TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Doppia pregiudizialità e rapporto tra l’ordinamento dell’Unione europea e l’ordinamento italiano: definizione ed impostazione del tema di indagine.
1.1.In principio. sono recenti sentenze di accoglimento della nostra Corte costituzionale .
Dichiarano, invero, l’illegittimità costituzionale – in relazione all’articolo 117, primo comma, della costituzione (come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) – di norme dell’ordinamento italiano, perché in contrasto con norme - dotate di efficacia diretta – del diritto dell’Unione europea
Risultano investite, tuttavia, da diffuse critiche della dottrina - per l’asserita incompatibilità con il rapporto tra i due ordinamenti (unionale, già comunitario, appunto, ed italiano) – in base, essenzialmente, al rilievo che le norme direttamente efficaci del diritto dell’Unione si applicano in luogo delle norme confliggenti degli ordinamenti interni dei paesi membri.
1.2.Ora il rilievo addotto – a sostegno della asserita incompatibilità - concorre, bensì, ad integrare l’assetto – condiviso dalla Corte di giustizia e dalla nostra Corte costituzionale (fin dalla sentenza Granital delle stessa Corte costituzionale) – del rapporto tra i due ordinamenti (unionale, già comunitario, appunto, ed italiano)
Ne trascura, tuttavia, il rilievo – che concorre ad integrarlo – secondo cui la norma unionale – benché dotata di efficacia diretta (ancor più, sia detto per inciso, se ne sia sprovvista) – non comporta, in nessun caso, la rimozione della norma confliggente dell’ordinamento interno degli stati membri e, con essa, la conformazione dello stesso ordinamento interno a quello dell’Unione, alla quale i paesi membri sono obbligati in dipendenza della loro appartenenza all’Unione.
1.3.Nè possono provvedere – alla conformazione prospettata, appunto - istituzioni dell’Unione e, in particolare, sentenze della Corte di giustizia.
Tali sentenze, infatti, sono bensì dotate della stessa efficacia giuridica delle fonti dell’Unione - che sono chiamate ad interpretare e ad applicare (vedi infra) - oltre a costituire titolo esecutivo, sia pure entro limiti assai ristretti (Art. 280, in relazione all’art. 299, TFUE).
Non interferiscono, tuttavia, sugli ordinamenti interni degli stati membri né in sede di rinvio pregiudiziale, né in sede di procedimento di infrazione (vedi infra).
La reciproca autonomia dei due ordinamenti – nella configurazione che ne viene proposta dalla nostra Corte costituzionale –(vedi Infra) – riserva, infatti, agli stati membri la conformazione – alla quale sono obbligati.
1.4.Alternativa – rispetto all’adempimento spontaneo da parte degli stati membri, appunto, della obbligazione di conformare il proprio ordinamento al diritto dell’Unione – risulta, nel nostro ordinamento, la efficacia generale di qualsiasi sentenza di accoglimento della Corte costituzionale.
Infatti - a seguito di declaratoria della illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge – “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (art. 136 cost.).
1.5.Soccorre, a tale scopo, l’emersione del parametro costituzionale – già implicito nel nostro ordinamento (art. 10 e 11 costituzione) – che riposa sulla imposizione esplicita, al legislatore (statale e regionale), del “rispetto (…) dei vincoli derivanti - per quel che qui interessa - dall'ordinamento comunitario (…)” (articolo 117, primo comma, costituzione, nel testo novellato ora vigente, cit.).
Ad integrare il parametro costituzionale, tuttavia, concorre quale fonte interposta – in forza del rinvio libero della stessa disposizione costituzionale (art.117, primo comma, cit.) - la norma dell’ordinamento unionale, con la quale contrasta - nel caso concreto - l’ordinamento interno dello stato membro.
1.6.Agevole risulta, a questo punto, l’anticipazione - in sintesi – di brevi conclusioni.
Risalente. nel tempo, è l’assetto condiviso – dalla Corte di giustizia e dalla nostra Corte costituzionale (fin dalla sentenza Granital della stessa Corte costotuzionale, appunto) - del rapporto tra l’ordinamento dell’Unione (già Comunità) europea e l’ordinamento italiano.
Né ha subito successive modifiche
Non è mancato, invero, qualche scostamento – dal prospettato assetto condiviso del rapporto tra l’ordinamento dell’Unione (già Comunità) europea e l’ordinamento italiano - nel corso della c.d. saga Taricco.
E’ stato subito rimosso, tuttavia, da pronunce sopravvenute della stessa Corte costituzionale (vedi infra).
Mentre la giurisprudenza costituzionale recente (ricordata in apertura) – sulla quale si concentrano diffuse critiche della dottrina, per asserita incompatibilità con l’assetto condiviso prospettato – sembrano costituirne, invece, coerente evoluzione, agevolata dalla emersione del nuovo parametro costituzionale prospettato (articolo 117, primo comma , della costituzione, nel testo novellato ora vigente, cit.)..
Valga, tuttavia, il vero.
2.Rapporto tra il diritto dell’unione europea e l’ordinamento italiano: assetto condiviso dalla Corte di giustizia e dalla nostra Corte costituzionale (fin dalla sentenza Granital della stessa Corte costituzionale).
2.1.E’ la sentenza Granital della nostra Corte costituzionale – in consapevole contrasto con i precedenti della stessa Corte – ad inaugurare la condivisione dell’assetto, che – sul rapporto tra ordinamento comunitario (ora unionale) ed ordinamento italiano – era stato accolto dalla sentenza Simmenthal della Corte di giustizia , in coerenza con la giurisprudenza della stessa Corte.
Invero la sentenza Granital risulta così massimata:
“È inammissibile, in riferimento all'art. 11 cost. e in relazione agli art. 177 e 189 del trattato Cee, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 d.p.r. 22 settembre 1978, n. 695, per la parte in cui non consente di assicurare il rispetto della normativa comunitaria in materia di prelievi agricoli, in quanto nelle materie riservate alla sfera di competenza della comunità il giudice ordinario deve egli stesso provvedere ad assicurare la piena e continua osservanza delle norme comunitarie direttamente applicabili (nella specie: i regolamenti), senza tener conto delle leggi nazionali, anteriori o successive, eventualmente confliggenti e senza quindi che sia necessario rivolgersi alla corte costituzionale per far dichiarare l'illegittimità costituzionale di tali leggi”.
E la sentenza Simmenthal risulta massimata (recte: sintetizzata) – con il titolo “ disapplicazione da parte del giudice nazionale di una legge in contrasto col diritto comunitario” - nei termini testuali seguenti:
“L'applicabilità diretta del diritto comunitario significa che le sue norme devono esplicare pienamente i
loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la
durata della loro validità.
Le disposizioni direttamente applicabili sono una fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro ch'esse riguardano, siano questi gli Stati membri ovvero i singoli, soggetti di rapporti giuridici disciplinati dal diritto comunitario. Questo effetto riguarda anche tutti i giudici che, aditi nell'ambito della loro competenza, hanno il compito, in quanto organi di uno Stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario.
In forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l'effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere «ipso iure» inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche — in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell'ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri — di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie.
