commissione europea, in mezzo a gentili signore con le quali talvolta mi rendevo conto di avere ben poco da spartire.

  L’esperienza regionale è stata breve e di scarsa soddisfazione. A parte il problema di un assessore al lavoro che presiedeva il Comitato senza occuparsene, ma mettendo se del caso i bastoni tra le ruote, mi sono ben presto resa conto che, malgrado le componenti del Comitato (rappresentanti di associazioni femminili con cui non ho mai avuto rapporti) avessero grande fiducia in me, lo spazio di intervento era minimo. Ci sarebbe stato in realtà un grande spazio, quello della formazione, ma non mi ci è voluto molto per capire che era un terreno minato, sul quale costituiva un azzardo anche proporre di sopprimere i corsi di ricamo. In ogni caso da quella esperienza ho tratto una maggiore conoscenza delle problematiche locali, che mi è stata utile in altre circostanze.

Passiamo ad altro. La condizione universitaria femminile non è stata mai agevole. Nel convegno torinese del 1987 dell’AIDLaSS hai annunciato la costituzione, insieme a Silvana Sciarra, di un Gruppo di Azione Femminile all’interno dell’associazione dei giuslavoristi. Da cosa nasceva questa iniziativa?

Sono d’accordo con te: la condizione femminile non è mai stata agevole. Nel nostro, come in altri mestieri caratterizzati dalla schiacciante presenza maschile, le donne fanno fatica ad emergere, dovendo combattere pregiudizi, stereotipi, e un costume maschista spesso avvilente.

 Quando ho cominciato a muovere i mei primi passi nell’Università il numero delle donne “in carriera” era tanto piccolo che le dita di una mano erano fin troppe per contarle. Nel colmo degli anni ’80 le cose erano certamente cambiate, ma nella carriera le donne che riuscivano a sfondare il tetto di cristallo erano ancora molto poche (solo l’8% dei professori ordinari): singole persone, per lo più appartenenti ad una scuola che le aveva “promosse”, come tali non in condizione di portare la questione di genere fuori dai confini entro i quali si consumava il successo o l’insuccesso della singola donna.

 Nell’occasione del congresso torinese, con un gruppetto di colleghe impegnate come me sul fronte della discriminazione di genere, ci eravamo riunite per discutere se e come presentare nell’assemblea dell’Associazione una nostra iniziativa; venne dato a me l’incarico di scrivere e leggere il testo che presentai appunto in assemblea.

 Confesso di essermi divertita a rileggerlo: mi pare fossi riuscita a dire cose serie sulla condizione delle giuslavoriste, senza privarmi del piacere di qualche battuta ironica. Era ironico dire: non pretendiamo «di ingerirci nelle regole delle scuole, dove, ne siamo certe, la parità di trattamento tra uomini e donne è applicata senza riserve»; ma era invece un modo per affrontare questioni serie dire: «Il fatto è che non siamo eguali e non ci comportiamo nello tesso modo; a volte ci sfuggono persino i lati positivi dell’appartenere ad una comunità accademica e scientifica: le amicizie fraterne e le fraterne complicità di solito non ci riguardano»; e ancora: «le studiose non sono da meno degli studiosi; ma sono in genere meno attrezzate per una carriera che pretende cose spesso proibitive per le donne, come la disponibilità e la mobilità; sono meno capaci o meno desiderose di imitare gli uomini e i loro riti». Quello che, anche a nome di Silvana Sciarra, proponevo all’assemblea dell’AIDLaSS era la costituzione di un gruppo (dall’allusivo acronimo GAF) come «un punto di riferimento culturale in più», nella speranza «che il gruppo fosse capace di sue elaborazioni, di sue proposte e di un suo “stile”». «Ma vorremmo anche – aggiungevo – che il gruppo servisse a tenere sveglia l’attenzione di tutti sui problemi giuridici e non delle donne che lavorano come, più e talvolta meglio degli uomini».

 Era un’iniziativa ingenua e velleitaria, accolta gelidamente e destinata a non avere seguito. Nel complicato intreccio delle regole del gioco accademico, di cui l’Associazione era allora, e resta tutt’ora, specchio fedele, e in certe occasioni deformante, non c’era posto per un GAF che attraversasse trasversalmente le “scuole”, mettendone inevitabilmente in discussione la disciplina. Le giovani giuslavoriste di allora non erano in grado di affrontare una sfida così impegnativa.

 Fortunatamente l’aggregazione delle giuslavoriste ha saputo camminare per altre strade: il grande sviluppo degli studi sul diritto antidiscriminatorio, la crescente attenzione agli studi genere, l’impegno nelle istituzioni delle pari opportunità che operano a vari livelli, hanno creato un forte legame culturale, che si è tradotto e si traduce in convegni, incontri, dibattiti, libri e fascicoli di riviste dedicati. E forse qualche cosa di più di un legame culturale; anche se la competitività che domina nell’accademia la rende un luogo impervio per la sorellanza.

Cosa è cambiato da allora e cosa deve ancora cambiare?

Da allora le cose sono molto cambiate: basta guardare all’attuale composizione del corpo docente e alla sua distribuzione nei due livelli (prima e seconda fascia) che vede un incremento percentuale rilevante della presenza femminile; l’incremento è maggiore nell’area del lavoro precario (ricercatori a tempo determinato, assegnisti di ricerca). Le ragioni sono insieme materiali, e riguardano la trasformazione dell’Università e del suo ruolo, senza trascurare il peso del mutamento del sistema dei concorsi universitari, e culturali, nella misura in cui anche in un ambiente che continua ad essere caratterizzato dalla preponderante presenza maschile, la cultura delle pari opportunità si è fatta largo.

 Ma per esaminare l’insieme di queste ragioni occorrerebbe fare un lungo discorso, e non mi pare il caso di annoiare più che tanto chi avrà la pazienza di leggere questa intervista. L’Università è cambiata e anche il microcosmo della nostra disciplina accademica è cambiato; dubito tuttavia che si pratichi ovunque e seriamente una politica rispettosa della parità di genere nella distribuzione delle chances e attenta ai risultati, in termini di parità, delle scelte accademiche.

 Non è disarmante dover constatare che per vedere una donna eletta Presidente dell’AIDLaSS (Marina Brollo, nella specie) ci siano voluti più di cinquant’anni dalla costituzione dell’associazione?

Rispondendo alle domande precedenti hai fatto riferimento all’AIDLaSS. Dopo la stagione di rinnovamento introdotta da Gino Giugni, hai fatto parte del Comitato Direttivo dell’AIDLaSS nel triennio 1994 – 1997 (con Mattia Persiani Presidente e Oronzo Mazzotta Segretario; Giugni Presidente onorario). Come hai vissuto questa esperienza?

Con una buona dose di frustrazione. Il cosiddetto “Gruppo di Asciano” (alcune riunioni si erano svolte nella bella villa di Mazzotta in quel di Asciano), del quale facevo attivamente parte, si era presentato al Congresso AIdLaSS di Gubbio (nel quale ero stata relatrice) con i suoi candidati ed era riuscito ad ottenere la maggioranza degli eletti nel Direttivo (6 a 5). Essendo in maggioranza, il gruppo aspirava alla presidenza, per la quale aveva designato la sottoscritta: ma nel corso della prima riunione, dopo una breve sosta per mangiare un panino, la nostra maggioranza si ritrovò ad essere minoranza. Uno dei “nostri” era passato dall’altra parte: così la nuova maggioranza elesse presidente Mattia Persiani.

 Malgrado ciò, in quei tre anni credo di aver fatto con scrupolo il mio lavoro, proponendo temi per le giornate di studio, sui quali – ricordo – si svolsero discussioni approfondite in un clima complessivamente sereno, e sostenendo la candidatura di relatori. Del Congresso di Milano, con il quale si concluse il nostro mandato, conservo invece un ricordo non piacevole (se si esclude una chiacchierata, in certo senso “liberatoria”, con Mattia Persiani, seduti su una panchina nella corte della Statale): il Congresso di Gubbio era stato un intermezzo; l’AIDLaSS tornava alle sue logiche e ai suoi conflitti, rispetto ai quali mi sono sempre sentita più o meno come il marziano di Ennio Flaiano.

 

 Come hai vissuto le vicende, spesso convulse e contraddittorie, dell’Associazione degli studiosi giuslavoristi negli ultimi anni?

Con sempre maggiore distacco, anche se continuo ad essere iscritta e partecipo ancora ai congressi, quando il tema mi interessa, o quando mi viene espressamente richiesto. Non mi appassionano neppure i tentativi, in sé lodevoli, di modificare gli assetti dell’AIDLaSS, perché da molto tempo penso che l’Associazione si sia condannata a essere la vetrina del successo dei potentati accademici; questa è la logica che la governa e che ne condiziona la capacità di farsi motore di iniziativa culturale, che avrebbe bisogno di libertà, e non di pluralismi pesati con il manuale Cencelli.  

