TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

testo della sentenza cgue 11-9-2025 nella causa c-524

1.- Le questioni proposte.
Il Tribunale di Ravenna – chiamato a pronunciarsi in merito alla impugnazione del licenziamento di una lavoratrice disabile per superamento del periodo di comporto di 180 giorni di assenza per malattia per anno civile, previsto dalla normativa nazionale applicabile per tutti i lavoratori, anche non disabili, senza considerare lo stato di disabilità della ricorrente – ha proposto alla CGUE, in sede di rinvio pregiudiziale, cinque questioni interpretative:
1) se la direttiva 2000/78 sia di ostacolo ad una normativa nazionale che, prevedendo il diritto alla conservazione del posto di lavoro in caso di malattia per 180 giorni retribuiti, nel periodo dal 1.1 al 31.12 di ciascun anno, oltre ad ulteriori 120 giorni di aspettativa non retribuita (fruibili questi 1 sola volta) su richiesta del lavoratore, non contenga una disciplina differente tra lavoratori qualificabili come disabili e lavoratori che non lo sono;
2) laddove la normativa nazionale descritta in motivazione dovesse essere considerata astrattamente integrante una discriminazione indiretta, se la normativa stessa sia comunque oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari;
3) se un accomodamento ragionevole idoneo e sufficiente ad evitare la discriminazione possa essere rappresentato dalla previsione di un’aspettativa non retribuita, a richiesta del lavoratore, successiva allo scadere dei 120 giorni di malattia ed idonea ad impedire il licenziamento sino alla sua scadenza;
4) se possa ritenersi ragionevole un accomodamento consistente nel dovere del datore di lavoro di concedere alla scadenza del periodo di 180 giorni di malattia retribuita un ulteriore periodo retribuito integralmente a suo carico, senza ottenere una controprestazione lavorativa;
5) se, al fine di valutare il comportamento discriminatorio del datore di lavoro, possa considerarsi (per stabilire la legittimità o meno del licenziamento) la circostanza che anche [un eventuale] ulteriore periodo di stabilità del rapporto retribuita a carico del datore di lavoro non avrebbe consentito il rientro al lavoro del disabile, permanendo il suo stato di malattia.
2.- Irricevibilità della quarta e della quinta questione.
La Corte ha dichiarato irricevibili la quarta e la quinta questione concernenti la possibile interpretazione dell’art. 5 della direttiva 2000/78 (che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) nel senso che un periodo supplementare di aspettativa retribuita, che sia integralmente a carico del datore di lavoro e che si aggiunge ai periodi di conservazione del posto di lavoro previsti dal diritto nazionale, possa essere considerato una «soluzione ragionevole», ai sensi di tale articolo.
La Corte ha rilevato che, nella specie, dalle indicazioni del giudice del rinvio risultava, da un lato, che il datore di lavoro non aveva proposto alla ricorrente nel procedimento principale di beneficiare di un siffatto periodo supplementare di assenza retribuita avendola licenziata immediatamente al termine del periodo di 180 giorni di cui a tale art. 173 del CCNL applicabile. D’altra parte, neppure risultava che la ricorrente nel procedimento principale aveva chiesto un siffatto periodo di assenza supplementare retribuita.
Infatti, lo stesso giudice del rinvio ha riconosciuto che tale possibilità era meramente teorica.
Di conseguenza, la quarta e la quinta questione sono considerate ipotetiche e quindi irrilevanti ai fini della soluzione della controversia principale.
Al riguardo viene ricordato che, secondo una giurisprudenza costante, la Corte può rifiutarsi di statuire su una questione sollevata da un giudice nazionale che riguardi un problema di natura ipotetica. Infatti, la ragion d’essere del rinvio pregiudiziale non consiste nella formulazione di pareri a carattere consultivo su questioni generali o ipotetiche, bensì nella necessità di dirimere concretamente una controversia (v., in tal senso, sentenze del 17 ottobre 2024, Karl und Georg Anwander Güterverwaltung, C 239/23, punto 82, nonché del 3 aprile 2025, Swiftair, C 701/23, punto 21 e giurisprudenza citata).