Il riconoscere una qualsiasi efficacia giuridica ad atti legislativi nazionali, che invadano la sfera nella quale si esplica il potere legislativo della Comunità, o altrimenti incompatibili col diritto comunitario, equivarrebbe, infatti, a negare, sotto questo aspetto, il carattere reale d'impegni incondizionatamente ed irrevocabilmente
assunti, in forza del Trattato, dagli Stati membri, mettendo così in pericolo le basi stesse della Comunità.
Il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto
comunitario, ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria
iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne
chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”..
Mentre la condivisione, da parte delle due Corti – dell’assetto del rapporto tra ordinamento comunitario (ora unionale) e ordinamento italiano – risulta lucidamente scolpita, dalla sentenza Granital (punto 5 della motivazione), nei termini testuali seguenti:
“5. - Il risultato cui è pervenuta la precedente giurisprudenza va, quindi, ridefinito, in relazione al punto di vista, sottinteso anche nelle precedenti pronunzie, ma non condotto alle ultime conseguenze, sotto il quale la fonte comunitaria é presa in considerazione nel nostro ordinamento. Il giudice italiano accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame, e ne applica di conseguenza il disposto, con esclusivo riferimento al sistema dell'ente sovrannazionale: cioè al solo sistema che governa l'atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva.
Le confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della "forza e valore", che il Trattato conferisce al regolamento comunitario, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili. Rispetto alla sfera di questo atto, così riconosciuta, la legge statale rimane infatti, a ben guardare, pur sempre collocata in un ordinamento, che non vuole interferire nella produzione normativa del distinto ed autonomo ordinamento della Comunità, sebbene garantisca l'osservanza di essa nel territorio nazionale.
D'altra parte, la garanzia che circonda l'applicazione di tale normativa é - grazie al precetto dell'art. 11 Cost. , com'è sopra chiarito - piena e continua. Precisamente, le disposizioni della CEE, le quali soddisfano i requisiti dell'immediata applicabilità devono, al medesimo titolo, entrare e permanere in vigore nel territorio italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello Stato. Non importa, al riguardo, se questa legge sia anteriore o successiva. Il regolamento comunitario fissa, comunque, la disciplina della specie. L'effetto connesso con la sua vigenza é perciò quello, non già di caducare, nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale. In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto dall'abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o derogatorio, che investe le norme all'interno dello stesso ordinamento statuale, e ad opera delle sue fonti. Del resto, la norma interna contraria al diritto comunitario non risulta - é stato detto nella sentenza n. 232/75, e va anche qui ribadito - nemmeno affetta da alcuna nullità, che possa essere accertata e dichiarata dal giudice ordinario. Il regolamento, occorre ricordare, é reso efficace in quanto e perché atto comunitario, e non può abrogare, modificare o derogare le confliggenti norme nazionali, né invalidarne le statuizioni. Diversamente accadrebbe, se l'ordinamento della Comunità e quello dello Stato - ed i rispettivi processi di produzione normativa - fossero composti ad unità. Ad avviso della Corte, tuttavia, essi, per quanto coordinati, sono distinti e reciprocamente autonomi. Proprio in ragione, dunque, della distinzione fra i due ordinamenti, la prevalenza del regolamento adottato dalla CEE va intesa come si é con la presente pronunzia ritenuto: nel senso, vale a dire, che la legge interna non interferisce nella sfera occupata da tale atto, la quale é interamente attratta sotto il diritto comunitario.
La conseguenza ora precisata opera però, nei confronti della fonte statuale, solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca con una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno. Fuori dall'ambito materiale, e dai limiti temporali, in cui vige la disciplina comunitaria così configurata, la regola nazionale serba intatto il proprio valore e spiega la sua efficacia; e d'altronde, é appena il caso di aggiungere, essa soggiace al regime previsto per l'atto del legislatore ordinario, ivi incluso il controllo di costituzionalità”.
2.2.Resta quindi, nella giurisprudenza della nostra Corte costituzionale, la configurazione del diritto comunitario (ora unionale) e di quello interno – “come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato” (così, testualmente, la sentenza Granital, punto 4 della motivazione) – l’unica divergenza rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia, che li configura come unico ordinamento complesso.
Coerentemente, il diritto comunitario (ora unionale) è destinato ad operare immediatamente - nella nostra sfera territoriale, come in quella di ogni altro Stato membro – e l'ordinamento italiano consente - in virtù del particolare rapporto con l'ordinamento comunitario (ora unionale), e della sottostante limitazione della sovranità statuale – che, nel territorio nazionale, il diritto comunitario (ora unionale), appunto, “spieghi effetto in quanto tale e perché tale” (così la sentenza Granital, loc. ult. cit.).
Palese risulta il rilievo che, a tale scopo, assumono la specialità dell’ordinamento comunitario (ora unionale) – e la sua primazia rispetto agli ordinamenti degli stati membri – in funzione della efficacia delle norme comunitarie (ora unionali), appunto, nel territorio e sull’ordinamento italiano, come di ogni altro stato membro..
2.3.In principio, è la configurazione della Comunità (ora Unione) europea – proposta sin da remota sentenza della Corte di giustizia – come “ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini”.
Coerentemente – è la stessa Corte di giustizia a stabilirlo – “il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano, non soltanto nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal Trattato ai singoli, agli Stati membri o alle Istituzioni comunitarie” .
Con la prospettata specialità dell’ordinamento comunitario (ora unionale), ne concorre la primazia rispetto agli ordinamenti nazionali degli stati membri.
La fonte giurisprudenziale del primato – nell’ordinamento comunitario – si coniuga con la base giuridica costituzionale, nel nostro come in altri ordinamenti interni degli stati membri.
2.4.E’ lo stesso trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) – ad attestare la fonte giurisprudenziale del primato, nel proprio ordinamento – laddove (17.dichiarazione sul primato, allegata al trattato) si legge testualmente:
“La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell'Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall'Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza.
Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260)”:
Parere del Servizio giuridico del Consiglio del 22 giugno 2007.
“ Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. All'epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata (Costa contro ENEL, 15 luglio 1964, causa 6/64 ( 1 ) ) non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato. La situazione è a tutt'oggi immutata. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l'esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia”.
( 1 ) “(…) discende che, scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa comunità.”.».
2.5.Con la fonte giurisprudenziale del primato nell’ordinamento comunitario (ora unionale), concorre – nel nostro ordinamento interno, come in quello di altri paesi membri – la base giuridica costituzionale, quale risulta (art. 11 della nostra costituzione) nei termini testuali seguenti:
“L'Italia (……) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni (…..)”.
Fin dalla sua prima formulazione in Assemblea costituente , il principio di autolimitazione della sovranità dello stato è posto in relazione con l’idea degli stati uniti d’Europa .
Palesi risultano le suggestioni resistenziali
Coerente con la cessione di sovranità, la primazia dell’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario) ne comporta la prevalenza sugli ordinamenti interni degli stati membri.
2.6.Coerente con la prospettata specialità dell’ordinamento comunitario – e con la sua primazia rispetto agli ordinamenti degli stati membri – risulta la efficacia diretta delle norme comunitarie (ora unionali), appunto, immediatamente precettive, perché di contenuto certo ed incondizionate.
Riguardava, tuttavia, le norme di fonti primarie (trattati, regolamenti) – che vincolano in ogni loro elemento – e la Carta di Nizza, dopo che il trattato di Lisbona (art. 6) le ha attribuito lo stesso valore del trattato.