 Hai parlato di “distacco”. Però, dopo il Congresso AIDLaSS che si tenne a Pisa dal 7 al 9 giugno 2012, hai inviato, il successivo 12 giugno, una lettera aperta ai giuslavoristi italiani (che si può leggere sul sito www.pietroichino.it ), nella quale ci hai regalato un affresco sul significato e l’importanza delle “scuole”. In quella lettera aperta hai scritto che «la presenza di scuole organizzate in modo feudale e che agiscono come blocchi di potere abbia conseguenze nefaste sul progresso degli studi». Vuoi spiegare le ragioni di questo tuo pensiero, che io, tra tanti, condivido?

Scrissi quella lettera “a caldo”, reagendo a un intervento di Franco Carinci sulle scuole e sulla funzione delle riviste “domestiche” che mi era davvero spiaciuto, specie per il cinico messaggio che lanciava ai giovani.

 La mia riflessione partiva dal significato del termine scuola come aggregazione di un gruppo di studiosi intorno a scelte di metodo, a opzioni politiche e di politica del diritto; la presenza di una pluralità di “scuole di pensiero” è il sale di una disciplina, che si nutre della discussione e cresce nel confronto dialettico tra posizioni diverse. La nostra disciplina ha conosciuto in passato profonde divisioni tra scuole; le posizioni col passare degli anni si sono fatte più sfumate, ma le contrapposizioni restano, come è normale e bene che sia.

 Lo stesso termine scuola è spesso utilizzato anche in un altro significato: come luogo di provenienza degli allievi, ovvero come insieme organizzato di allievi intorno a un capo-scuola, che costruisce la loro carriera attrezzandoli perché siano in grado di occupare i posti che il capo sarà in grado di procurare loro. Nella nostra disciplina sono presenti scuole di lunga tradizione, che hanno germinato a loro volta altre scuole: il panorama presenta alcune aree stabili e aree terremotate, nelle quali le scuole tendono a segmentarsi, e dove ogni segmento si sposta frequentemente, mutando alleanze. Accanto alle grandi scuole (per “grandi” intendo qui numerose) si sono formate le piccole scuole, alcune delle quali sono scuole autonome (un professore indipendente o separato dalla scuola di origine e i suoi pochi allievi), altre sono invece delle sub-scuole, vale a dire delle delocalizzazioni della scuola madre.

Il quadro è variegato, e spesso si scompone e si ricompone: ma la divisione per scuole resta più o meno costante. In parte è bene che sia così, perché credo che le scuole, come luogo di formazione, siano indispensabili: conosco bene i difetti dell’auto-didattica, e so quanto può dare, in termini di crescita intellettuale, vivere la propria formazione all’interno di una scuola (sempre che a capo della scuola ci sia un vero Maestro, e che i rapporti all’interno della scuola non siano costruiti secondo una gerarchia di tipo aziendale). In parte invece no, perché – come hai ricordato tu, ponendomi la domanda – credo che la presenza di scuole organizzate in modo feudale e che agiscono come blocchi di potere abbia conseguenze nefaste sul progresso degli studi. Per una serie di ragioni: perché l’appartenenza ad una scuola accademicamente potente (di per sé o per l’inserimento in un gruppo potente) disincentiva i giovani ad occuparsi della qualità del loro lavoro di ricerca e incentiva invece la tendenza a preoccuparsi dei giochi e degli intrighi che garantiranno loro una carriera; perché l’appartenenza ad una scuola che opera come blocco di potere induce (o costringe: dipende dal carattere) a fedeltà che sono in netto e insanabile contrasto con quella libertà e autonomia dalle quali dipende largamente la qualità del lavoro scientifico; perché i concorsi gestiti da scuole che agiscono come blocchi di potere sono (inevitabilmente) mercati delle vacche. Con buona pace delle valutazioni comparative.

Ancora due parole sulla questione, sollevata da Carinci, delle “riviste domestiche”, cioè riviste proprie delle scuole sulle quali pubblicare i lavori dei giovani allievi. Certo, fino a quando per vincere i concorsi la qualità scientifica si valuta a peso, le riviste domestiche servono, eccome, così come servono le monografie, anche se semi-clandestine. Ma mi auguro che non sarà così per sempre. Se riuscirà ad affermarsi una cultura seria e non truffaldina della valutazione, la logica delle scuole feudali e la potenza di fuoco delle riviste domestiche sarà destinata a deperire, dando finalmente spazio a una vera comunità scientifica (una comunità di valutatori alla pari), che sappia esercitare, in modo serio e responsabile, il controllo e l’autocontrollo.

Non hai avuto una scuola, nel secondo senso di cui hai appena parlato, perché pochi sono stati gli anni vissuti nella “scuola” di Giuliano Mazzoni, alla quale non sei mai appartenuta, ma hai avuto tanti Maestri, verso i quali hai un debito di riconoscenza, senza essere mai appartenuta alla scuola di nessuno di loro. È così?

 È così. Della scuola intesa come insieme organizzato di allievi intorno ad un capo-scuola ho un’esperienza assai modesta perché, pur essendo nata in una scuola, sono vissuta al suo interno solo pochi anni: troppo pochi per creare in me quel sentimento di appartenenza che consente di accettare le regole della scuola (e di giovarsene). Ho avuto la fortuna di trovare altri Maestri (Mancini, Pera, Romagnoli, in primis), verso cui ho un grande debito di riconoscenza per quello che mi hanno insegnato e per l’aiuto morale (e anche materiale) che hanno saputo darmi.

  Ho avuto molti Maestri, ma non ho mai appartenuto alla scuola di nessuno di loro: nel senso che non sono mai stata inserita tra i loro allievi e non ho mai occupato un posto nella scala gerarchica in cui, per età o per altro, si collocano appunto gli allievi di una scuola. Insomma, molte scuole e nessuna scuola. La mia vicenda personale, che non pretendo sia originale, mi ha impedito di conoscere dall’interno i riti e i miti delle scuole. Come ho detto, l’esperienza dei concorsi che non ho vinto me ne ha fatto conoscere la forza contundente: perché i concorsi sono stati, nel passato dei concorsi nazionali come nella lunga stagione dei concorsi locali, una faccenda di scuole. Accordi preventivi, alleanze elettorali, negoziazioni: i capi scuola hanno giocato le loro partite, determinando gli equilibri (e gli squilibri) della disciplina.

A questo punto ci incuriosisci. Quale è stato il tuo accidentato percorso accademico che ti ha portato, poi, alla cattedra genovese?

Cercherò di riepilogare brevemente il mio accidentato percorso, ammesso e non concesso che possa interessare a qualcuno. Dopo la laurea, sono stata borsista del CNR all’Accademia della Crusca, dove ho studiato lessicografia, e ho avuto il privilegio di poter imparare da Maestri come De Mauro, Devoto, Nencioni, Migliorini, Duro, e tanti altri. Sono tornata in Università con una borsa del Ministero. Ho preso la libera docenza e subito dopo (era il 1971) sono diventata assistente di ruolo.

 In quegli anni, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, la tensione era molto forte all’interno dell’Università, e io partecipavo attivamente alle iniziative (ovviamente di lotta: ricordo con tenerezza il successo nelle assemblee di un “libretto celeste” – per il colore della copertina, non per il contenuto – scritto a quattro mani con Pietro Costa) che si susseguivano nella Facoltà, di cui era Preside Giuliano Mazzoni. In quel periodo, proprio alla vigilia delle prove per la libera docenza, i nodi vennero al pettine: come ho già detto, parlando del mio rapporto con Beppe Pera, la provvisoria sui licenziamenti che avevo preparato (di mia iniziativa) mandò Mazzoni su tutte le furie, tanto da dirmi che non mi avrebbe sostenuto (ma non fu così: un Maestro è sempre un Maestro). Le condizioni di spirito nelle quali mi presentai ad affrontare la prova non erano le migliori, anche se Federico Mancini, in una lunga telefonata, mi aveva rincuorato. La prova andò bene (dopo la lezione Mazzoni mi telefonò per congratularsi con me). Si svolse a poca distanza di tempo il concorso per il posto di assistente ordinario che Diritto del lavoro attendeva da anni: ero la candidata più titolata, ma il clima era tanto teso che Paolo Grossi (lo avevo conosciuto ai tempi della tesi, perché andavo spesso a studiare nelle stanze dell’Istituto che condivideva con Luigi Lombardi Vallauri, ed era nata allora l’amicizia con entrambi) volle essere in commissione come “garante”. Ma davvero non ce n’era bisogno: Mazzoni considerava l’assegnazione a me di quel posto un atto dovuto.