3.- Esame congiunto delle prime due questioni.
Alle prime due questioni la CGUE risponde nel senso che:
l’articolo 2, paragrafo 2, e l’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che conferisce a un lavoratore assente per malattia un diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo retribuito e rinnovabile di 180 giorni per anno civile, al quale può aggiungersi, in taluni casi e su richiesta di tale lavoratore, un periodo non retribuito e non rinnovabile di 120 giorni, senza istituire un regime specifico per i lavoratori disabili, a condizione che il giudice del rinvio accerti che:
– tale normativa nazionale non ecceda quanto necessario per conseguire la finalità di politica sociale consistente nell’assicurarsi della capacità e della disponibilità del lavoratore ad esercitare la sua attività professionale
– detta normativa nazionale non costituisca un ostacolo al pieno rispetto dei requisiti previsti da tale articolo 5.
Nella articolata motivazione la Corte, in primo luogo, ricorda che ai sensi della direttiva 2000/78, la nozione di «handicap» deve essere intesa come concernente una limitazione della capacità, risultante, in particolare, da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (v., in tal senso, sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, punto 34 e giurisprudenza citata).
Peraltro, la Corte specifica, se una persona sia riconosciuta come persona disabile, ai sensi del diritto nazionale, questo non comporta a priori che essa sia affetta da un handicap ai sensi della direttiva 2000/78 (v., in tal senso, sentenza del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, punto 32). L’elemento che ha rilievo determinante per l’handicap è il carattere duraturo della limitazione dello stato di incapacità, in quanto tale, dell’interessato allorché è stato adottato l’atto asseritamente discriminatorio nei confronti di quest’ultimo. Tra gli indizi che consentono di considerare duratura una limitazione della capacità figura in particolare la circostanza che, all’epoca del fatto asseritamente discriminatorio, l’incapacità dell’interessato non presentava una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o il fatto che tale incapacità poteva protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona (v., in tal senso, sentenza dell’11 settembre 2019, Nobel Plastiques Ibérica, C-397/18, punti 44 e 45).
Le disposizioni della Convenzione dell’ONU sui diritti delle persone con disabilità possono essere invocate al fine di interpretare quelle della direttiva 2000/78, di modo che quest’ultima deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’interpretazione conforme a tale Convenzione (sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, punto 41 e giurisprudenza citata).
Detto questo, in base all’art. 3, paragrafo 1, lettera c), di detta direttiva, essa si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene, in particolare, alle condizioni di licenziamento. E, secondo la giurisprudenza, la nozione di «licenziamento» si riferisce, in particolare, alla cessazione unilaterale di qualsiasi attività menzionata all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della medesima direttiva. Tale nozione dev’essere interpretata pertanto nel senso che essa comprende qualsiasi cessazione del contratto di lavoro non voluta dal lavoratore e, quindi, senza il suo consenso (sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, punti 35 e 36 nonché giurisprudenza citata).
Nela specie, quindi, la situazione di cui trattasi nel procedimento principale può rientrare nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78.
Le prime due questioni fanno riferimento al principio generale di non discriminazione affermato dalla direttiva 2000/78, nel settore da essa disciplinato, e sancito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), che vieta qualsiasi discriminazione fondata, in particolare, su una disabilità. Inoltre, ai sensi dell’art. 26 della Carta, l’Unione europea riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, punto 40 e giurisprudenza citata).
Il lavoratore disabile che rientri nella tutela offerta dalla suddetta direttiva deve essere protetto contro ogni discriminazione, diretta o indiretta, rispetto ad un lavoratore non disabile.
Va escluso che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale per il fatto di applicarsi allo stesso modo a tutti i lavoratori, indipendentemente dal fatto che siano o meno disabili, determini una discriminazione diretta basata sulla disabilità, ai sensi del combinato disposto degli articoli 1 e 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78.
