TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il carattere carsico della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese
Il diritto dei lavoratori alla collaborazione alla gestione delle imprese ha riacquistato una posizione di preminenza nel dibattito giuslavoristico e nell’agenda politico-istituzionale, in virtù della discussione e dell’approvazione della legge 15 maggio 2025, n. 76. L’attuale riemersione del tema rappresenta una significativa manifestazione di quella che può essere descritta come una “corrente carsica” nella storia repubblicana . Il flusso partecipativo è storicamente emerso in plurimi momenti tra cui, solo per menzionarne alcuni: la contrattazione collettiva degli anni Settanta, la normativa comunitaria relativa alla Società Europea e ai diritti di informazione e consultazione dei lavoratori e, in tempi più recenti, attraverso la stipulazione di rilevanti accordi interconfederali. Questa successione di interventi legislativi e contrattuali ha favorito e stratificato uno “sperimentalismo partecipativo” che costituisce parte integrante del patrimonio delle relazioni industriali italiane. Ciononostante, si rileva una perdurante e non completa attuazione del precetto costituzionale ex articolo 46 della Costituzione. Il presente contributo è dedicato all’analisi della genesi e del contenuto normativo di tale disposizione costituzionale, con l’intento di enucleare criteri ermeneutici costituzionalmente orientati, atti a determinare se, e in quale misura, la legge n. 76 del 2025 possa configurarsi quale strumento di attuazione del disegno prefigurato dal Costituente e su cui si soffermeranno gli altri contributi del Forum. In altri termini, riprendendo l’allegoria precedentemente impiegata, si intende offrire alcune riflessioni che possano aiutare a comprendere se il fiume carsico abbia finalmente trovato un alveo costituzionale definito e stabile oppure se il “letto” in cui ora scorre sia inidoneo a supportarne il flusso e destinato, pertanto, a facilitarne un ennesimo inabissamento.
2. Il nesso tra partecipazione e lavoro nel dibattito dell’Assemblea costituente
In sede di presentazione all’Assemblea plenaria del testo costituzionale, elaborato dalla Commissione per la Costituzione, il Presidente Ruini asserì che l’impianto della Carta fosse caratterizzato da due elementi fondanti: da un lato, lo «sviluppo della personalità» e, dall’altro, «la partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione della società». Egli sostenne che «dalla prima deriva la liberazione dell’uomo dal bisogno» e «da tutte e due insieme l’esigenza di ordinamenti democratici anche nel campo dell’economia» . Questi principi venivano così a configurarsi come i fattori di profonda innovazione di un ordinamento pensato in forte discontinuità con le precedenti esperienze istituzionali.
Dalla dichiarazione di Ruini emerge come le Madri e i Padri costituenti avessero autocoscienza dell’elemento innovativo che stavano per cristallizzare nel testo costituzionale : essi, infatti, volevano instaurare un regime di «democrazia sostanziale» attraverso cui ciascuna persona potesse sviluppare la sua personalità e partecipare in modo «effettivo» all’«organizzazione politica, economica e sociale» (art. 3 Cost.). Si trattava di un disegno democratico che non si limitava alla sola partecipazione politica, ma si estendeva anche ai rapporti economici. In questa più ampia prospettiva si colgono la rilevanza del nesso tra lavoro e partecipazione dei lavoratori e il significato autentico dell’art. 46 Cost.
La stretta correlazione tra lavoro e partecipazione nell’ordinamento italiano è illuminata dall’analisi della genesi dell’art. 1 Cost.
La prima formulazione dell’articolo, approvata il 18 ottobre 1946 dalla I Sottocommissione, su proposta di La Pira e Togliatti, recitava: «Il lavoro e la sua partecipazione concreta negli organismi economici sociali e politici è il fondamento della democrazia italiana». Il testo successivamente elaborato dalla Commissione per la Costituzione e presentato alla discussione dell’Assemblea ricalcava il senso dell’originaria proposta: «1. L’Italia è una Repubblica democratica. 2. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 3. La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».
Questa scelta topografica non era casuale, ma indicava una precisa gerarchia di valori: l’identità costituzionale della Repubblica si radicava nella dimensione democratica del lavoro, prima ancora che in quella politica della sovranità. Tale architettura rappresentò una «svolta rivoluzionaria» rispetto alla tradizione del costituzionalismo liberale, poiché il lavoro non era più considerato «una merce, ma un valore: il valore costitutivo della dignità della persona, che in quanto tale forma un presupposto di diritti fondamentali» .
Il dibattito costituente sul nesso tra lavoro e democrazia, centrale nell’art. 1, è speculare alla discussione che, in seno alla III Sottocommissione, ha condotto alla formulazione dell’art. 46.