 Quell’atto dovuto segnava tuttavia la fine del rapporto Maestro-allieva; restavo nell’Istituto come assistente, ma cominciavo a camminare con le mie gambe lungo la strada che sceglievo da me, in piena autonomia. In quello stesso anno, grazie ai buoni uffici di Federico Mancini e Umberto Romagnoli e alla benevolenza di Sabino Cassese, Preside della Facoltà, ottenni l’incarico di Istituzioni di diritto privato per l’a.a. 1971/72 (il Diritto del lavoro lo insegnava ancora Romagnoli) nella Facoltà di Economia di Ancona. Lasciai l’incarico l’anno seguente: il pesante pendolarismo Firenze – Ancona era diventato incompatibile con le esigenze della mia vita privata (e non era la paura dei terremoti, come si diceva in giro, anche se i terremoti mi fanno paura). Me ne tornai a fare l’assistente senza incarichi; mi tirarono fuori da quella situazione deprimente i miei amici fiorentini Andrea Orsi Battaglini, al quale ero molto legata, e Domenico Sorace, che mi convinsero a prendere l’incarico di Diritto del lavoro nella Facoltà di Giurisprudenza di Sassari (era l’A.A. 1974/75). Ho conosciuto lì Riccardo Guastini, e l’incontro ha segnato una svolta radicale nella mia vita privata: nel 1975 ho lasciato Firenze, mi sono separata dal marito e mi sono trasferita a Genova.

 Ho insegnato a Sassari per due anni, e ho lasciato l’incarico quando la cattedra doveva essere occupata da Franco Carinci che aveva vinto il concorso (che io invece avevo perso); ho preso l’incarico alla Facoltà di Economia di Firenze, dove ho insegnato fino al 1983, quando sono stata chiamata come professore associato nella Facoltà di Economia di Genova. Nella Facoltà genovese ero arrivata verso la fine degli anni ‘70 (la data non la ricordo) a seguito del trasferimento del mio posto di assistente ordinario da Firenze (Beppe conservava la G.U. in cui era pubblicato il decreto, con la risibile motivazione dell’interesse nazionale), grazie all’iniziativa di Giovanna Visintini, allora moglie di Govanni Tarello, che insegnava Diritto privato a Economia, e della quale ero diventata amica. Come assistente di Diritto privato l’ho insegnato fino a quando, diventata associata (era la prima tornata delle associazioni: un ruolo di nuova istituzione), sono stata chiamata sulla cattedra di Diritto del lavoro.

 Nel frattempo si era svolto (nel 1980) un concorso (a cattedre di prima fascia), dal quale ero stata ancora una volta esclusa: la vicenda di quel concorso, nel quale la commissione decise di lasciare vuote cinque delle cattedre bandite, è stata raccontata da Pera nell’intervista pubblicata postuma, e non desidero tornarci sopra. Pera si era battuto molto generosamente per me, ma era stato sconfitto. Il colpo fu molto duro, e mi ci volle un po’ di tempo per ritrovare la voglia di andare avanti. Ma sono tenace e appassionata del mio lavoro, e un po’ di sana rabbia mi aiutò a riprendere fiato. Mentre continuavo ad occuparmi di lavoro femminile e discriminazione di genere (ero anche entrata, insieme a Tiziano Treu, nel network di esperti di cui ho già detto), decisi di scrivere un nuovo libro, scegliendo il tema della Cassa integrazione del quale mi interessavano alcuni nodi teorici decisamente trascurati negli studi dedicati a questo complesso istituto. Con tre libri e molte altre pubblicazioni nel mio bagaglio mi presentai al successivo concorso (la Facoltà genovese aveva bandito la cattedra) e finalmente (era il 1986: allora tra un concorso e l’altro passavano cinque o sei anni) fui ritenuta degna di fregiarmi del titolo di professore straordinario (ordinari si diventava tre anni dopo, a seguito di un nuovo giudizio).

 Erano passati più di dieci anni da quel primo concorso che avrei potuto vincere (lo dico con tutta tranquillità, semplicemente comparando i miei titoli con quelli di alcuni vincitori), se solo qualche commissario mi avesse “portato”: ma questo non era nell’ordine delle cose. Anni non facili, nei quali tuttavia non mi sono mancati né soddisfazioni né riconoscimenti. Comunque, con l’approdo a Genova, la mia vita è diventata più tranquilla (anche il pendolarismo Genova – Firenze non era di tutto riposo). Per quasi trent’anni ho insegnato Diritto del lavoro nella Facoltà di Economia di Genova, e non ho mai brigato per trasferirmi a Giurisprudenza; peraltro lì insegnava Riccardo Guastini, ed ero (e resto) convinta che sia saggio tenere i rapporti familiari fuori dai luoghi di lavoro.

 Nel suo ultimo libro (L’intelligenza del lavoro, Rizzoli, 2020) Pietro Ichino scrive che la fine del lavoro, della quale parlava Jeremy Rifkin, è una fake news e che è in realtà l’occasione per l’inizio di un lavoro di tipo nuovo, di nuovi lavori, nella consapevolezza che l’automazione e l’intelligenza artificiale non ridurranno la domanda di lavoro umano. Qual è la tua opinione in proposito?

 Penso che su questo Pietro abbia pienamente ragione. Per altri versi dissento, invece, dall’approccio al lavoro su cui è costruito il libro. Leggendolo ho avuto l’impressione che quella raccontata nel libro fosse la storia di un mondo diverso da quello a cui guardo io, dove i lavoratori sono – per forza di cose – meno “intelligenti” e gli imprenditori sono – per loro scelta – più stupidi di loro.

 Il lavoro subordinato resta sempre un modello di analisi privilegiata del diritto del lavoro contemporaneo o è necessario coniugarlo, sempre di più, con il lavoro autonomo, nella prospettiva di una unificazione, per quanto possibile, delle due fattispecie in un ideale “Statuto” del lavoro o dei lavori?

Questa domanda richiederebbe una risposta lunga e molto approfondita, perché mette in campo questioni di fondo che assumono, nella fase che sta attraversando il diritto del lavoro, un rilievo particolare. Cercherò di limitarmi a poche affermazioni senza argomentarle. Sono convinta che sia necessario continuare a tenere distinte le fattispecie del lavoro subordinato e del lavoro autonomo, evitando la confusione in un indistinto di cui temo le conseguenze, ma sono altresì convinta che la fattispecie del lavoro subordinato debba essere ampiamente rivisitata alla luce delle profonde trasformazioni del lavoro (e del modo di lavorare) che stiamo conoscendo in questi ultimi anni: trasformazioni che rendono sempre più sottile e meno intelligibile la distinzione tra etero-direzione ed etero-organizzazione della prestazione lavorativa.

 Una rivisitazione (o un aggiornamento) della nozione di subordinazione (senza confondere la nozione giuridica con un generico stato di bisogno o di dipendenza economica) è utile a “ripulire” la fattispecie del lavoro autonomo, sgombrando il campo da quanto può essere riportato, senza forzature o escamotages, nel campo di applicazione del diritto del lavoro (che resta, per la funzione che è tutt’ora chiamato a svolgere, il diritto del lavoro subordinato). Sono peraltro favorevole alla revisione della attuale disciplina del lavoro autonomo (non solo nella forma delle collaborazioni coordinate e continuative) nel senso della estensione di una serie di tutele fondamentali laddove il lavoratore autonomo versi in una situazione di squilibrio contrattuale nei confronti del committente.

 Cosa insegna al nostro Paese la legislazione europea sui licenziamenti e il mercato del lavoro? Sono davvero questi due istituti, per come sono disciplinati in Italia, elementi di insuperabile rigidità della nostra materia e di crisi del sistema lavoro?

Il diritto dell’UE è costruito sui pilastri della libertà di iniziativa economica e della libera concorrenza, ma anche sui principi fondamentali formulati nella Carta dei diritti e sulle disposizioni del Trattato (tralasciando il grande capitolo della non discriminazione, parità e pari opportunità, e facendo riferimento qui solo al Titolo X, Politica sociale, del TFUE) che sono alla base del diritto derivato, al quale il nostro ordinamento interno è tenuto ad uniformarsi: così è avvenuto per la soppressione del monopolio pubblico del collocamento, per la disciplina legale dei licenziamenti per riduzione del personale, per la revisione della disciplina del trasferimento d’azienda, per i diritti di informazione e consultazione sindacale, e per altre materie ancora, dal part-time al contratto a termine e alla somministrazione.

 Benché l’apporto del diritto dell’UE, mediante la giurisprudenza della Corte di Giustizia, abbia in non pochi casi contribuito positivamente all’evoluzione del nostro diritto del lavoro, complessivamente l’UE non ha rappresentato sin qui un terreno favorevole allo sviluppo dei diritti sociali, perdenti nel bilanciamento con le libertà economiche. Il cammino verso l’Europa sociale è ancora incerto e certamente lungo; non è però da escludere che i grandi rivolgimenti nelle politiche economiche dell’Unione che si sono resi necessari per affrontare la gravissima crisi indotta dalla pandemia producano risultati anche sul piano di una revisione delle politiche relative alla protezione dei lavoratori, inducendo l’Unione a sostituire la teoria della flexicurity sponsorizzata sin qui con una più equilibrata filosofia della distribuzione delle tutele tra rapporto di lavoro e mercato.