Però, nel caso di specie, sembra che un lavoratore disabile sia, in linea di principio, più esposto al rischio di vedersi applicare l’art. 173 del CCNL dipendenti aziende settore turismo Confcommercio del 20 febbraio 2010 (che fissa in 180 giorni il periodo di comporto) rispetto a un lavoratore non disabile. Infatti, rispetto a quest’ultimo, un lavoratore disabile è esposto a un rischio più elevato di essere assente per problemi di salute, a causa della sua disabilità o di una malattia connessa alla sua disabilità. Pertanto, tale lavoratore corre un rischio maggiore di accumulare giorni di assenza per malattia e, quindi, di raggiungere il limite dei 180 giorni retribuiti contemplato da tale articolo. Risulta quindi che la regola prevista dal suddetto articolo è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, dunque, a comportare una differenza di trattamento indirettamente basata sull’handicap ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 (v., per analogia, sentenza del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C 270/16, punto 39).
Tuttavia, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 49 delle sue conclusioni, dal considerando 17 della direttiva 2000/78 risulta che quest’ultima non prescrive il mantenimento dell’occupazione di un individuo non più capace o non più disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando, tuttavia, l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili.
In tale contesto, assicurarsi della capacità e della disponibilità dei lavoratori ad esercitare la loro attività professionale può costituire una finalità legittima di politica sociale.
Gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire una determinata finalità in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarla (sentenze del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C-143/16, punto 31, nonché del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, punto 43 e giurisprudenza citata).
Pertanto, ove si riscontri una differenza di trattamento tra i lavoratori disabili e i lavoratori non disabili (come può risultare dalla normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale) si deve stabilire se sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima, se i mezzi attuati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e se essi non eccedano quanto necessario per conseguirla (sentenza del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, punto 40).
Nella specie la normativa nazionale autorizza il datore di lavoro a porre fine ad un rapporto di lavoro divenuto non redditizio, tutelando al contempo i lavoratori assenti per malattia, compresi quelli in situazione di disabilità, mantenendoli nel posto di lavoro per un periodo massimo di 180 giorni all’anno, al quale può aggiungersi, in taluni casi e su richiesta del lavoratore, un periodo, certamente non retribuito e non rinnovabile, di 120 giorni.
Si tratta, quindi, di una normativa che sembra, a tale titolo, essere appropriata al fine di conseguire la finalità legittima.
Quanto al carattere necessario di una siffatta normativa, occorre ricollocarla nel contesto in cui essa si inserisce e prendere in considerazione il danno che essa può causare alle persone interessate. Pertanto, spetta al giudice nazionale esaminare se si sia tenuto conto di elementi rilevanti che riguardano, in particolare, i lavoratori disabili (v., in tal senso, sentenza del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, punti 49 e 50). Ma, nella specie, è lo stesso giudice del rinvio che riferisce che la disciplina in discussione è stata concepita, fin dall’inizio, per tutelare i lavoratori, in particolare, contro le assenze dovute a una disabilità.
In base all’art. 2, paragrafo 2, lettera b), ii), della direttiva 2000/78, occorre anche esaminare se la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale obblighi il datore di lavoro interessato ad attuare soluzioni ragionevoli, ai sensi dell’art. 5 di tale direttiva.
Peraltro, in base all’art. 5 della direttiva, il datore di lavoro non può porre fine al contratto di lavoro a motivo dell’inidoneità permanente del lavoratore a svolgere i compiti a lui incombenti in forza di tale contratto, causata dal sopravvenire, nel corso del rapporto di lavoro, di una disabilità, senza avere prima provveduto a prevedere o mantenere soluzioni ragionevoli al fine di consentire al lavoratore di conservare il suo posto di lavoro, né dimostrare, eventualmente, che siffatte soluzioni costituirebbero un onere sproporzionato (sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, punto 53).
Nella specie la normativa nazionale non prevede espressamente per il datore di lavoro l’obbligo di attuare soluzioni ragionevoli prima di procedere al licenziamento di un lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto.
