Testo integrale con note e bibliografia

Secondo un noto luogo comune, in Italia si vive di calcio, tanto che, come rilevato da Giuseppe Marotta, “all’edicola, al bar, alla fermata dell’autobus c’è sempre qualcuno pienamente informato su quello che accade sul campo e nello spogliatoio, in grado di valutare e analizzare in dettaglio qualsiasi scelta della società sportiva” .
Che però, fuor di metafora, si possa vivere di calcio in senso stretto, trovando nel “passatempo nazionale” la propria fonte di sostentamento, non parrebbe altrettanto universalmente condiviso ed ammesso. Se si pensa che i calciatori oggetto di critiche da parte della tifoseria organizzata vengano provocatoriamente esortati ad “andare a lavorare” , se ne potrebbe ricavare che, agli occhi di una parte degli osservatori, il calcio sia rimasto un – meraviglioso ed aggregante – gioco, governato unicamente da regole tecniche e di fair play (le quali rientrano oggi nell’orbita della “giustizia sportiva”, oggetto dell’approfondimento di Alberto Clini e Stefano Filucchi ), e non un lavoro a tutti gli effetti, come ormai da tempo riconosciuto – ma per i soli “professionisti”: v. infra – nel diritto positivo ed in particolare dalla l. 91/1981 .
Su quanto poc’anzi osservato non dovrebbe del resto incidere il grado di realizzazione e di soddisfazione economica del lavoro in questione , la quale peraltro presenta un’elevata variabilità anche tra gli stessi calciatori della massima divisione.
Non essendo, in ogni caso, il diritto del lavoro una lex pauperorum, come dimostrato, inter alia, dalla pacifica estensione delle relative regole – con gli opportuni adeguamenti – ad un contraente forte e, se vogliamo, “ricco” come il dirigente d’azienda , non vi sarebbero comunque ragioni per escludere dall’accesso alle tutele lavoristiche chi presti un’attività remunerata e professionale a favore di una società di calcio, sulla scorta del (presunto) privilegio derivante dallo svolgimento di un’attività (potenzialmente) assai lucrativa e dalla matrice, quanto meno in origine, ludico/ricreativa.
Del resto, anche guardando all’altra metà del cielo (ossia alla figura datoriale), si nota come le stesse Società calcistiche siano venute nel tempo ad assumere, anche per l’ingresso di capitali (i.e. di investimenti) stranieri, una dimensione sempre più imprenditoriale e meno “mecenatistica”, ad ulteriore conferma della ormai (definitiva) uscita del calcio dall’originario spazio dell’hobby o del passatempo .
Ciò premesso, è senz’altro vero che la marcata specialità del lavoro – e, più in generale, dell’ordinamento – sportivo difficilmente consentirebbe l’applicazione piana della generalità degli istituti caratteristici del diritto del lavoro “standard” (qui da intendersi come non sportivo), come emerge, non solo dall’esame della normativa nazionale (l. 91/1981), ma anche dall’esperienza comparata . A ciò si aggiunga che alcuni dei tratti caratteristici del lavoro sportivo si estendono dal rapporto (“naturalmente” a tempo determinato) al mercato delle prestazioni sportive, nel cui ambito un ruolo primario è notoriamente svolto dalla figura dell’agente, che è stata recentemente oggetto della riforma di cui viene dato ampiamente conto nel contributo di Rolando Favella .
Al contempo, però, va altresì preso atto di come l’assetto delle regole del (rapporto di lavoro nel) calcio in ambito nazionale non possa dirsi immune ai principi fondamentali dell’ordinamento statuale ed euro-unitario, come affermato a più riprese dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea .
A questo riguardo, una questione particolarmente delicata, affrontata funditus nel contributo di Fabrizio Ferraro , concerne la bipartizione tra professionisti e dilettanti accolta dalla l. 91/1981. Nel rimettere, infatti, alle Federazioni, sia pure conformemente alle direttive del C.O.N.I. e degli organismi sportivi internazionali, la scelta di quali prestazioni ricondurre al professionismo, la normativa in vigore esclude – ad avviso di molti, irragionevolmente – dal proprio ambito di applicazione le atlete e gli atleti (c.d. “professionisti di fatto”) che, non inquadrabili come professionisti sulla scorta delle regole federali, svolgono pur sempre un’attività lavorativa remunerata secondo le modalità caratteristiche del lavoro subordinato .