 Quanto alla situazione italiana, per dare una prima risposta secca alla tua domanda, posso dire che non sono affatto convinta che le attuali discipline del mercato del lavoro e dei licenziamenti costituiscano elementi di insostenibile rigidità del nostro sistema; le dosi massicce di flessibilità introdotte negli ultimi venti anni hanno radicalmente trasformato la disciplina del lavoro (dall’accesso alla cessazione dei rapporti di lavoro), senza riuscire ad intaccare le ragioni profonde della crisi del sistema, che si collocano dal lato della domanda piuttosto che da quello dell’offerta di lavoro.

 La disciplina dei licenziamenti è sempre sotto la lente del legislatore, in un processo di riforma continua. Puoi riassumere, in poche battute, le tue opinioni sulla tutela del lavoratore contro i licenziamenti ingiustificati, materia della quale ti sei occupata in tanti saggi a partire da “I licenziamenti”, Franco Angeli, 1974?

Proprio perché è una materia sulla quale ho scritto molto mi riesce difficile riassumere il mio pensiero in poche battute. Per chiarire l’iter del mio ragionamento parto dalla citazione della famosa sentenza n. 45/1965 in cui la Corte Costituzionale, dopo aver detto che l’art. 4 Cost., come non garantisce ai cittadini il diritto al conseguimento di un’occupazione, così non garantisce il diritto alla conservazione del posto di lavoro, aggiungeva: «ciò non esclude che per i rapporti di lavoro già costituiti si imponga un’adeguata protezione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro». Così dicendo, la Corte affermava che il diritto al lavoro va assunto quale misura e limite del potere di recesso dell’imprenditore, e dunque esige che il legislatore adegui la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato «al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro». Molti anni dopo, la stessa Corte (sentenza n. 46/2000, sull’ammissibilità del referendum che proponeva l’abrogazione dell’art. 18 St. lav.) precisava che per quanto l’art. 18 esprimesse esigenze ricollegabili agli artt. 4 e 35 Cost., che hanno portato ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro, la reintegrazione prevista dall’art. 18 non concreta «l’unico possibile paradigma attuativo dei principi medesimi».

 In sostanza, secondo la Corte, il recesso del datore di lavoro non può essere esercitato arbitrariamente e deve essere sorretto da una giustificazione; il lavoratore licenziato senza giustificazione ha diritto ad essere risarcito del danno subito, ma non è detto che debba trattarsi di un risarcimento in forma specifica (tutela restitutoria): la scelta tra risarcimento per equivalente (cioè in denaro) e risarcimento in forma specifica (cioè reintegrazione) spetta al legislatore. Come è ovvio, la scelta non è neutra; come è forse meno ovvio, la circostanza che l’art. 4 Cost. lasci al legislatore la libertà di scegliere non chiude di per sé il discorso sulla reintegrazione. È indubbio infatti che la soppressione della tutela restitutoria, che dovrebbe essere la forma privilegiata di tutela per chi è stato illegittimamente allontanato dal posto di lavoro che occupava (così avevano detto le S.U. nel lontano 2006), abbassa il livello di civiltà giuridica del nostro ordinamento, e costituisce un chiaro regresso rispetto al livello di tutela di cui i lavoratori godevano dal lontano 1970: il datore di lavoro, che prima di licenziare doveva interrogarsi sul suo buon diritto di farlo, ora può limitarsi a decidere secondo la propria convenienza, facendo due conti.

 Peraltro, non sono certo la sola a pensare che la qualità della tutela contro i licenziamenti sia strettamente connessa al livello di protezione dei diritti fondamentali dei lavoratori. In sostanza lo aveva già detto la Corte costituzionale nel 1963, riscrivendo il regime della prescrizione dei crediti dei lavoratori: il lavoratore esposto dall’affievolimento delle tutele al rischio del licenziamento è un lavoratore debole, che rinuncia all’esercizio dei suoi diritti. Non occorre neppure cancellare i diritti dalla carta, basta rendere difficile il loro esercizio.

 Ritieni davvero che la stabilità del rapporto di lavoro, nei termini fissati dall’art. 18, St. Lav., prima delle riforme degli ultimi venti anni, sia proponibile, ora, nel contesto della crisi economica e sociale, non solo italiana?

Mi piacerebbe che fosse proponibile, anche se sono consapevole che l’aria che tira non è certo favorevole al ripristino della tutela restitutoria. Voglio dire: mi piacerebbe che si guardasse alla reintegrazione nel posto di lavoro dalla parte dei lavoratori invece che dalla parte dei costi per l’impresa, e dunque come ad una misura di civiltà giuridica: civiltà che impone di riequilibrare il potere contrattuale delle parti, dotando la parte più debole di uno strumento efficace di difesa contro l’esercizio illegittimo, da parte del datore di lavoro, del potere di licenziare. Esercizio illegittimo, lo sottolineo: nessuno – credo – ha mai immaginato un diritto del lavoratore alla stabilità in presenza di una adeguata giustificazione del licenziamento. Francamente parlare di job property mi pare fuori luogo: la stabilità del lavoratore dura fino alla sopravvenienza di una adeguata giustificazione del licenziamento.

 Qual è il tuo giudizio complessivo sulla riforma Fornero e sul Jobs Act, alla luce anche delle sentenze della Corte Costituzionale?

La risposta l’ho già data rispondendo a una domanda precedente, ma ora posso entrare un po’ di più nei dettagli. Nella nostra esperienza, il tramonto della stabilità coincide, più o meno, con la parabola dell’art. 18 dello Statuto. Nei trent’anni in cui era rimasta in piedi, la tutela reale garantita dall’art. 18 aveva già conosciuto un processo di erosione, al quale avevano dato il loro contributo il legislatore (sempre più orientato nella direzione di una accentuata flessibilità del lavoro), gli andamenti del mercato del lavoro con l’allargamento spropositato dei rapporti di lavoro poco o addirittura non protetti, e alla fine anche i giudici. All’erosione è seguita una progressiva cancellazione: un primo serio colpo è stato assestato dalla legge Monti – Fornero (n. 92/2012). La riforma dell’art. 18 è frutto di un compromesso che ha portato a creare una disciplina dei licenziamenti resa estremamente complicata dalla coesistenza di regimi differenziati in ragione dei campi di applicazione, e confusa a causa di un intervento sul sistema sanzionatorio che lascia formalmente immutate le ragioni giustificatrici, all’interno delle quali tuttavia la graduazione delle sanzioni applicabili finisce per creare una sorta di graduazione della gravità o serietà delle giustificazioni addotte, che ha costretto i giudici a compiere un notevole lavoro di razionalizzazione.

 Il colpo di grazia all’art. 18 è stato sferrato con il cosiddetto Jobs Act (legge-delega n. 183/2014) e con il d.lgs. n. 23/2015 sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che relega la reintegrazione a rimedio residuale per ipotesi patologiche (anche se la casistica mostra, come era inevitabile – credo – l’espansione della patologia). In tutti gli altri casi al lavoratore è garantita una tutela economica: un’indennità forfetaria che, per quanto le si riconosca una funzione risarcitoria, non costituisce risarcimento del danno subito, poiché l’entità, calcolata da un minimo e un massimo prefissati, prescinde dalla considerazione del danno effettivamente subito dal lavoratore licenziato senza una legittima giustificazione.

 Come è largamente noto, sul d.lgs. n. 23/2015 si è pronunciata la Corte costituzionale nella sentenza n. 194/2018, che ha accolto solo l’eccezione di incostituzionalità relativa al rigido e predeterminato modo di calcolo dell’indennità forfetaria che, per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti (dopo il 7 marzo 2015), costituisce la tutela pressoché esclusiva garantita contro i licenziamenti ingiustificati. . non così il calcolo dell'indennità nelle piccole imprese e nelle organizzazioni di tendenza (art. 9)onamento sulla adeguatezzaCancellando il sistema di calcolo dell’indennità predeterminato in base all’anzianità di servizio del lavoratore licenziato, la Corte ha restituito al giudice il potere di decidere discrezionalmente l’ammontare dell’indennità, tenendo però nel debito conto, oltre all’anzianità (criterio che i giudici già privilegiavano), anche altri criteri che peraltro incidono più sulla funzione sanzionatoria dell’indennità che non sulla sua funzione risarcitoria (su cui invece insiste la Corte).