Per le direttive – che impongono agli stati membri soltanto un obbligo di risultato – la efficacia diretta era invece limitata – parimenti per le norme immediatamente precettive – ai rapporti con lo stato (c.d. efficacia diretta verticale), mentre era esclusa per i rapporti tra privati (c.d. efficacia diretta orizzontale).
In tale prospettiva, va ricordato, tuttavia, che le sentenze della Corte di giustizia sono fonti ulteriori dell’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario) e, di conseguenza, l’interpretazione – che ne risulti – delle direttive non ne condivide i prospettati limiti alla efficacia diretta
.
2.7.La efficacia diretta verticale delle direttive – proposta dalla Corte di giustizia – è stata accolta tiepidamente (per dirla con un eufemismo) dalla dottrina – secondo cui “le norme giuridiche, per loro natura, hanno uno scopo pratico” – in base, essenzialmente, al rilievo seguente:
“Qualsiasi norma giuridica è concepita in modo da funzionare efficacemente (in questo caso, siamo soliti parlare, in francese, di effet utile). Se non è funzionale, non è una norma giuridica. (…) La funzionalità pratica per tutti gli interessati, che altro non è se non l’efficacia diretta, deve essere considerata la normale caratteristica di qualsiasi norma giuridica (…). In altri termini, “l’efficacia diretta” deve essere presunta, non deve essere accertata a priori”.
2.8.Tuttavia la stessa Corte di giustizia – fin da quando ha elaborato la dottrina della efficacia diretta verticale delle direttive – ha ritenuto fondamentale conoscere i limiti della nozione di Stato ai fini dell’applicazione, appunto, della dottrina dell’efficacia diretta verticale.
Non risulta, talora, condiviso pienamente il secondo degli obiettivi perseguiti – di “sanzionare le autorità nazionali che non abbiano rispettato l’effetto obbligatorio e assicurato l’effettiva applicazione dei medesimi atti” , appunto – in base al rilievo che “enti che non avevano niente a che fare con la mancata trasposizione della direttiva da parte dello Stato (e non potevano in alcun modo influire su tale inosservanza) dovranno comunque rispettare le disposizioni direttamente efficaci di tale direttiva, secondo la dottrina dell’efficacia diretta verticale, qualora siano considerate un’emanazione dello Stato”: così, testualmente, le conclusioni dell’avvocato generale Eleanor Sharpston, presentate il 22 giugno 2017, in causa C-413/15, Farrel, spec. nota 138.
La ratio del riconoscimento dell’efficacia diretta delle direttive, infatti, “si basa, in definitiva, su due obiettivi complementari: l’esigenza di garantire efficacemente i diritti conferiti ai singoli da tali atti e la volontà di sanzionare le autorità nazionali che non abbiano rispettato l’effetto obbligatorio e assicurato l’effettiva applicazione dei medesimi atti”.
2.9.Intanto la emanazione dello Stato – ai fini (dell’estensione) dell’efficacia diretta verticale delle direttive – deve essere una nozione autonoma del diritto dell’Unione, necessariamente formulata in termini astratti.
Ciò risulta, all’evidenza, funzionale all’applicazione uniforme del diritto dell’Unione europea in tutti i paesi membri dell’Unione.
Coerentemente, la Corte ne ha enunciato, in termini generali ed astratti, la definizione seguente:
“disposizioni incondizionate e sufficientemente precise di una direttiva potevano essere invocate dagli amministrati nei confronti di organismi o di enti che erano soggetti all’autorità o al controllo dello stato o che disponevano di poteri che eccedevano i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano fra singoli”.
Del pari coerentemente, la Corte di giustizia ha identificato in termini astratti – sulla base di fonti dell’ordinamento comunitario (ora eurounitario), in materie affatto diverse tra loro(ivi compresi, ad esempio, appalti pubblici, aiuti di stato e concorrenza) – una serie di enti riconducibili alla nozione di emanazione dello stato – ai fini della efficacia diretta verticale delle direttive, appunto – senza considerarli, tuttavia, numero chiuso.
Ne risulta che una emanazione dello stato – al fine dell’efficacia diretta verticale delle direttive – è configurabile – a prescindere dalla sua forma giuridica, dalla quotidianità dell’esercizio dei poteri di direzione e controllo e dal finanziamento dello stato – nelle seguenti ipotesi:
- proprietà o controllo dell’organismo da parte dello stato;
- autorità comunali, regionali o locali o organismi analoghi;
- assegnazione all’organismo del compito di svolgere un servizio pubblico, che altrimenti lo Stato stesso avrebbe potuto svolgere direttamente, e contestuale conferimento allo stesso organismo di una qualche forma di poteri supplementari.
Tuttavia, il singolo può far valere disposizioni precise e incondizionate di una direttiva nei confronti dello Stato – o di una sua emanazione – indipendentemente dalla veste in cui lo stato (o la sua emanazione) agisce, in quanto occorre evitare che lo Stato possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto dell’Unione.
L’ampliamento della nozione di stato si coniuga – in funzione della estensione della efficacia diretta verticale delle direttive – con la identificazione dello stesso stato – in tutte le sue funzioni – ivi compresa quella giurisdizionale.
2.10.“Se è vero che, con riferimento a una controversia tra privati, la Corte ha dichiarato in maniera costante che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un privato e non può, quindi, essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v., in particolare, sentenze Marshall, 152/84, EU:C:1986:84, punto 48; Faccini Dori, C-91/92, EU:C:1994:292, punto 20, nonché Pfeiffer e a., da C-397/01 a C-403/01, EU:C:2004:584, punto 108), essa ha parimenti dichiarato a più riprese che l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest’ultima così come il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo s’impongono a tutte le autorità degli Stati membri, comprese, nell’ambito delle loro competenze, quelle giurisdizionali (v., in tal senso, in particolare, sentenze von Colson e Kamann, 14/83, EU:C:1984:153, punto 26, nonché Kücükdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punto 47)”.
2.11.La efficacia diretta – come è stato anticipato – comporta, poi, l’applicazione delle norme comunitarie (ora unionali) – che ne siano dotate – in luogo delle norme interne confliggenti.
Vi provvedono, quindi, i giudici comuni.
Ne risulta superata, di conseguenza, la pregressa necessità – imposta, in un remoto passato, dalla nostra Corte costituzionale, in contrasto della Corte di giustizia – di sollevare, in tal caso, questione di legittimità costituzionale (in relazione all’art. 11 cost.).
Alle stesse conclusioni sembrava doversi pervenire con riferimento alle norme – dotate, appunto, di efficacia diretta – della Carta di Nizza, una volta che il trattato di Lisbona (art. 6) le ha riconosciuto lo stesso valore giuridico del trattato.
2.12.Per colmare la lacuna creata dalla mancanza di efficacia diretta, tuttavia, soccorrono:
- il principio di interpretazione conforme (interprétation conforme);
- e, come extrema ratio, la responsabilità dello Stato per danni.
2.13.Il principio di interpretazione conforme (interprétation conforme) risulta ripetutamente enunciato dalla Corte di giustizia.
La stessa Corte ha chiarito, però, che “l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto nazionale trova un limite nei principi generali del diritto e non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale” .