Proprio al fine di superare tali criticità, la recente legge delega 8 agosto 2019, n. 86, nell’ambito di un progetto di “ordinamento e semplificazione delle professioni sportive”, ha inteso avviare un processo di “riordino” che implicherebbe la “sostanziale equiparazione delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, anche nell’ambito delle istituzioni scolastiche, nonché del rapporto di lavoro sportivo, al fine di garantire la parità di trattamento e di genere” , all’uopo invitando il legislatore delegato a (ri)condurre le figure del professionista e del dilettante entro l’unitaria categoria del “lavoratore sportivo” .
I calciatori – e le calciatrici – non sono peraltro le uniche figure qui professionalmente “in gioco”, dividendo costoro il campo, metaforicamente e non, – tra gli altri – con gli arbitri. Proprio di questi ultimi si occupa Emanuele Dagnino , il quale mette criticamente in risalto la circostanza che la figura del direttore di gara, assente “all’interno della elencazione relativa all’ambito applicativo della l. n. 91/1981”, sia stata invece espressamente richiamata, all’articolo 5, comma 1, della l. 86/2019, tra quelle che dovrebbero trovare una regolamentazione entro la nuova cornice, se non proprio fattispecie, del “lavoratore sportivo”.
Nell’impossibilità di preconizzare i possibili contorni di tale figura “trasversale”, il contributo di Simone D’Ascola prende de iure condito in esame i diritti e gli obblighi del calciatore professionista, con particolare riguardo alle problematiche, emerse prepotentemente in alcuni recenti casi di cronaca, concernenti il diritto, prima ancora che l’obbligo, di prendere parte (quanto meno) agli allenamenti, anche in ipotesi di dissidi di natura contrattuale con la Società di appartenenza, e la legittimità dell’imposizione, da parte di quest’ultima, del c.d. “ritiro” nell’evenienza di risultati di squadra deludenti . Non solo. In un mondo sportivo e, in specie, calcistico che, nelle sue complessità, si presenta sotto certi aspetti come una sorta di specchio della società contemporanea, Maura Ranieri insiste sull’importanza della salvaguardia dei profili identitari, tanto del professionista, quanto del club di appartenenza, chiaramente emergente dalle clausole contrattuali e pure dai codici etici adottati dalle Società sportive . A questo proposito, nel successivo contributo, a firma dello scrivente, ci si chiede sino a che punto una regolamentazione pattizia o, a maggior ragione, una previsione unilaterale possa limitare l’esercizio della libertà di espressione del calciatore, in particolare sui social networks, ponendosi in subiecta materia un delicatissimo problema di coordinamento e di contemperamento tra i diritti del singolo ed il vincolo di fedeltà all’organizzazione, sullo sfondo del generale imperativo del neminem laedere .
In ultima analisi, l’obiettivo del focus è di offrire uno sguardo critico, aperto e pluralista sul fenomeno calcio, dal peculiare angolo visuale del diritto del lavoro. Se, in quest’ultimo campo, a sua volta oggetto di profonde trasformazioni, la congiuntura pare favorevole ad un allargamento della disciplina (art. 2 d.lgs. 81/2015) o delle istanze di protezione verso aree un tempo estranee al tradizionale cono d’ombra della materia (v. l. 81/2017), pare oltremodo significativo – e di sicuro interesse agli occhi dei giuslavoristi – che pure la regolamentazione dello sport stia attraverso un processo di riforma tendente al riconoscimento di un assetto di tutele – almeno in parte – comuni a favore di chi, a prescindere dalla Federazione e/o della classe sportiva di appartenenza, trovi nell’attività sportiva la propria fonte di sostentamento.

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