 Le reazioni di un settore della dottrina giuslavoristica (vicina al sentire degli imprenditori, che paventano il ritorno in campo del giudice e della sua la discrezionalità) sono state negative: con questa decisione – si è detto – la Corte ha portato un duro colpo alla certezza del diritto, rendendo incerto, e dunque non più prevedibile, il costo del licenziamento (al contrario di quanto predicato dalla dottrina della certezza dei firing costs, che esce sconfitta da questa partita). Capisco il disappunto, ma vorrei sommessamente notare che la rigida predeterminazione del costo del licenziamento illegittimo non ha a che fare con la certezza del diritto. Sono convinta, come altri, che la certezza non sia un mito da sfatare (per citare Bobbio), ma un principio inespresso, strumentale alla realizzazione di altri principi più alti (come quello di legalità), da difendere dalle molte erosioni cui è sottoposto. Non mi pare invece che meriti di essere difesa la predeterminazione del costo del licenziamento ingiustificato, che ha a che fare non con la certezza del diritto, ma con quel calcolo preventivo (talora opportunistico) del costo di un atto illegittimo, che preme molto alle imprese perché mette al riparo dalla valutazione discrezionale del giudice. Ritengo che la funzione deterrente della sanzione possa implicare anche l’alea di un “costo” dell’atto illegittimo più alto di quanto previsto da chi lo ha commesso, senza che questo coinvolga la certezza della “pena”: certezza che, nella specie, sussiste, e consiste nella presenza di una regola che stabilisce che quel determinato comportamento illegittimo è sanzionato, e individua l’ambito sanzionatorio entro il quale il giudice stabilirà la sanzione applicabile al caso di specie.

 La Corte ha restituito al giudice il potere di adeguare l’entità dell’indennità (contenuta, non dimentichiamolo, tra un minimo e un massimo) al pregiudizio subito dal lavoratore, ma non ha messo in dubbio la legittimità della scelta del legislatore di assicurare al lavoratore illegittimamente licenziato una tutela solo economica, che non ha neppure i requisiti necessari per essere definita come tutela per equivalente. La Corte ha raddrizzato il tiro, correggendo la rotta imboccata dal d.lgs. n. 23/2015 verso l’eliminazione della mediazione giudiziaria. La correzione è importante; ma stabilità del lavoro e dignità del lavoratore non vanno più insieme.

 Da molti anni si discute dei rapporti tra diritto del lavoro ed economia, rimproverando ai giuslavoristi di considerare il primo una variabile indipendente. Ci fu anche una polemica, innescata da Pietro Ichino, a commento del fascicolo monografico n. 4/2016 “Autonomia e subordinazione DEL diritto del lavoro”, dedicato da Lavoro e diritto al suo trentennale. Cosa c’è al fondo di questa discussione che ci trasciniamo da tanti anni?

 Con la lettera alla quale credo tu ti riferisca (sulla quale si è successivamente aperto un piccolo dibattito) rispondevo polemicamente ad alcune considerazioni di Pietro Ichino, che mi parevano ispirate dal pregiudizio che dal gruppo di Lavoro e diritto ci si potesse attendere solo la stanca riproposizione nostalgica dei fasti degli anni settanta insieme alla esecrabile convinzione che il diritto del lavoro sia una “variabile indipendente” dall’economia. Nella lettera sottolineavo che ciò di cui avevamo seriamente discusso non era la subordinazione del diritto del lavoro all’economia ma la sua subordinazione o autonomia rispetto alle dottrine economiche; in particolare, et pour cause, alla dottrina economica neo-liberista alla quale si devono, tra le tante nefaste conseguenze prodotte dal suo predominio europeo, anche i mutamenti nei contenuti e nella stessa funzione dell’insieme delle regole che disciplinano il mercato del lavoro, per la pesante influenza esercitata su tutti gli attori coinvolti: legislatore, parti sociali, giudici, e giuristi.

 Riprendendo più di recente l’argomento (nel saggio pubblicato in Labor 2019) mi è parso necessario ribadire che la discussione sull’autonomia del diritto del lavoro rispetto all’economia non ha alcun senso: anche a non voler parlare di struttura e sovrastruttura, basta dire che il diritto del lavoro regola i rapporti economici tra imprese e lavoratori per dire che dall’economia non può essere “disconnesso” (come si direbbe, se l’economia fosse una piattaforma digitale). Ciò che, invece, merita di essere discusso è il rapporto del diritto del lavoro con le dottrine economiche, evitando di incorrere nel banale errore di confondere l’economia, cioè i fatti economici, con una dottrina economica, che è al contempo una dottrina normativa e una falsa rappresentazione.

 Non possiamo toccare tutti gli altri temi dei quali ti sei occupata, con particolare interesse di studio, ma alcuni sì. Una parola sulla discriminazione, nelle varie accezioni in cui essa si coniuga.

Davvero solo una parola. Negli studi che ho dedicato alla discriminazione di genere ho dato particolare importanza all’analisi della nozione di discriminazione indiretta, il cui divieto è – a mio avviso – sorretto dal principio di eguaglianza in senso sostanziale, che impone di prendere in considerazione il genere di appartenenza, e dunque di distinguere in base ad esso, al fine di rimuovere o ridurre la disparità di fatto.

 Semplificando al massimo: l’effetto di disparità di trattamento degli appartenenti ad un genere è prodotto da una misura neutra perché, essendo appunto neutra, omette di prendere in considerazione il fattore di diversità e di commisurare il trattamento alla diversità, producendo così un effetto discriminatorio (disparate impact). Ragionando a contrario: una misura di diritto diseguale, attributiva di un vantaggio specifico, purché giustificata dalla presenza di una disparità e proporzionata all’obiettivo di rimuoverla, non costituisce discriminazione.

 

Riprendendo il titolo di un tuo libro che io lessi ai tempi dell’università, che poi ritorna anche in altri scritti e nelle esperienze fatte nelle varie amministrazioni, le donne hanno bisogno di una legislazione di sostegno, di tutela, o di parità?

L’eguaglianza è un diritto fondamentale, ma la parità di trattamento si raggiunge tenendo conto delle differenze, e costruendo, anche attraverso la legislazione di sostegno, politiche di pari opportunità nei punti di partenza e di parificazione nei risultati. Nei miei lavori dedicati alle azioni positive, e in particolare alle quote, ho cercato di argomentare, ragionando sul principio di eguaglianza in senso sostanziale, la legittimità delle misure di diritto diseguale che creano vantaggi a favore del genere sottorappresentato nelle posizioni professionali: così dicono oggi la Carta dei diritti fondamentali dell’UE e i Trattati che, dopo l’infortunio della sentenza Kalanke della Corte di Giustizia, hanno aperto la strada alle azioni positive, e al sistema delle quote in particolare. 

 Ma l’uguaglianza non vale anche per gli uomini?

 Certo che sì. Ma tengo a sottolineare che le espressioni affirmative action (azione positiva) e reverse discrimination (discriminazione alla rovescia: discriminazione diretta di una determinata classe di persone) sono spesso erroneamente usate come sinonime. La finalità di un’azione positiva (legittima), in favore delle donne o di una minoranza etnica o razziale, non è discriminare gli uomini, o i bianchi, o gli anglofoni, bensì promuovere, mediante trattamenti preferenziali, l’eguaglianza sostanziale delle donne o degli appartenenti ad una minoranza.

 La discriminazione alla rovescia può tuttavia essere l’effetto di un’azione positiva illegittima: vale a dire di un trattamento preferenziale non giustificato alla luce del principio di eguaglianza sostanziale, che costituisce il suo fondamento ed anche il suo limite.

Ruth Bader Ginsburg, coerente interprete del “giusfemminismo” post moderno, recentemente scomparsa, ha fatto propria, rendendola law in action, la teoria dell’approccio del dominio in base alla quale le donne sono state e tuttora sono largamente escluse dalla distribuzione del potere a livello sociale. Condividi questa tesi?

 Come molti altri ho considerato la scomparsa di Ruth Bader Ginsburg una tragedia americana, per la perdita in sé di una grande donna (la ricordo così minuscola dentro la sua toga in un convegno a New York molti anni fa) e per il momento “sbagliato” della sua morte. Studiando le azioni positive, e specialmente le argomentazioni a sostegno delle quote, ho avuto l’occasione di leggere attentamente le opinioni, di maggioranza, concurring o dissenting, di Justice Ginsburg, e di apprezzarne l’impeccabile fattura. Della tesi del dominio condivido gli obiettivi più delle analisi, anche se l’esclusione delle donne dal potere continua ad essere un problema aperto, sul quale merita continuare a riflettere, per trovare le strade di un empowerment che non resti solo il simbolico successo delle poche che ce l’hanno fatta.

 La cassa integrazione guadagni, anche per come è stata realizzata con l’intervento alluvionale del nostro legislatore, è un ammortizzatore sociale insostituibile, ma come deve essere adeguata per rispondere alle esigenze dei nostri tempi?