È vero che il datore di lavoro non può, in linea di principio, essere a conoscenza del motivo dell’assenza prolungata del lavoratore e non può quindi, in linea di principio, essere a conoscenza dell’esistenza della sua disabilità, a meno che il lavoratore non lo abbia informato di propria iniziativa. Ma risulta che, nella specie, la lavoratrice abbia informato il datore di lavoro dell’esistenza della sua disabilità alla scadenza del periodo di 180 giorni previsto all’articolo 173 del CCNL.
Eppure, in base alla disciplina nazionale, il datore di lavoro era autorizzato a procedere al licenziamento, senza essere obbligato a mettere in atto soluzioni ragionevoli o a dimostrare che queste ultime costituirebbero per lui un onere sproporzionato.
Questo può pregiudicare l’effetto utile dell’art. 5 della direttiva 2000/78, letto alla luce dell’art. 27, paragrafo 1, della Convenzione dell’ONU, ai sensi del quale occorre garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro anche a coloro i quali hanno acquisito una disabilità durante l’impiego, nonché il mantenimento nel posto di lavoro. Inoltre, tale situazione pregiudicherebbe l’obiettivo di inserimento professionale delle persone con disabilità, enunciato all’articolo 26 della Carta (v., per analogia, sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, punto 50).
Spetta al giudice del rinvio valutare se ciò si verifichi alla luce di tutte le disposizioni nazionali pertinenti, comprese quelle che recepiscono l’art. 5 della direttiva 2000/78.
4.- La terza questione.
La Corte risolve la terza questione affermando che l’art. 5 della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una disposizione nazionale che prevede, a favore di un lavoratore assente per malattia, ma indipendentemente dalla sua eventuale disabilità, un periodo non retribuito di conservazione del posto di lavoro di 120 giorni, che si aggiunge a un periodo retribuito di conservazione del posto di lavoro di 180 giorni, non costituisce una «soluzione ragionevole», ai sensi di tale articolo.
A tale conclusione si perviene osservandosi che l’art. 174 del CCNL cit. è parte integrante della normativa nazionale in oggetto e conferisce un diritto ai lavoratori assenti per malattia, senza prendere in considerazione una loro eventuale disabilità.
Tale articolo non costituisce quindi un provvedimento adottato da un datore di lavoro a favore di una persona disabile e, alla luce della formulazione dell’art. 5 di tale direttiva, non può quindi costituire una «soluzione ragionevole», ai sensi di tale articolo.
5.-Una sentenza originale.
La sentenza in commento contiene alcune statuizioni interessanti che si inseriscono nella nutrita giurisprudenza della CGUE in materia di tutela dei lavoratori in particolare in caso di licenziamento, non sempre in senso conforme.
In primo luogo, la Corte ha ribadito il proprio orientamento secondo cui lo stato di malattia va distinto da quello di disabilità.
Per il primo si deve fare riferimento alla definizione di salute adottata nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948) – recepita nell’art. 2, comma 1, lettera o) del TU in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 ‒ come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”, non “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”. Del resto, a questa definizione fa riferimento anche la Corte di cassazione e per l’applicazione dell’art. 2087 cod. civ., norma di chiusura del sistema antinfortunistico, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro (vedi, per tutte: Cass. Sez. lav. 7 giugno 2024, n. 15957) e la normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, dalle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU).
Quanto alla nozione di disabilità la Corte afferma che si deve fare riferimento alla direttiva cit., da interpretare però in conformità con la Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità.
Poi, però, richiama la nozione di «handicap» − che considera contenuta nella direttiva (mentre nella sentenza dell’11 aprile 2013 cause riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark la Corte ha escluso che la direttiva contenga tale nozione e questo trova conferma nel testo della direttiva) – e afferma che tale nozione è da intendere come concernente una limitazione della capacità, risultante, in particolare, da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (in tal senso, sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, punto 34 e giurisprudenza citata).