Tuttavia, soccorre, nel nostro ordinamento – ove l’interpretazione conforme non sia plausibile, in dipendenza del tenore letterale della norma interna - a questione di legittimità costituzionale della stessa norma (in relazione all’articolo 117, primo comma, Costituzione, integrato dalla norma eurounitaria confliggente, quale fonte interposta).
2.14.Quanto, poi, alla responsabilità per danni dello Stato – in dipendenza dell’inadempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza alla Comunità (ora Unione) europea – il principio ha origine nella sentenza Fracovich
Ne risulta affermata, infatti, la responsabilità obiettiva dello stato, appunto, in presenza delle tre condizioni, contestualmente previste (ai punti 40 e 41) nei termini testuali seguenti:.
“40.La prima di queste condizioni è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti in favore dei singoli. La seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa esere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. La terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello stato e il danno subito dai soggetti lesoi.
41.Tali condizioni sono sufficienti per far sorgere a vantaggio dei singoli un diritto ad ottenere un risarcimento, che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario”.
Tale conclusione risulta sostanzialmente confermata dalla successiva sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame , sia pure limitatamente all’ipotesi in cui lo Stato membro sia soggetto all’obbligo di adottare, entro un certo termine, tutti i provvedimenti necessari per conseguire il risultato prescritto da una direttiva (punto 46).
Per la diversa ipotesi – in cui lo Stato membro disponga di un ampio potere discrezionale (punto 51) – è ritenuta necessaria, invece, una violazione sufficientemente caratterizzata, definita come “violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro (…) dei limiti posti al [suo] potere discrezionale” (punto 55).
Una logica conclusione, poi, risulta – dalla sentenza Dillenkofer – “rispetto a ciò che la Corte aveva già affermato nella sentenza Francovich (punti da 39 a 41) e confermato nella sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame (punto 46)”.
2.15.L’incompatibilità della legislazione nazionale con le disposizioni comunitarie (ed, ora, eurounitarie) – ancorché direttamente efficaci e, come tali, da applicare in luogo delle norme interne confliggenti – può essere definitivamente soppressa, tuttavia, solo tramite disposizioni interne che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle incompatibili, appunto, con il diritto comunitario (ora unionale).
Né possono considerarsi equivalenti, a tale scopo, disposizioni di fonti interne di diverso valore – rispetto a quelle delle norme incompatibili – né, tantomeno, prassi amministrative – peraltro suscettibili di modifiche da parte dell’amministrazione – in quanto risultano, all’evidenza, inidonee a sopprimere definitivamente le norme interne confliggenti, appunto, con il diritto dell’Unione.
Lo stabilisce la Corte di giustizia, sia pure con riferimento a norme del trattato – sin dalla remota sentenza 15 ottobre1986, in causa C- 168/85 – laddove sancisce:
“La facoltà degli amministrati di far valere dinanzi ai giudici nazionali disposizioni del trattato direttamente applicabili costituisce solo una garanzia minima e non è di per sé sufficiente ad assicurare la piena applicazione del trattato stesso; mantenere immutata, nella legislazione di uno stato membro, una disposizione interna incompatibile con una norma del trattato direttamente applicabile, crea una situazione di fatto ambigua in quanto mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità di fare appello al diritto comunitario e costituisce quindi una trasgressione degli obblighi imposti dal trattato”.
Resta nell’ordinamento italiano, tuttavia, la efficacia generale delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale – quale alternativa alla iniziativa spontanea dello stato – per la propria conformazione al diritto dell’’Unione, senza risultare incompatibile – come pure è stato anticipato – con il rapporto tra i due ordinamenti (vedi infra, § 4).
Qualche scostamento dall’assetto del rapporto tra diritto comunitario (ora unionale) e ordinamento italiano – condiviso, per quanto si è detto, dalla Corte di giustizia e dalla nostra Corte costituzionale - è, bensì. emerso nel corso della c.d. saga Taricco.
Ma è subito rimosso – come parimenti anticipato – a seguito di sopravvenuta pronuncia della stessa Corte costituzionale (vedi infra, § 3).
3. Segue: scostamento, nel corso della c.d. saga Taricco - dall’assetto condiviso del rapporto tra i due ordinamenti - e successiva rimozione.
A consuntivo – per così dire – la c.d. saga Taricco risulta un palese spreco di giurisdizione – diffusamente riconosciuta risorsa non illimitata – non solo a livello nazionale, ma anche a livello eurounitario.
Due sentenze della Corte di giustizia su rinvio pregiudiziale – anche da parte della nostra Corte costituzionale – nonché l’ordinanza di rinvio ed una sentenza della stessa Corte costituzionale sono state ritenute necessarie per raggiungere un risultato – che, forse, avrebbe potuto prescinderne – o, comunque, sarebbe stato agevole, quantomeno, dopo la prima sentenza della Corte di giustizia.
Nel processo evolutivo della saga, tuttavia, sono pure saltati alcuni punti di sintesi – che sembravano definitivamente acquisiti – del rapporto tra ordinamento unionale ed ordinamento nazionale.
Lo scrutinio delle questioni – relative al rapporto tra gli stessi ordinamenti – pare, infatti, sottratto ai nostri giudici comuni – e ricentralizzato in testa alla Corte costituzionale – – con un palese ritorno al passato remoto, non disgiunto dalla negazione della efficacia vincolante delle sentenze della Corte di giustizia.
Il rischio paventato, tuttavia, è stato sventato dalla sopravvenienza – alla saga Taricco – di pronunce, di segno diverso, della nostra Corte costituzionale.
3.1.La sequenza della saga Taricco può essere sintetizzata, per quel che qui interessa, nei passaggi essenziali seguenti.
In principio è la sentenza della Corte di giustizia (c.d. Taricco 1) , che ha dichiarato immediatamente efficace una disposizione del trattato e, coerentemente, disapplicato norme confliggenti del nostro ordinamento interno.
La sentenza Taricco 1 è stata direttamente investita, da questione di legittimità costituzionale, (anche) dalla nostra Corte di cassazione ., in relazione al principio costituzionale di legalità in materia penale (art. 25 cost.).
La Corte costituzionale a disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, che riecheggia – sostanzialmente – la proposta questione di legittimità costituzionale.
E la sentenza Taricco 2 della Corte di giustizia (detta anche sentenza M.A.S.) ha confermato, bensì, l’efficacia diretta della disposizione del trattato (art. 325) e la disapplicazione delle norme interne confliggenti sulla prescrizione (art. 160 e 161 c.p.) del reato in materia di imposta sul valore aggiunto – già stabilite dalla sentenza Taricco 1 – ma ha fatto salva (a meno che), tuttavia, l’ipotesi che “una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato”.
La sentenza Taricco 2, poi, sembra la ratio o, comunque, l’occasione di un obiter dictum della Corte costituzionale, che prospetta – sostanzialmente – la ricentralizzazione del controllo – in testa alla stessa Corte – quando una questione investa (anche) la violazione di norme della Carta di Nizza.