 Considero, e non da oggi, la Cassa integrazione un istituto di fondamentale importanza e ritengo indispensabile la sua funzione di ammortizzatore sociale. La legislazione che regola le Casse integrazione (al plurale) e gli altri ammortizzatori di contorno è molto disordinata e ha seriamente bisogno di una riforma. Il lavoro è in corso (sono impegnati come consulenti della Ministra Catalfo colleghi che stimo molto): mi auguro di poter leggere presto un disegno di legge; rinvio a quella data una meditata risposta alla tua domanda.

 Non so se hai approfondito il tema del reddito di cittadinanza, misura da molti criticata, anche per come è stata applicata, oltre che per il connotato politico del movimento che l’ha da sempre sostenuta e fatta diventare legge?

Me ne sono occupata scrivendo un saggio che è stato pubblicato lo scorso anno in Teoria Politica. In quel saggio ho analizzato i modelli teorici che ispirano le discipline del reddito minimo garantito (categoria nella quale rientra il cosiddetto reddito di cittadinanza in vigore in Italia dal 2019) e del reddito di base, che resta pressoché privo di applicazione pratica.

 Ho formulato più di una critica alla disciplina del RdC, ma non condivido gli attacchi dei detrattori che non riconoscono alcun merito a quell’intervento. Personalmente ritengo che un provvedimento che migliorasse, anche estendendo la platea dei beneficiari, il Reddito di inclusione, fosse necessaria e urgente a fronte dei dati sulla povertà assoluta nel nostro Paese; non definirei spregiativamente “assistenzialismo” le politiche di sostegno degli individui e delle famiglie in condizioni di povertà. Terrei però separate queste misure dalle politiche attive del lavoro, anche nella consapevolezza che la mancanza di lavoro è certamente una delle maggiori cause della povertà, ma la povertà ha spesso cause assai più complesse che non si affrontano con la buona volontà di un “navigator” che riesce, dio sa come, a trovare un posto di lavoro disponibile.

 Individuale e collettivo. Qual è il giusto equilibrio tra di loro? Ritieni l’inderogabilità un punto di forza nella tutela dei diritti del lavoro. È così?

 Caro Vincenzo, mi fai delle domande impossibili! Dovrei scrivere un saggio per risponderti. Per quanto riguarda l’equilibrio fra individuale e collettivo mi pare di poter usare, per illustrarlo, il diritto di sciopero (spiegando il rapporto tra titolarità individuale ed esercizio collettivo), rinviando alle riflessioni che ho svolto nel saggio citato rispondendo ad una precedente domanda.

 Quanto all’inderogabilità, la sua crisi non è un fenomeno naturale: la crisi è indotta dall’abbandono progressivo, da parte del legislatore, della tecnica dell’inderogabilità per garantire la protezione dei lavoratori, affidata nel migliore dei casi ad una contrattazione collettiva priva di efficacia generale e nella quale il livello più alto della mediazione (il contratto nazionale) è esposto alla deroga ad opera di una contrattazione (territoriale e aziendale) che media interessi particolari, e nel meno commendevole dei casi alla contrattazione individuale, nella quale lo squilibrio fra le parti, checché si vada raccontando in proposito, resta il connotato del contratto di lavoro subordinato.

 Per rispondere alla tua domanda: ebbene sì, continuo a pensare che l’inderogabilità sia una tecnica di fondamentale importanza per garantire stabilità e certezza ai diritti dei lavoratori. Con tutto il rispetto per il ruolo della mediazione collettiva e senza nemmeno trascurare lo spazio che la valorizzazione delle capabilities chiede di tenere aperto all’autonomia individuale.

La normativa sull’emergenza Covid-19 ha introdotto una disposizione che vieta, temporaneamente, i licenziamenti per ragioni economiche; il divieto è stato modificato e più volte prorogato (l’ultima data fissata è il 31 marzo 2021). I rappresentanti dei datori di lavoro e una parte della dottrina hanno criticato queste misure, rese, comunque, necessarie dalla situazione emergenziale. Qual è la tua opinione in proposito?

 Penso che si tratti di una misura giusta, che illumina sulla inattesa vitalità del secondo comma dell’art. 41 Cost. in una fase di emergenza, nella quale le imprese sono chiamate a salvaguardare la stabilità dell’occupazione, potendo peraltro contare sul forte incremento dell’intervento della Cassa integrazione e su altre misure di sostegno economico. Il blocco dei licenziamenti non può non essere temporaneo, ma credo che sia una legittima rivendicazione sindacale la sua protrazione fino a quando la durissima crisi economica provocata dalla pandemia richiede anche alle imprese l’assunzione di responsabilità sociali.

Il 20 maggio di quest’anno (non a caso in occasione del 50° anniversario dello “Statuto dei lavoratori”) alcuni studiosi (Bruno Caruso, Riccardo Del Punta e Tiziano Treu) hanno lanciato il “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile” pubblicato sul Labour Web del CSDLE “Massimo D’Antona”, come base di discussione tra i giuristi del lavoro, anche nella prospettiva di una riconciliazione della nostra materia, mi è sembrato di capire. Anche la nostra Rivista, Lavoro Diritti Europa, nel numero 3-2020 ha ospitato un ampio dibattito con la partecipazione di qualificati studiosi. Qual è la tua opinione su questo “Manifesto”?

Ho letto il Manifesto con grande interesse e ho apprezzato l’intenzione dei suoi autori di porre le basi di un dibattito sereno tra i giuslavoristi, basato su ipotesi e proposte meritevoli di essere prese in considerazione senza pregiudizi. Ciò ovviamente non toglie che alla convergenza su alcuni punti non si accompagni la divergenza, anche profonda, su altri. Le politiche del diritto sono politiche, e politicamente permane la distanza che separa il modo diverso di intendere l’aggettivo “riformista”. Alcune delle cose che ho detto nel corso di questa lunga intervista credo siano sufficienti a capire dove si collocano i miei dissensi.

Il mercato del lavoro negli ultimi anni ha subito continue riforme. Il Jobs Act è stato un necessario adeguamento alle esigenze di un’economia globalizzata o un’ulteriore compressione dei diritti sociali? Il c.d. Decreto dignità restituisce garanzie ai lavoratori o è destinato a produrre nuova disoccupazione? Cosa suggeriscono le recenti ricerche e l’evidenza empirica? Il quadro normativo è in grado di far fronte alla precarietà e di contrastare gli abusi nelle nuove forme di lavoro on demand e della gig economy?

 Sono molte domande, tutte complesse, alle quali cercherò rispondere nel modo più sintetico possibile. Ovviamente non mi inoltro nella valutazione dei dati e delle evidenze empiriche, perché non fa parte del mio mestiere di giurista; comincio quindi dalla prima domanda sul Jobs Act.

 Intanto occorre chiarire che il Jobs Act (cosiddetto, perché si tratta dell’uso un po’ burino dell’acronimo di una legge statunitense che non c’entra niente) è una riforma che investe se non l’intero, almeno una parte molto grande e molto importante del diritto del lavoro e del diritto della sicurezza sociale. Vista la vastità delle materie investite dalla riforma, non è possibile (e neppure sensato) dare un giudizio complessivo: dentro gli otto decreti emanati in attuazione della legge delega ci sono riforme apprezzabili e generalmente apprezzate; riforme che hanno invece suscitato perplessità; riforme che sono state giudicate positivamente o (anche molto) negativamente: dipende da quale punto di vista si colloca chi giudica.

  Alla domanda se il Jobs Act costituisca un adeguamento “necessario” alle esigenze dell’economia globalizzata, potrei rispondere con una battuta: adeguamento sì, necessario no. Uscendo dalla battuta: la domanda coinvolge una questione su cui ho già detto qualcosa rispondendo ad un’altra domanda.  A me pare che negli anni 2000, e più accentuatamente nell’ultimo decennio, sotto la forte pressione esercitata dalle imprese alla ricerca dell’efficienza competitiva nell’economia globalizzata, e sfidate insieme dalla crisi economica e dall’irruzione della quarta rivoluzione industriale (l’industria digitalizzata 4.0), il diritto del lavoro abbia imboccato una via neo-liberista, lasciando che quella pressione erodesse la funzione che la Costituzione assegna al diritto del lavoro o, se vogliamo, al suo dover essere: la funzione di imporre al mercato regole dirette a correggere, in senso pro-labour, lo squilibrio delle forze in gioco; imponendo cioè non un bilanciamento, nel quale l’uno o l’altro dei valori in gioco prevalga sull’altro a seconda dell’occasione, ma un equilibrio costante, tarato sulla centralità che la Costituzione assegna al lavoro, e che non deve mai essere persa di vista. Il diritto del lavoro appare invece oggi piegato dalla scelta politica di usare la disciplina giuridica del mercato del lavoro in funzione ancillare, come strumento di politiche economiche pro-business, perché è appunto il business che accredita le sue esigenze come leggi del mercato. La richiesta delle imprese di disporre di un uso flessibile della forza lavoro (nell’ an, nel quantum, e nel quomodo, avrebbe detto Beppe Pera) continua infatti ad essere accolta senza troppe remore dal legislatore, malgrado la recente riscoperta della dignità dei lavoratori, annacquata tuttavia da un inedito bilanciamento con la dignità (sic) delle imprese.