E aggiunge che una persona riconosciuta come persona disabile, ai sensi del diritto nazionale, non necessariamente può considerarsi affetta a priori da un handicap ai sensi della direttiva 2000/78. Al riguardo si cita la sentenza del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, C-270/16, punto 32 ove però si afferma una cosa diversa e cioè che se una persona è riconosciuta come persona disabile secondo il diritto nazionale, questo “non comporta a priori che egli sia affetto da una disabilità ai sensi la direttiva 2000/78” quindi si fa una precisazione attinente alle fonti della definizione di disabilità senza alcun richiamo alla nozione di handicap.
In questo modo la tutela dalle discriminazioni viene riconosciuta solo ai portatori di handicap e non ai “semplici disabili” ma questa distinzione – nei fatti non facile per la scienza medica – non ha alcun riscontro nella direttiva ove i due termini sono usati in modo promiscuo come, ad esempio, risulta dal considerando n. 16 ove di afferma che: “la messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull’handicap”. E manca una definizione di handicap, proprio perché si tratta di una nozione priva di autonomia nell’ambito della direttiva.
Inoltre, la suindicata distinzione non si rinviene neppure nella citata Convenzione ONU ove, nell’art. 1, comma 2, si stabilisce che: “per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”.
Questa inedita distinzione non risulta conforme neanche alla precedente giurisprudenza della CGUE, ove a partire dalla sentenza dell’11 aprile 2013 HK Danmark (cause riunite C-335/11 e C-337/11) si è precisato che: “la nozione di «handicap» non è definita dalla direttiva 2000/78 stessa. Per tale motivo la Corte, al punto 43 della sentenza Chacón Navas, C‑13/05, dell’11 luglio 2006, ha dichiarato che la nozione in discorso va intesa come una limitazione che deriva, in particolare, da menomazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale”.
E nella medesima sentenza Chacón Navas (punto 44) è stato sottolineato che deve essere è esclusa un’assimilazione pura e semplice della nozione di «handicap» a quella di «malattia», non a quella di disabilità (v., in tal senso, anche sentenza HK Danmark cit., punto 75 nonché sentenza Ruiz Conejero, C-270/16, 18 gennaio 2018, punto 38), aggiungendosi che una simile assimilazione può derivare – con conseguente discriminazione indiretta per disabilità – dal computo dei giorni di assenza dovuti a una patologia collegata alla disabilità indistintamente nel calcolo dei giorni di assenza per malattia.
Sulla base di tale ultima statuizione la Corte di cassazione in plurime pronunce – vedi, per tutte: Cass. Sez lav. n. 9095 del 2023 e n. 24052 del 2024 – ha affermato il principio secondo cui in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio. Pertanto, per il periodo di comporto, nei confronti dei disabili le assenze per malattia vanno distinte dalle assenze per patologie correlate alla disabilità.
La CGUE non ha preso in considerazione tale giurisprudenza (che era stata richiamata dal giudice del rinvio) che invece può essere utile sia per la determinazione del superamento del periodo di comporto sia per la sostanziale assimilazione delle nozioni di handicap/disabilità (quale adottata dalla Corte di cassazione) con la precisazione che le direttive UE antidiscriminatorie vanno interpretate alla luce della Convenzione ONU cit., come più volte ribadito dalla CGUE (vedi sentenze 4 luglio 2013, C- 312/2011 Commissione c. Italia (punti 56-57) e 18 dicembre 2014, C- 354/13, FOA, punti 53- 56).
Questo vuol dire, ha precisato la CGUE in precedenti sentenze, che nella nozione di handicap, non fornita dalla direttiva 2000/78, deve essere inclusa ogni limitazione “risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche” che ostacola “la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori” e che gli Stati devono adottare normative in grado di garantire questo risultato.
La sentenza HK Danmark (che è stata seguita da altre sentenze conformi: vedi per tutte le sentenze dell’11 settembre 2019, Nobel Plastiques Ibérica, C 397/18, punto 41; 10 febbraio 2022, XXXX, C 485/20). viene citata nella presente sentenza ma per affermare che, ai fini della distinzione tra handicap e disabilità, quello che conta è che vi sia uno stato di incapacità duraturo riscontrabile all’epoca del fatto asseritamente discriminatorio.