Tuttavia è la sentenza della Corte costituzionale che dà seguito, appunto, alla stessa sentenza Taricco 2 della Corte di giustizia – a dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale della legge di autorizzazione alla ratifica del trattato di Lisbona (legge n. 130 del 2008, articolo 2) – in relazione al principio di legalità in materia penale (art. 25 cost.) – risultando esclusa l’applicabilità della norma del trattato (art. 325 cit.) – sebbene dotata di efficacia diretta, come dichiarato sin dalla sentenza Taricco 1 – non solo a fatti anteriori all’8 settembre 2015 (data della sentenza Taricco 1), ma anche quando il giudice nazionale ne ravvisi, appunto, contrasto con lo stesso principio di legalità in materia penale.
3.2.La centralizzazione del controllo – in testa alla Corte costituzionale, appunto – sembra costituire il filo rosso che collega tra loro i passaggi essenziali dei contributi della stessa Corte alla saga Taricco.
Intanto una norma del trattato di Lisbona dotata di efficacia diretta (art. 325) – come dichiarato dalla Corte di giustizia (sin dalla sentenza Taricco 1) – risulta investita, (anche) dalla Corte di cassazione, da questione di legittimità costituzionale.
E la Corte costituzionale – come è stato anticipato – neanche si pone il problema circa l’ammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Eppure, ne risulta investita una norma eurounitaria dotata di efficacia diretta, come tale affidata, da un lato, all’applicazione da parte del giudice comune – per quanto si è detto – e prevalente, dall’altro, rispetto alla norma costituzionale (art. 25 cost.) assunta quale controlimite.
Tanto più la conclusione ora proposta s’impone ove si consideri che – della stessa norma eurounitaria – il giudice rimettente pretende – del pari inammissibilmente – una interpretazione adeguatrice che risulti rispettosa del controlimite – allo stesso ordinamento dell’Unione – quale risulta dal principio di legalità in materia penale, come previsto dalla nostra costituzione (art. 25).
In altri termini, un principio dell’ordinamento interno – sia pure di fonte costituzionale (art. 25 cost.) – ne risulta prospettato quale parametro per conformare l’interpretazione di norma del diritto dell’Unione (art. 325 TUE), nonostante la efficacia diretta e la prevalenza di questa rispetto allo stesso principio dell’ordinamento interno (art. 25 cost., appunto) .
La Corte costituzionale, infatti, dispone nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, che riecheggia – per quanto si è detto – la questione di legittimità costituzionale – sollevata (anche) dalla Corte si cassazione – per ottenere una sorta di interpretazione autentica della pronuncia precedente, che risulti rispettosa, appunto, del principio costituzionale di legalità in materia penale (art. 25 cost.) .
3.3.La Corte di giustizia , intanto, ribadisce l’efficacia diretta della diposizione (art. 325 del trattato di Lisbona, cit.), già dichiarata dalla sentenza Taricco 1, a seguito di precedente rinvio pregiudiziale della stessa Corte costituzionale
Tuttavia, impone l’obbligo dei giudici nazionali di osservare anche il principio di legalità in materia penale, come previsto da norma – parimenti dotata di efficacia diretta – della Carta di Nizza (art. 49) e non già dal principio – di contenuto sostanzialmente non dissimile – della nostra costituzione (art. 25), che risulta invocato dai giudici nazionali (Corte costituzionale, appunto, e giudici rimettenti).
3.4.Resta confermato, vieppiù, il problema se fosse proprio necessario, nella specie, un secondo rinvio pregiudiziale ed, ancor prima, la rimessione alla Corte costituzionale.
I giudici comuni nazionali, infatti, sono tenuti a non applicare – ed hanno, quindi, l’obbligo di disapplicare (per dirla con il linguaggio, forse meno rigoroso, delle due sentenze Taricco) – le norme interne confliggenti con norme dell’ordinamento comunitario (ed, ora, eurounitario), che siano dotate di efficacia diretta.
Mentre la necessità di investire, in tal caso, la Corte costituzionale – della questione di legittimità costituzionale (in relazione all’articolo 11 della costituzione) – risultava concordemente esclusa fin dalle remote sentenze Simmenthal e Granital (Corte giust. 9 marzo 1978, in causa C- 106/77, e, rispettivamente, Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170).
3.5.Per superare il problema ora prospettato – sia pure a costo di un ritorno al passato remoto, per quanto si è detto – la Corte costituzionale propone in un obiter – con riferimento specifico, tuttavia, alla Carta di Nizza – e, sostanzialmente, ribadisce – con la sentenza che dà seguito alla Taricco 2 – la centralizzazione, in testa alla stessa Corte, del controllo su qualsiasi contrasto tra norme del diritto dell’Unione e norme dell’ordinamento nazionale.
In funzione della centralizzazione, il ritorno al passato remoto, tuttavia, si coniuga con la sostanziale negazione della competenza della Corte di giustizia – sebbene contestualmente predicata – nella interpretazione uniforme del diritto dell’Unione e nella specificazione se esso abbia effetto diretto.
Peraltro, il principio di legalità in materia penale – sebbene previsto (anche) dalla Carta di Nizza (articolo 49) – diventa parametro di legittimità costituzionale – per la legge che autorizza la ratifica del trattato di Lisbona – sia pure impiegando lo stesso principio – come previsto della nostra costituzione (art. 25) – apoditticamente elevato, tuttavia, a principio supremo.
3.6.Intanto è la stessa Corte costituzionale a riconoscere (punto 12) che la sentenza Taricco 2 ha ritenuto “assorbito il terzo quesito in forza della risposta data ai primi due ” nei termini testuali seguenti:
“3) se la sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015, in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro”,
“l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.”.
In altri termini – chiarisce, esplicitamente, la stessa Corte costituzionale – “la Corte di giustizia ha ribadito i contorni della “regola Taricco”, ma ha confermato che essa può trovare applicazione solo se è rispettosa del principio di legalità in materia penale, nella duplice componente della determinatezza e del divieto di retroattività. Quanto alla prima ha sollecitato una verifica della competente autorità nazionale, mentre sulla retroattività ha sùbito specificato che la “regola Taricco” non si estende ai fatti compiuti prima dell’8 settembre 2015, data di pubblicazione della sentenza che l’ha enunciata”.
All’esito di tali premesse, tuttavia, la Corte costituzionale pronuncia su questione di legittimità costituzionale, che sembra riecheggiare, nella sostanza, la questione pregiudiziale ritenuta assorbita dalla Corte di giustizia (nella Taricco 2).
Resta da domandarsi, tuttavia, se ne risulti frainteso quanto stabilito dalla Corte di giustizia, anche nella Taricco 2.
3.7.Invero la motivazione della sentenza di rigetto della Corte costituzionale si articola nei passaggi essenziali seguenti:
- resta fermo che “compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell’Unione, e specificare se esso abbia effetto diretto”;
- tuttavia, “come ha riconosciuto la sentenza M.A. S.(altro nome della Taricco 2), un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento”;
- quanto appena rilevato concerne la “regola Taricco”, che non troverebbe una base legale sufficientemente determinata nell’art. 325 TFUE, dal quale una persona non avrebbe potuto, né oggi potrebbe, desumere autonomamente i contorni della regola Taricco”, appunto;
- pertanto “ciò comporta la non fondatezza di tutte le questioni sollevate, perché, (…….), la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco”” nel nostro ordinamento”.
Resta, tuttavia, il problema – già prospettato – se ne risulti frainteso quanto stabilito dalla Corte di giustizia – nell’ambito della propria competenza – anche nella Taricco 2.