 Quanto alla compressione dei diritti sociali rimando alle considerazioni svolte a proposito della parabola dell’art. 18 Statuto. Malgrado l’intervento della Corte costituzionale, l’ombra che grava sui parametri costituzionali che costituiscono il dover essere del diritto del lavoro è ancora fitta.

 E vengo alla domanda se il c.d. Decreto dignità (prescindendo dalla normativa dell’emergenza Covid-19) restituisca garanzie ai lavoratori o sia destinato a produrre nuova disoccupazione. Non ho la possibilità di analizzare a fondo il contenuto del d.l. n. 87/2018 (conv. l. 96/2018), e devo perciò limitarmi ad esprimere un giudizio sommario, ma non preconcetto. Tra gli interpreti si confrontano, oltre alle prese di posizione radicalmente negative (che riflettono la cattiva accoglienza da parte del mondo delle imprese), due opinioni più sfumate di segno opposto: secondo alcuni siamo di fronte ad un primo passo, magari insufficiente e inadeguato tecnicamente, ma apprezzabile, sulla strada del ritorno indietro rispetto alle politiche del diritto pro-business della stagione renziana e prima ancora montiana; secondo altri il “regresso” (nel senso di un ritorno al passato pre-riforme da Monti al Jobs Act) non c’è, perché le politiche del diritto restano nella sostanza pro-business, solo ridipinte con un nuovo make-up (non di grande qualità, peraltro).

 Se con il c.d. “Decreto dignità” il legislatore avesse realizzato le sbandierate intenzioni di mettere un freno alla precarizzazione del lavoro, restituendo dignità e sicurezza ai lavoratori, esprimerei un giudizio positivo. Ma l’analisi del contenuto del Decreto mi porta a giudicare più convincente la seconda opinione che ho richiamato, e dunque ad esprimere un giudizio che positivo non è: per l’incertezza (o meglio la confusione) degli obiettivi e il traballante drafting legislativo utilizzato.

 Come è noto, i tre capitoli principali del Decreto sono: i contratti a termine e la somministrazione; i licenziamenti illegittimi; il contratto di prestazione occasionale (i vecchi voucher, per intendersi); si dovrebbe aggiungere la misura di contrasto alle delocalizzazioni, ma questa sembra più che altro ispirata dalle pulsioni nazionalistiche del primo Governo Conte. Per quanto riguarda contratti e somministrazione a termine: la reintroduzione delle causali, se comportasse davvero il ripristino della temporaneità come elemento strutturale delle assunzioni a termine (o della somministrazione a tempo determinato), segnerebbe il ritorno al regime pre-riforma Fornero e, piaccia o non piaccia (e si sa che non piace), una reale restrizione del ricorso ai contratti a termine. Ma la causale è richiesta solo dopo 12 mesi, o 4 proroghe, o il rinnovo entro i 24 mesi di durata massima (i limiti sono inoltre derogabili in una molteplicità di casi). La combinazione tra un vincolo della causalità mal apposto (che lascia liberi i primi 12 mesi) e la restrizione non necessaria (se non controproducente) del limite di durata, oltre a colpire solo un segmento della precarietà, rischia di accentuare il turn over fra lavoratori precari, e, per quanto riguarda la somministrazione, di rilanciare lo staff leasing (somministrazione a tempo indeterminato), che tanta preoccupazione aveva suscitato, ma che fino ad ora non aveva avuto successo. L’accoglienza delle imprese come è noto è stata molto negativa: ne è un preciso indicatore la “riscoperta” della contrattazione di prossimità in deroga, per aggirare i nuovi vincoli posti dalla legge a fronte della marcata preferenza delle imprese per le assunzioni a termine, pure gravate da oneri contributivi maggiorati.

 La tutela consistente nella conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato (per vizi causali, oltre che per vizi di forma) è affidata al giudice. E qui si riaprono i soliti discorsi sull’incertezza legata alla discrezionalità, che però non sopravvaluterei: le causali sono le stesse previste per il giustificato motivo oggettivo di licenziamento e un’analisi non preconcetta della giurisprudenza dimostra che i giudici si contentano di poco. In ogni caso la tutela “restitutoria” (cioè la conversione), dovrebbe trovare riscontro nel rafforzamento della tutela contro i licenziamenti (secondo capitolo del Decreto). Ma così non è: il contratto a termine si converte in contratto a tutele crescenti. È vero che il decreto dignità ha elevato gli importi minimo e massimo dell’indennità forfetaria, ma il licenziamento, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, resta regolato dal d.lgs. n. 23/2015, al quale l’unica correzione è stata apportata dalla sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale. Resta dunque il nodo di una tutela affievolita dei diritti del lavoratore a fronte dei licenziamenti ingiustificati: la conversione in contratto a tempo indeterminato non garantisce allora al lavoratore una affidabile stabilità nel posto di lavoro.

 Quanto infine al contratto di prestazione occasionale, le modifiche introdotte riportano indietro l’orologio rispetto alla normativa adottata (dal Governo Gentiloni) a seguito della abrogazione della vecchia disciplina (per evitare il referendum abrogativo, motivato dal dilagare dell’abuso dei voucher e dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale), rimpiazzata dalle nuove norme che ora vengono ritoccate dal Decreto Dignità, tornando ad allargare la platea per favorire le piccole imprese agricole e turistico-alberghiere, lasciando peraltro in piedi un sistema sanzionatorio estremamente debole. Che tutto ciò venga presentato come un vantaggio per i lavoratori mi lascia francamente molto perplessa. Ma allora, si obietta, è meglio il lavoro nero? No, non lo è, il lavoro nero è una piaga da combattere: ma non credo che la riapertura dello spazio all’uso (e all’abuso) dei voucher sia la risposta giusta.

 Non meno complessa delle precedenti è la domanda se il quadro normativo sia in grado di far fronte alla precarietà del lavoro e di contrastare gli abusi nelle nuove forme di lavoro on demand e della gig economy.

 Per quanto riguarda la precarietà la risposta è no. Se fosse il diritto del lavoro a regolare il mercato, e non le forze che operano sul mercato a chiedere e ottenere le regole che ritengono più utili per loro, il diritto del lavoro sfoltirebbe di molto la panoplia di lavori non standard e lavoretti oggi disponibili, e costruirebbe una piattaforma comune e inderogabile di diritti dei lavoratori, rivedendo seriamente gli strumenti di tutela. Nessuno nega che vi siano esigenze di flessibilità delle imprese delle quali tenere conto, ma un equilibrato componimento degli interessi in gioco imporrebbe una accurata selezione delle esigenze alle quali dare risposta con la disciplina del lavoro. Ma questo non mi pare sia nelle prospettive che abbiamo di fronte.

 Per quanto riguarda la seconda parte della domanda (se esistano gli strumenti giuridici per contrastare gli abusi presenti nei lavoretti della gig economy) per rispondere dovrei proporre una riflessione sul caso dei riders. Ma non lo farò, limitandomi invece a una sola rapida considerazione sul nodo rappresentato dall’art. 2 d.lgs. n. 81/2015, come modificato dal d.l. n. 101/2019, conv. in l. n. 128/2019. 

Dice bene la S.C. (nella sentenza n. 1663/2019 che ha chiuso il caso Foodora) che l’art. 2 interviene nell’area delle collaborazioni coordinate e continuative e dunque del lavoro autonomo, sostituendo alle strategie antielusive del passato (il riferimento è essenzialmente al regime delle presunzioni e riqualificazioni della abrogata disciplina del lavoro a progetto) una strategia che la Corte chiama “rimediale” (il rimedio consiste nell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato). La Corte vuol dire con ciò che il legislatore non definisce una nuova fattispecie di co.co.co. (la costruzione ruota intorno alla distinzione tra “norma di fattispecie” e “norma di disciplina”, per la cui critica rinvio a quanto ho scritto nel breve intervento pubblicato nel n. 3 di questa rivista), ma dà per scontata la qualificazione delle collaborazioni di cui all’art. 2 come prestazioni di lavoro autonomo. Qualificazione sulla quale ci sarebbe invece ampiamente da discutere: che l’art. 2 si presti a letture disparate è indubbio, ma è indubbia anche l’esigenza di uscire dalle strettoie dell’alternativa lavoro subordinato/lavoro autonomo, a fronte di una disposizione il cui intento sembra essere proprio quello di prescindere dal nomen juris del contratto, per dare spazio ad una diversa interpretazione dell’art. 2 (incluso il comma 2, lett. a), che consenta di concentrare il focus sull’approccio del legislatore, che prende in considerazione non un contratto, ma un rapporto di lavoro, che nei fatti presenta le caratteristiche della etero-organizzazione unilateralmente imposta dal “committente”: una situazione (nel senso della posizione del prestatore di lavoro) che il legislatore giudica nella sostanza tanto equivalente alla dipendenza del lavoratore subordinato da ritenere estensibile ad essa la disciplina del lavoro subordinato.