Ma in realtà questa condizione (durevole incapacità) deve essere sempre presente e nelle precedenti sentenze è stata esclusa l’assimilabilità della nozione di handicap a quella di malattia non a quella di disabilità.
Pertanto, il carattere duraturo della incapacità non può valere a introdurre distinzioni nella categoria della disabilità perché è evidente che se il lavoratore si trova in uno stato di disabilità conforme alla definizione contenuta nella Convenzione ONU il suo stato di incapacità, in tutto o in parte, non può che essere duraturo.
Inoltre, la suindicata distinzione (tra handicap e disabilità) crea incertezze applicative e non ha riscontro nella direttiva che, come si è detto, non contiene una determinazione della nozione di handicap (come si evince dal suo testo e come affermato nella sentenza HK Danmark). Peraltro, nella specie, risulta anche irrilevante, visto che la lavoratrice, pur essendo stata definita disabile e non portatrice di handicap, per la Corte rientra senz’altro nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78.
Va anche aggiunto che nella recente sentenza 11 settembre 2025, Bervidi, C-38/24, nella quale la CGUE ha esaminato le questioni proposte, in sede di rinvio pregiudiziale, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 1788 del 2024, sulla tutela dei caregiver, ed è giunta alla conclusione del riconoscimento del diritto ad “accomodamenti ragionevoli” del proprio rapporto di lavoro (sia pure nel limite di oneri proporzionati) non soltanto al disabile, ma anche a chi gli presta assistenza, onde evitare una discriminazione indiretta.
Ebbene, nella articolata motivazione di questa sentenza non vi è alcuna distinzione tra la nozione di handicap e quella di disabilità.
Anzi (punto 46) si ribadisce che la UE ha approvato la Convenzione dell’ONU sui diritti dei disabili, “le cui disposizioni costituiscono pertanto parte integrante, a partire dall’entrata in vigore di tale convenzione, dell’ordinamento giuridico dell’Unione. Ne consegue che tali disposizioni possono, al pari di quelle della Carta, essere invocate al fine di interpretare quelle della direttiva 2000/78 e che quest’ultima deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’interpretazione conforme a tale convenzione” (v., in tal senso, sentenze dell’11 aprile 2013, HK Danmark, cit., punti da 30 a 32, nonché del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, cit., punto 41).
Si precisa, inoltre, (punto 45) che tale direttiva “concretizza, nel settore da essa disciplinato, il principio generale di non discriminazione sancito all’articolo 21 della Carta, che vieta qualsiasi discriminazione fondata, in particolare, sulla disabilità” (v., in tal senso, sentenza del 21 ottobre 2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia, C 824/19, punto 32 e giurisprudenza citata).
Né va omesso di considerare che, dal punto di vista concettuale, anche per la normativa interna esaminare la questioni riguardanti la salute dei lavoratori facendo soltanto riferimento alle due categorie (ampie) di stato di malattia (come definito da OMS) e stato di disabilità (come definito falla Convenzione ONU) − senza richiamare altre alle nozioni come handicap etc.− può contribuire in modo significativo alla chiarezza e quindi alla fruibilità della relativa disciplina.
E anche questo si può considerare un obiettivo della Convenzione ONU che non ha introdotto nuovi diritti, ma si è prefissa “lo scopo di promuovere, proteggere e assicurare alle persone con disabilità il pieno ed eguale godimento del diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro, ad una vita indipendente, alla mobilità, alla libertà di espressione e in generale alla partecipazione alla vita politica e sociale”.
Per quanto riguarda la discriminazione, la Corte in primo luogo esclude la configurabilità di una discriminazione diretta basata sulla disabilità in quanto la normativa nazionale in oggetto si applica allo stesso modo a tutti i lavoratori indipendentemente dal fatto che siano o meno disabili.
Quanto alla discriminazione indiretta la CGUE ricorda che, in base all’art. 5 della direttiva, il datore di lavoro deve trovare soluzioni ragionevoli e non eccessivamente onerose per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili.