3.8.Rispondendo alle prime due questioni pregiudiziali, infatti, la sentenza Taricco 2 della Corte di giustizia ribadisce la efficacia diretta (dell’art. 325 TFUE, appunto) – già accertata dalla Taricco 1 – ed impone, nel contempo, il rispetto del principio di legalità in materia penale – parimenti dotato di efficacia diretta – stabilito dallo stesso diritto dell’Unione (art. 49 Carta di Nizza), sia pure in termini non dissimili rispetto alla nostra costituzione (art. 25).
Pertanto, il principio di legalità risulta radicato – con efficacia diretta – nel diritto dell’Unione.
Non pare, quindi, neanche configurabile un qualsiasi contrasto di tale ordinamento con lo stesso principio di legalità, come stabilito dalla nostra costituzione (art. 25).
La conclusione proposta si impone, vieppiù, ove si consideri la prevalenza del principio di legalità – stabilito dal diritto dell’Unione – rispetto al principio omologo previsto dalla nostra costituzione.
Palese ne risulta il rilievo ove si consideri il contenuto identico di tanti principi della Carta di Nizza e della nostra costituzione.
Pare, invece, assorbita la questione attinente alla elevazione del principio di legalità da principio fondamentale a principi supremo , come tale idoneo a costituire parametro di legittimità costituzionale per la legge di autorizzazione della ratifica del trattato di Lisbona.
Peraltro, il contrasto con il principio di legalità – previsto dalla nostra costituzione (art. 25) – risulta prospettato, sotto il profilo della indeterminatezza. in relazione alla regola Taricco (di cui all’art. 325 TFUE).
Tuttavia, la indeterminatezza non è compatibile con la efficacia diretta – che postula, appunto, contenuto normativo sicuro (oltre che incondizionato) – della stessa regola Taricco.
Mentre la verifica circa la indeterminatezza – che la Corte di giustizia demanda ai giudici nazionali – pare riferita alle norme interne con essa confliggenti.
..
3.9.Al pari di ogni altra decisione di rigetto delle questioni di legittimità costituzionale, la sentenza della Corte costituzionale – che sembra concludere la sagaTaricco – non produce alcun effetto giuridico al di fuori del giudizio a quo.
Restano, tuttavia, i messaggi che la nostra Corte costituzionale ha ritenuto di dovere rivolgere ai giudici comuni – che ne risultano espropriati della competenza a decidere, su qualsiasi contrasto tra diritto dell’Unione ed ordinamento interno, attribuita agli stessi giudici fin dalle remote sentenze Simmenthal e Granital – in un obter dictum ed in una sentenza di rigetto.
Non vincolati dalla sentenza di rigetto né, tantomeno, dall’obiter dictum della Corte costituzionale i nostri giudici comuni potrebbero, quindi, continuare a conformarsi alle sentenze – che, invece, restano per loro vincolanti – Simmenthal e Granital.
Oppure potrebbero riproporre, direttamente, alla Corte di giustizia la stessa questione pregiudiziale – già decisa con la remota sentenza Simmenthal, finora condivisa dai giudici nazionali a far tempo dalla sentenza Granital –concernente, appunto, il rapporto tra ordinamento dell’Unione e nostro ordinamento interno.
Ne potrebbe risultare – alla luce della giurisprudenza (anche attuale) della Corte di giustizia – una sorta di sentenza Simmenthal del XXI secolo, alla quale non potrebbe non seguire una sorta di sentenza Granital, parimenti del XXI secolo: con buona pace del risparmio di giurisdizione e dello stesso dialogo tra le Corti.
3.10.Il rischio paventato pare escluso, tuttavia, da sentenze sopravvenute della stessa Corte costituzionale.
Ne risulta stabilito, infatti, che – nel contrasto di disposizione interna con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) e con la nostra costituzione – resta “fermo (….) il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta”. 61
Tanto basta per escludere la paventata centralizzazione – in testa alla nostra Corte costituzionale – del controllo sul contrasto di disposizioni interne con norme della Carta dotate di efficacia diretta.
Il potere del giudice comune di non applicarle nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame – previo rinvio pregiudiziale (eventuale) alla Corte di giustizia – risulta coerente con l’assetto, risalente alle remote sentenze Simmenthal e Granital, del rapporto tra ordinamento comunitario (ora euro unitario) e diritto interno.
Infatti, la efficacia diretta comporta – per quanto si detto (vedi § 1.6.) – l’applicazione delle norme comunitarie (ora eurounitarie) – che ne siano dotate – in luogo delle norme interne confliggenti.
Vi provvedono, quindi, i giudici comuni.
Ne risulta superata, di conseguenza, la pregressa necessità – imposta, in un remoto passato, dalla nostra Corte costituzionale, in contrasto della Corte di giustizia – di sollevare, in tal caso, questione di legittimità costituzionale (in relazione all’art. 11 cost.).
Non può essere trascurato, peraltro, che l’incompatibilità della legislazione nazionale con disposizioni comunitarie (ed, ora, eurounitarie) – ancorché direttamente efficaci e, come tali, da applicare al caso concreto in luogo delle norme interne confliggenti – può essere soppressa, definitivamente, solo tramite disposizioni interne che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle incompatibili, appunto, con il diritto comunitario.
E la trasgressione (eventuale) dell’obbligo di conformazione relativo – derivante dalla appartenenza alla Comunità (ed, ora, all’Unione) europea – comporta la soggezione dello stato membro inadempiente alla procedura di infrazione.
3.11.Nè rileva, in contrario, il controllo accentrato, affatto diverso, della Corte costituzionale – sul contrasto di leggi nazionali con parametri costituzionali, cioè su questioni di legittimità costituzionale – che viene prospettato, contestualmente, nei termini testuali seguenti: “a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta”.
Infatti il controllo centralizzato della Corte costituzionale – ritenuto incoerente con l’assetto del rapporto tra ordinamenti risalente alle remote sentenze Simmenthal e Granital – sembrava emergere, per quanto si è detto (vedi § 3.2.), dalla circostanza che una norma del trattato di Lisbona dotata di efficacia diretta (art. 325) – come dichiarato dalla Corte di giustizia (sin dalla sentenza Taricco 1) – è stata investita da questione di legittimità costituzionale e la Corte costituzionale neanche si è posto il problema circa l’ammissibilità della stessa questione.
Ancor prima, tuttavia, era stato stabilito (vedi retro: § 3.1.) – in un obiter dictum – che, “,laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE”.
La indispensabilità del controllo centralizzato della Corte costituzionale – che sembrava risultarne – non è, all’evidenza, compatibile con l’applicazione delle norme comunitarie (ed ora eurounitarie) – dotate di efficacia diretta – in luogo delle norme interne confliggenti.
Mentre l’esigenza che sia salvaguardata “l’opportunità di un intervento con effetti erga omnes” – che pare addotta a giustificazione del sindacato accentrato della Corte costituzionale, “alla luce dei parametri costituzionali interni” – pare garantita, per quanto di è detto (nel paragrafo, che precede), anche nel caso di norme comunitarie (ed, ora, eurounitarie) – dotate di efficacia diretta – da applicare, come tali, al caso concreto, anche in luogo di norme interne confliggenti.