 Su questo dovrebbe misurarsi anche l’intervento normativo della contrattazione collettiva chiamata in causa dall’art. 2, comma 2, lett. a). Ma la realtà dei fatti ci mette già di fronte a scelte che vanno in direzione contraria: il contratto stipulato da Assodelivery e UGL (scavalcando la trattativa sindacale in corso al Ministero del lavoro per l’inquadramento dei riders nel contratto collettivo della logistica) parte dalla qualificazione dei riders come lavoratori autonomi, prevede il cottimo (in contrasto con quanto previsto dagli artt. 47 bis e ss. del d.l. n. 101/2019, conv. in l. n. 128/2019), garantisce tutele minime ben distanti da quelle che deriverebbero dall’applicazione integrale del diritto del lavoro. Forse la qualificazione di questo contratto come “pirata” è eccessiva, ma certo è un episodio grave che ci mette ancora una volta di fronte ai nodi irrisolti del nostro anomico sistema di relazioni industriali.

 Per concludere: il quadro normativo non è il migliore possibile; ma la disposizione sulle collaborazioni etero-organizzate è una disposizione che merita di essere applicata con saggezza e con rigore, anche da parte di una insospettabile contrattazione collettiva.

Quali sono le moderne idee per il lavoro di cui ha bisogno l’Italia per ripartire e crescere? Qual è la nuova politica del diritto che auspichi possa essere realizzata per i diritti del lavoro del tempo presente?

Se sapessi rispondere a questa domanda farei un altro mestiere e non sarei un vecchio professore in pensione. Sono comunque una donna “di sinistra” e credo che questo significhi ancora una decisa scelta di campo. Vorrei dunque vedere finalmente messe in atto misure serie per garantire ai lavoratori e alle lavoratrici i diritti fondamentali, per restituire dignità al lavoro, per ridurre le disuguaglianze, per dare alle pari opportunità un significato concreto e valutabile nei risultati. Vorrei vedere, nelle politiche del diritto del lavoro, un bilanciamento tra il valore del lavoro e la tutela della libertà economica assai più equilibrato di quello che abbiamo conosciuto nel primo ventennio di questo secolo. Non immagino, né auspico, un diritto del lavoro ottusamente chiuso al nuovo, ma mi auguro che le energie e le molte risorse finanziare che dovranno essere spese per consentire a questo Paese di ripartire e crescere mettano al centro la giustizia sociale.  

 In occasione delle Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi che si sono tenute nel Convento di San Cerbone, a Lucca, il 5 e 6 novembre 2016, sul tema “Riti e sapienza del diritto del lavoro. Fonti, valori, principi, regole”, hai dialogato con Riccardo Guastini (Dialogando su principi e regole, in Materiali per la storia della cultura giuridica, fasc. n.1/2017), che è anche il tuo compagno di vita. Quanto è stato e continua ad essere importante il confronto, costante, con uno studioso, dal profilo intellettuale, multiforme e complesso, come quello dell’allievo di Giovanni Tarello?

Riccardo ed io viviamo insieme da 45 anni, e siamo in certo modo cresciuti insieme, pur percorrendo ognuno la sua strada di studio e ricerca. Facciamo lo stesso lavoro, ma ci muoviamo in campi diversi (lui teorico e filoso del diritto, io giurista positiva), e diversi sono i ferri del mestiere che utilizziamo. Nella conversazione quotidiana entrano spesso questioni legate a quello che stiamo studiando o scrivendo, ma questo fa parte della normalità di un rapporto nel quale il lavoro ha sempre avuto un posto di riguardo. Anche per questo mi è difficile parlare di “confronto” fra me e lui: dialogo, piuttosto, o forse solo chiacchiere quotidiane. Per me, comunque, nutrirmi del Guastini-pensiero è stato importante: credo che i miei discorsi ne abbiano guadagnato in rigore logico e chiarezza.

 La ex Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, colpita dal Covid-19, che ha felicemente superato, in una intervista rilasciata a Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera del 29 aprile 2020 ha detto di aver “riscoperto” nella malattia il valore di quattro parole: « Mancanza, soprattutto degli incontri personali, a partire dai genitori anziani, le persone care o gli amici; essenzialità, grazie al gusto ritrovato per uno stile di vita più semplice; solidarietà, attraverso la scoperta di mille iniziative spontanee di sostegno alle situazioni di bisogno; creatività, nell’esplorazione di soluzioni alternative di fronte a una strada improvvisamente sbarrata. Tutto questo ci può aiutare affinché il dopo sia un nuovo inizio, non un semplice ritorno al punto di partenza». Come hai vissuto questa emergenza, sul piano del lavoro e dei rapporti personali e familiari? Il mondo nuovo che ci aspetta in che cosa sarà diverso e forse, come è auspicabile, migliore?

Ormai non insegno più e, dunque, non sono passata attraverso l’esperienza della didattica a distanza. Ma ho vissuto e sto vivendo l’emergenza Covid come – credo – la gran parte delle persone, con un po’ di tensione e soffrendo le limitazioni alla normale vita di relazione imposte dalla necessità di salvaguardare la salute propria e altrui: gli incontri “in presenza” sono ormai molto rari, ho rinunciato all’abbonamento al teatro, e anche andare al cinema o vedere amici e parenti a cena è diventato problematico (4 meglio di 6, 8 no per carità!). Efficienti piattaforme rendono possibili seminari e riunioni: ma non è la stessa cosa che potersi parlare direttamente, senza l’intermediazione di una telecamera. Quando usciremo da questa situazione (ma non c’è da farsi illusioni: durerà ancora a lungo) ci troveremo di fronte una serie di cambiamenti importanti nell’organizzazione del nostro modo di vivere: le misure emergenziali cadranno, ma molte delle modificazioni intervenute nell’organizzazione della vita sociale (penso specialmente a quelle legate alle trasformazioni del lavoro) sopravviveranno all’emergenza. Sarà un mondo migliore? Non lo so, ma non sono ottimista: non mi sfuggono i vantaggi che l’organizzazione sociale e l’ambiente potranno trarre dal mutamento delle categorie del tempo e del luogo di lavoro a cui eravamo abituati, ma non posso evitare di guardare con molta perplessità alle conseguenze che mutamenti di questo tipo possono comportare sulla qualità della vita sociale e privata dei lavoratori e specialmente delle lavoratrici.

 C’è chi pensa che dall’emergenza Covid usciremo tutti incattiviti: spero abbia torto.  

 Nella tua formazione e nello sviluppo del tuo pensiero ha avuto un ruolo importante anche la passione politica, immagino; e hai vissuto tanti cambiamenti e trasformazioni dagli anni ‘70 in poi. Come guardi alla politica di ieri e a quella di oggi divisa a sinistra (che ha una identità sfocata rispetto al passato e per molti versi inadeguata alle sfide che ci attendono) e, nel rigurgito di una destra sempre più aggressiva, attraversata da sentimenti di sovranismo e populismo?

La passione politica ha giocato un ruolo importante nella mia vita e ha pesato sul mio lavoro, ma ormai da molto tempo ho abbandonato ogni forma di militanza; le passioni si sono affievolite, ma le convinzioni di fondo, maturate nella stagione del mio maggiore impegno politico, restano. Alla situazione politica attuale guardo come può guardare “una signora del secolo scorso”, consapevole di essere totalmente spaesata in questo mondo nel quale hanno perso di significato molte delle categorie concettuali e dei valori ai quali facevo riferimento. Credo, però, e l’ho già detto, che sinistra e destra abbiano ancora un significato; la crisi di identità, di idee e di progetti della sinistra mi provocano un profondo disagio; l’orrenda destra con la quale abbiamo ormai a che fare nel nostro sfortunato Paese mi fa paura, e mi sgomenta la vastità del consenso di cui gode.  

 Una donna dal carattere non facile e anche per questo affascinante, che ti accoglie sempre con un sorriso dolce, ma severo. Un’intellettuale con spiccato senso critico e discosta, che sa vedere le cose che gli altri non vogliono vedere, lontana da conformismo e convenienza. Ti riconosci in questo ritratto?

Potrei risponderti aggiungendo una sfilza di buone qualità che hai omesso di menzionare... Scherzo naturalmente: è un ritratto gentile, nel quale volentieri mi riconosco, anche se – a dire il vero – molti mi considerano (secondo me a torto) scostante e antipatica. Potrei citare Jessica Rabbit: non sono cattiva, è che mi disegnano così.

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