Quindi – con alcune incertezze: cioè dopo aver ritenuto che dovesse essere il giudice del rinvio a valutare se l’art. 173 del CCNL cit. possa comportare uno svantaggio particolare a danno dei lavoratori disabili – la Corte afferma che la definizione del comporto contenuta nell’art.173 del CCNL cit. è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, dunque, a comportare una differenza di trattamento indirettamente basata sull’handicap ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 (v., per analogia, sentenza del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, punto 39)., visto un lavoratore disabile è esposto a un rischio più elevato di essere assente dal lavoro per problemi di salute, a causa della sua disabilità o di una malattia connessa alla sua disabilità. Pertanto, tale lavoratore corre un rischio maggiore di accumulare giorni di assenza per malattia e, quindi, di raggiungere il limite dei 180 giorni retribuiti contemplato da tale articolo.
Peraltro, in questa materia gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nelle scelte degli obiettivi da perseguire in materia di politica sociale e di occupazione, ma anche nella definizione delle misure atte a realizzarle (sentenze del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C-143/16, punto 31, nonché del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, già richiamata, punto 43 e giurisprudenza citata).
Nella specie, come ha sostanzialmente rilevato l’avvocato generale al paragrafo 49 delle sue conclusioni, dal considerando 17 della direttiva 2000/78 risulta che quest’ultima non prescrive il mantenimento dell’occupazione di un individuo non più capace o non più disponibile ad effettuare le funzioni del lavoro in questione, fermo restando, tuttavia, l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili.
In tale contesto, assicurarsi della capacità e della disponibilità dei lavoratori ad esercitare la loro attività professionale può costituire una finalità legittima di politica sociale, sempre che mezzi previsti dalla normativa nazionale per il conseguimento di tale finalità siano adeguati e non eccedano quanto necessario per conseguirla.
La Corte ritiene la normativa nazionale in oggetto appropriata al fine di conseguire la finalità legittima di cui si è detto, visto che essa autorizza il datore di lavoro a porre fine ad un rapporto di lavoro divenuto non redditizio, tutelando al contempo i lavoratori assenti per malattia, compresi quelli in situazione di disabilità, mantenendoli nel posto di lavoro per un periodo massimo di 180 giorni all’anno, al quale può aggiungersi, in taluni casi e su richiesta del lavoratore, un periodo, certamente non retribuito e non rinnovabile, di 120 giorni.
Spetta al giudice del rinvio verificare se i mezzi attuati dalla normativa nazionale in materia non eccedano quanto necessario per conseguire la finalità legittima suindicata, tenendo conto, in particolare, del contesto in cui tale normativa si inserisce e delle disposizioni specifiche dirette a tutelare le persone disabili (v., in tal senso, sentenza del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, punti 49 e 50), accertando anche se l’ordinamento giuridico nazionale contenga disposizioni specifiche dirette a tutelare le persone disabili idonee a impedire e a compensare gli svantaggi derivanti dalla disabilità, compresa l’eventuale insorgenza di malattie legate alla disabilità (v., in tal senso, sentenza del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, punto 55).
Al riguardo va considerato che, in base all’art. 3, paragrafo 1, lettera c), della direttiva in oggetto, essa si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene, in particolare, alle condizioni di licenziamento. E, secondo la giurisprudenza della CGUE, la nozione di «licenziamento» si riferisce, in particolare, alla cessazione unilaterale di qualsiasi attività menzionata all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della medesima direttiva. Tale nozione dev’essere interpretata pertanto nel senso che essa comprende qualsiasi cessazione del contratto di lavoro non voluta dal lavoratore e, quindi, senza il suo consenso (sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, richiamata sopra, punti 35 e 36 nonché giurisprudenza citata).
Collocare la disciplina nel contesto in cui si inserisce e tra le disposizioni specifiche dirette a tutelare le persone disabili significa valutarne il carattere necessario tenendo conto del danno che essa può causare alle persone interessate, senza ignorare, in particolare, il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro ed hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione (v., in tal senso, sentenza del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, punto 51).