Alle stesse conclusioni sembra pervenire la relazione annuale 21 marzo 2019 del Presidente della Corte costituzionale sulla giurisprudenza della Corte del 2018 (spec. § 8).
Ciò, tuttavia, può implicare che disposizioni di legge non più applicate dai vari giudici nelle loro decisioni rimangano in vita nell’ordinamento nazionale, con pregiudizio della certezza del diritto e dell’effettività dei diritti costituzionali eventualmente coinvolti.
Perciò la mancata applicazione della legge nazionale da parte dei giudici comuni, per incompatibilità con il diritto dell’Unione, potrebbe sottrarre alla Corte costituzionale la conoscenza di assetti normativi che si pongono in urto, oltre che con gli artt. 11 e 117, primo comma, anche con altre parti della Costituzione. Un simile effetto, specie nella materia dei diritti e delle libertà della persona, non appare pienamente conciliabile con il ruolo di custode giudiziario della Costituzione proprio della Corte.
È perciò con soddisfazione che la Corte ha rinvenuto in alcune pronunce della Corte di giustizia (sentenza 11 settembre 2014, in causa C-112/13, A contro B e altri; sentenza 22 giugno 2010, nelle cause riunite C-188/10, Melki, e C-189/10, Abdeli) l’affermazione che il diritto dell’Unione non osta all’uso prioritario della questione di legittimità costituzionale, a condizione che il giudice comune conservi integri i propri poteri di rinvio pregiudiziale, ed eventualmente di non applicazione della legge nazionale che ritenga in contrasto con norme dell’Unione direttamente applicabili.
Così, per i casi, non infrequenti in seguito all’entrata in vigore della carta di Nizza, nei quali esiste una coincidenza tendenziale tra parametro costituzionale e parametro europeo, si è potuto affermare, nel rispetto delle indicazioni provenienti dalla Corte lussemburghese, che al giudice comune è consentito, senza violare il primato del diritto dell’Unione, di esperire in via prioritaria l’incidente di legittimità costituzionale (sentenze n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019), e nel giudizio incidentale di costituzionalità, se necessario, si potrà effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia relativo alla normativa dell’Unione”.
Sinceramente non so – né mi pare rilevante scrutinare – se le due sentenze del 2019 abbiano soltanto confermato – come asserito dalle sentenze stesse – quanto stabilito dalla Corte costituzionale in pronunce precedenti.
Infatti ,pare certo, (quantomeno) all’esito delle pronunce del 2019, che il rapporto tra ordinamenti – eurounitario, appunto, e nazionale – continua ad essere governato dall’assetto – risalente alle remote sentenze Simmenthal e Granital – del quale si erano paventati segni di scostamento
4.Segue: Conformazione del diritto italiano al diritto dell’Unione
4.1.Le norma unionali – dotate di efficacia diretta (ancor più, sia detto per inciso, se ne siano sprovviste) – non comportano, in nessun caso, la rimozione della norma confliggente dell’ordinamento interno degli stati membri –- in adempimento della obbligazione dei paesi membri, appunto, di conformare il proprio ordinamento al diritto unionale (già comunitario) - ma soltanto la disapplicazione (recte: la non applicazione), nel caso concreto, della stessa norma confliggente
Né alla conformazione possono provvedere – come pure è stato anticipato - istituzioni dell’Unione e, in particolare, sentenze della Corte di giustizia, in quanto non interferiscono sugli ordinamenti interni degli stati membri.
La reciproca autonomia dei due ordinamenti – nella configurazione che ne è proposta dalla nostra Corte costituzionale - riserva, infatti, agli stati membri la conformazione del proprio ordinamento interno al diritto dell’Unione.
La loro iniziativa spontanea si coniuga, in tale prospettiva, con la cessazione di efficacia della stessa norma interna confliggente, perché dichiarata costituzionalmente illegittima, in relazione alla emersione – parimenti anticipata - del parametro costituzionale (già implicito, tuttavia, negli articoli 10 e 11 costituzione), che riposa - sulla imposizione esplicita, al legislatore (statale e regionale), del “rispetto (…) dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario” (articolo 117, primo comma, costituzione, come novellato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, cit.) – e risulta integrato - quale fonte interposta, in forza del rinvio libero della stessa norma costituzionale (art.117, primo comma, cit.) - dalla norma del diritto unionale, che risulti nella specie violata, appunto, dalla norma interna confliggente.
Ora la giurisprudenza costituzionale – che risulta investita, in dottrina, da censure per asserita incompatibilità con l’assetto condiviso del rapporto tra diritto unionale e diritto italiano – consiste, appunto, in sentenze di illegittimità costituzionale – per contrasto con norme direttamente efficaci dell’Unione europea – di norme dell’ordinamento italiano.
Coerenti risultano, quindi, le anticipate conclusioni (vedi infra).
4.2.Invero, l’articolo 117, primo comma, della costituzione (nel testo novellato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, cit.) sancisce testualmente:
“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
E la Corte costituzionale - sia pure con riferimento al diritto internazionale convenzionale, investito dalla questione – ha enunciato, conclusivamente (punto 6.2 . della sentenza 349 del 2007, cit.), il seguente principio:
“Con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata "norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione”.
Né il riferimento al diritto internazionale convenzionale - in ossequio al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato – né la ribadita esclusione delle norme internazionali convenzionali dall’ambito di operatività non solo dell’art. 10 della Costituzione, ma anche dell’articolo 11 – sul quale si fonda, invece, il diritto comunitario (ora unionale) – preclude l’applicazione, allo stesso, dell’enunciato principio.
Infatti, risultano parimenti imposti al legislatore (dall’articolo 117, primo comma, cost., cit.), appunto, il “rispetto (…..) dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Coerentemente, non può non essere riferito – ad entrambi gli ordinamenti (comunitario, ora unionale, appunto, ed internazionale convenzionale) – il principio che la Corte costituzionale ricava dalla interpretazione della stessa disposizione (articolo 117, primo comma, cost., cit.) .
Parimenti non può non essere riferita – ad entrami gli ordinamenti – la conclusione, sulla base di detto principio, nei termini testuali seguenti:
“la questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., è fondata”.
Ora riposa, sostanzialmente, sullo stesso principio e perviene - coerentemente – alla medesima conclusione la giurisprudenza, che risulta investita, per quanto si è detto, da censure di incompatibilità con l’assetto condiviso del rapporto tra diritto unionale (già comunitario) ed ordinamento italiano.
4.3.“Fermo restando, infatti, che all’obbligo di applicare le disposizioni dotate di effetti diretti sono soggetti non solo tutti i giudici, ma anche la stessa pubblica amministrazione – si legge in una delle sentenze investite dai prospettati dubbi di compatibilità con l’assetto condiviso del rapporto tra diritto unionale (già comunitario) ed ordinamento italiano – sicché, ove vi sia una normativa interna incompatibile con dette disposizioni essa non deve trovare applicazione”,
Tuttavia – prosegue la stessa sentenza - “la questione di legittimità costituzionale offre la possibilità, ove ne ricorrano i presupposti, di addivenire alla rimozione dall’ordinamento, con l’efficacia vincolante propria delle sentenze di accoglimento, di quelle norme che siano in contrasto con il diritto dell’Unione europea» (sentenza n. 15 del 2024, punto 8.2. del Considerato in diritto)”.