Il giudice del rinvio deve valutare anche, alla luce di tutte le disposizioni nazionali pertinenti, comprese quelle che recepiscono l’art. 5 della direttiva 2000/78, se in base alla disciplina nazionale il datore di lavoro è autorizzato a procedere al licenziamento, senza essere obbligato a mettere in atto soluzioni ragionevoli o a dimostrare che queste ultime costituirebbero per lui un onere sproporzionato.
Infatti, come si è detto, dell’art. 2, paragrafo 2, lettera b), ii), della direttiva 2000/78, stabilisce che il datore di lavoro è obbligato ad attuare soluzioni ragionevoli, ai sensi dell’art. 5 di tale direttiva.
Dal suddetto art. 5, letto alla luce dei considerando 20 e 21della direttiva, risulta che il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti appropriati, vale a dire provvedimenti efficaci e pratici, tenendo conto di ciascuna situazione individuale, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato (vedi sempre sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, punto 43 e giurisprudenza citata).
Ovviamente, come rilevato dal giudice del rinvio, il datore di lavoro non può, in linea di principio, essere a conoscenza del motivo dell’assenza prolungata del lavoratore e non può quindi, in linea di principio, essere a conoscenza dell’esistenza della sua disabilità, se il lavoratore non lo abbia informato di propria iniziativa.
Nella specie la lavoratrice ha preso l’iniziativa di informare il datore di lavoro dell’esistenza della sua disabilità alla scadenza del periodo di 180 giorni previsto all’art. 173 del CCNL.
Tanto basta per escludere che il datore di lavoro fosse autorizzato a procedere al licenziamento, senza essere obbligato a mettere in atto soluzioni ragionevoli o a dimostrare che queste ultime avrebbero costituito per lui un onere sproporzionato.
Se invece tale obbligo fosse escluso dalla disciplina nazionale una situazione siffatta sarebbe tale da pregiudicare l’effetto utile dell’art. 5 della direttiva 2000/78, letto alla luce dell’articolo 27, paragrafo 1, della Convenzione dell’ONU, ai sensi del quale occorre garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro anche a coloro i quali hanno acquisito una disabilità durante l’impiego, nonché il mantenimento nel posto di lavoro. Inoltre, tale situazione pregiudicherebbe l’obiettivo di inserimento professionale delle persone con disabilità, enunciato all’articolo 26 della Carta UE (v., per analogia, sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C-631/22, punto 50).
Lo stesso art. 5 riguarda espressamente i provvedimenti, adottati dal datore di lavoro, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione.
Nella specie non può considerarsi tale la concessione, su domanda del lavoratore, di un periodo non retribuito di conservazione del posto di lavoro di 120 giorni, che si aggiunge a un periodo retribuito di conservazione del posto di lavoro di 180 giorni, prevista dall’art. 174 del CCNL cit.
Si tratta, infatti, di un istituto previsto in favore dei lavoratori assenti per malattia, senza prendere in considerazione una loro eventuale disabilità.
Esso, pertanto, non può costituire una «soluzione ragionevole», ai sensi dell’art. 5 cit. che si riferisce solo ai disabili.
In sintesi, la CGUE ritiene irrilevante che la normativa nazionale esaminata (art. 173 CCNL Turismo) disciplini il comporto senza istituire un regime specifico per i lavoratori disabili, a condizione che il giudice del rinvio accerti che: a) tale normativa nazionale non ecceda quanto necessario per conseguire la finalità di politica sociale consistente nell’assicurarsi della capacità e della disponibilità del lavoratore ad esercitare la sua attività professionale; b) detta normativa nazionale non costituisca un ostacolo al pieno rispetto dei requisiti previsti dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE.
La Corte esclude che la concessione su domanda del lavoratore del periodo supplementare d 120 giorni di assenza (che si aggiunge a quello di 180 giorni) possa essere configurata come una «soluzione ragionevole» perché non si applica solo ai disabili. Anche se questo vale per tutta la normativa esaminata.
In conclusione: la sentenza in commento ha una sua originalità.

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