Non si potrebbe sintetizzare meglio l’approdo di quella giurisprudenza.
Palese ne risulta, poi, la coerenza con la lettura del parametro costituzionale dell’articolo 117, primo comma (nel testo novellato ora vigente, cit.), come integrato – quale fonte interposta. In forza del rinvio libero della norma costituzionale – dalla norma unionale (già comunitaria) che risulti violata nel caso concreto.
Né può essere trascurato che la fonte interposta – in forza del rinvio libero di norma costituzionale – resta, immutata, nell’ordinamento di appartenenza e risulta diffusamente applicata – in ipotesi affatto diverse tra loro - dalla giurisprudenza costituzionale.
La raggiunta conclusione sembra, all’evidenza, confermare l’anticipata configurazione della stessa giurisprudenza quale coerente sviluppo, appunto, di quell’assetto condiviso del rapporto tra diritto unionale (già comunitario) ed ordinamento italiano.
4.4.Intanto palesemente coerente - con la sentenza Granital - è l’esplicita salvezza (Fermo restando) che “(….) all’obbligo di applicare le disposizioni dotate di effetti diretti sono soggetti non solo tutti i giudici, ma anche la stessa pubblica amministrazione, sicché ove vi sia una normativa interna incompatibile con dette disposizioni essa non deve trovare applicazione”
Infatti ,la sentenza Granital – come è stato già ricordato - risulta così massimata:
“È inammissibile, in riferimento all'art. 11 cost. e in relazione agli art. 177 e 189 del trattato Cee, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 d.p.r. 22 settembre 1978, n. 695, per la parte in cui non consente di assicurare il rispetto della normativa comunitaria in materia di prelievi agricoli, in quanto nelle materie riservate alla sfera di competenza della comunità il giudice ordinario deve egli stesso provvedere ad assicurare la piena e continua osservanza delle norme comunitarie direttamente applicabili (nella specie: i regolamenti), senza tener conto delle leggi nazionali, anteriori o successive, eventualmente confliggenti e senza quindi che sia necessario rivolgersi alla corte costituzionale per far dichiarare l'illegittimità costituzionale di tali leggi”.
Affatto diversa è la funzione assolta dalla possibilità offerta dalla questione di legittimità costituzionale – contestualmente evidenziata dalla sentenza – “di addivenire alla rimozione dall’ordinamento, con l’efficacia vincolante propria delle sentenze di accoglimento, di quelle norme che siano in contrasto con il diritto dell’Unione europea” .
Ne risulta, infatti, affrontato e risolto il problema diverso, che – come è stato anticipato – viene denunciato, dalla Corte di giustizia (sin dalla remota sentenza 15 ottobre1986, in causa C- 168/85 ), nei termini testuali seguenti:
“La facoltà degli amministrati di far valere dinanzi ai giudici nazionali disposizioni del trattato direttamente applicabili costituisce solo una garanzia minima e non è di per sé sufficiente ad assicurare la piena applicazione del trattato stesso; mantenere immutata, nella legislazione di uno stato membro, una disposizione interna incompatibile con una norma del trattato direttamente applicabile, crea una situazione di fatto ambigua in quanto mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità di fare appello al diritto comunitario e costituisce quindi una trasgressione degli obblighi imposti dal trattato”.
Agevole risulta, quindi, la conclusione.
Lungi dal risultare incompatibile – con l’assetto condiviso del rapporto tra diritto unionale (già comunitario) e ordinamento italiano – la giurisprudenza costituzionale – investita, in dottrina, da censure di incompatibilità con lo stesso assetto - ne costituisce, invece, coerente evoluzione, agevolata dalla emersione del nuovo parametro costituzionale ricordato.
4.5.Né tale conclusione pare scalfita dai rilievi della dottrina che, per quanto si è detto, ritiene incompatibile - con l’assetto condiviso del rapporto tra i due ordinamenti (unionale, appunto, ed italiano) – la giurisprudenza costituzionale - che dichiara l’illegittimità costituzionale, in relazione all’articolo 117, primo comma, della costituzione (nel testo novellato ora vigente, cit,) di norme dell’ordinamento italiano, perché in contrasto con norme, dotate di efficacia diretta, del diritto dell’Unione europea - in base, essenzialmente, al rilievo che le norme direttamente efficaci del diritto dell’Unione si applicano in luogo delle norme confliggenti degli ordinamenti interni degli stati membri.
Palesemente precluse - dalla sentenza Granital – risultano, infatti, le questioni di legittimità costituzionale. In relazione all’articolo 11 della costituzione, di norme interne confliggenti con norme comunitarie (ora unionali) dotate di efficacia diretta.
Palesemente ammissibili sono, invece, le diverse questioni di legittimità costituzionale – parimenti di norme interne confliggenti con norme comunitarie (ora unionali) dotate di efficacia diretta – sollevate, in relazione all’articolo 117, primo comma (nel testo novellato ora vigente, cit.). dalla nostra giurisprudenza costituzionale, che risulta investita – all’evidenza, infondatamente – dalle censure di incompatibilità con l’asseto condiviso del rapporto tra il diritto unionale (già comunitario) e l’ordinamento italiano .
Tanto basta per confermate la conclusione anticipata.
Tuttavia, non pare neanche scalfita da altri rilievi della dottrina,
4.6.Intanto l’asserito “tentativo della Corte costituzionale di posizionarsi in un sistema complesso di rapporti tra Corti e Carte” sembra supporre la configurazione dei due ordinamenti accolta dalla Corte di giustizia – come sistema complesso, appunto – affatto diversa da quella – di ordinamenti distinti e reciprocamente coordinati – invece accolta dalla nostra Corte costituzionale, senza che la diversa posizione delle due Corti – come pure si è detto – produca ricadute sul piano giuridico.
Tuttavia. la reciproca autonomia risulta, all’evidenza, coerente con la prospettata ripartizione di competenza – tra l’Unione e ciascun paese membro – nell’incidere ciascuno sul proprio ordinamento, realizzandone il reciproco coordinamento, che consiste – essenzialmente - nella primazia del diritto unionale.
Peraltro, il rilievo - che “solo il riferimento all’art. 11 della Costituzione (…..) consente di accedere (….) alla giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, che (……) estende il primato anche alle norme costituzionali interne” – sembra trascurare che anche l’articolo 117, primo comma, della costituzione – in coerenza con l’articolo 11, nel quale è implicito - estende il primato anche alle norme costituzionali interne.
Esula, pertanto, la paventata “assenza della base solida offerta dall’art. 11 Cost. alle limitazioni di sovranità”, come l’asserita “assiologica e sistematica preferenza del sistema costituzionale interno rispetto all’osservanza dei vincoli europei, allontanandosi quindi in maniera netta dalla giurisprudenza europea”.
Mentre risulta espressamente fatto salvo il ruolo del giudice comune – nel dare applicazione alle norme unionali dotate di efficacia diretta, anche in luogo di eventuali norme interne confliggenti – scongiurando il paventato rischio di marginalizzazione di quello – che resta – il “primo baluardo del funzionamento di un sistema che si regge sulla piena e contestuale applicazione delle norme europee in tutti gli Stati membri”.
.
.