L’analisi dei lavori preparatori evidenzia un consenso pressoché unanime sul riconoscimento del diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende. Tuttavia, emersero divergenze significative sulle modalità attuative di tale partecipazione. Il dibattito si polarizzò su due questioni centrali: da un lato, la definizione dei rapporti tra la proprietà delle imprese, la direzione aziendale e i lavoratori; dall’altro, le forme concrete attraverso cui implementare la partecipazione senza ostacolare l’efficienza gestionale. Come rilevato dal Presidente della Sottocommissione, l’on. Ghidini, all’accordo di principio si contrapponeva il timore, manifestato da alcuni costituenti democristiani e liberali, che un intervento smisurato dei lavoratori potesse ledere le prerogative dirigenziali . D’altro canto, le forze progressiste manifestavano il dubbio che un eccessivo coinvolgimento dei lavoratori nella gestione aziendale potesse assopire il conflitto tra capitale e lavoro.
Nonostante la frammentarietà della discussione sul diritto alla “collaborazione”, dovuta proprio alla larga condivisione del riconoscimento di tale diritto, è possibile ricostruire un triplice ordine di finalità della partecipazione dei lavoratori ex art. 46 che emerge dai lavori costituenti: lo sviluppo della relazionalità interna al luogo di lavoro e della personalità dei singoli lavoratori; la revisione dell’organizzazione endoaziendale e l’esercizio del controllo sulla produzione; e, infine, la partecipazione come strumento di attuazione della democrazia economica e come fondamento di quella sostanziale. L’analisi approfondirà ora queste tre finalità che corrispondono alle dimensioni in cui la partecipazione dei lavoratori si sviluppa e ha incidenza.
2.1. La partecipazione come diritto per superare la “rottura” tra capitale e lavoro (dimensione antropologica)
La partecipazione dei lavoratori aveva anzitutto il significato di inverare il progetto di una Repubblica fondata sulla “persona che lavora” e, dunque, di mettere al centro delle relazioni economiche tutti i lavoratori.
La concezione della partecipazione dei lavoratori nell’ordinamento italiano va, infatti, intesa come la risposta costituzionale alla problematica storica della scissione tra capitale e lavoro, emersa con le rivoluzioni industriali e sistematizzata dal fordismo. Tale separazione aveva prodotto una duplice alienazione del lavoratore: la perdita di controllo sia sul processo sia sul prodotto del proprio lavoro, e la riduzione di quest’ultimo a mero fattore produttivo, una merce da scambiare nel “mercato del lavoro”.
Questa dinamica creò i presupposti perché il conflitto divenisse lo strumento delle relazioni industriali, trasformando la ‘questione operaia’ da problema di diritto privato a fenomeno di rilevanza pubblica, tale da essere interpretato (come da Santi Romano ) quale fattore di crisi dello Stato liberale.
Per superare l’organizzazione fordista della fabbrica che limitava la libertà dei lavoratori, la partecipazione fu concepita dai Costituenti come un meccanismo di riappropriazione; il suo scopo era superare l’etero-determinazione del lavoratore imposta dal taylorismo per reintrodurre spazi di libertà, creatività e dignità nei luoghi di lavoro .
2.2. L’impresa come luogo della partecipazione effettiva (dimensione organizzativa)
Nel disegno costituzionale l’impresa era concepita come un luogo per lo sviluppo della personalità umana. A tal fine, i Costituenti prefigurarono un sistema economico pluralista, articolato su una “trilogia” di modelli d’impresa: privata, pubblica e cooperativa . Mentre i modelli pubblico e cooperativo venivano ritenuti intrinsecamente orientati al coinvolgimento attivo dei lavoratori, per l’impresa privata si rese necessario un correttivo: il diritto alla partecipazione dei lavoratori. Tale diritto fu concepito come strumento trasversale per garantire che ogni forma di attività economica non fosse organizzata solo dall’imprenditore e finalizzata al profitto, ma strutturata mediante l’attiva partecipazione di tutti i soggetti della “comunità del lavoro”; l’impresa, perciò, doveva essere luogo in cui ciascuna persona potesse dare un contributo effettivo e, con ciò, sviluppare la sua personalità. In tal senso, la partecipazione assumeva una duplice e fondamentale valenza.
Era lo strumento per attuare, dall’interno delle imprese, il principio dell’indirizzo e coordinamento a fini sociali dell’attività economica (art. 41, co. 3, Cost.). Questa esigenza era ampiamente condivisa dai partiti rappresentati in Assemblea costituente, come dimostrano le proposte di Togliatti sui Consigli di azienda e di Fanfani su un controllo «interessato, democratico, decentrato» sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza .
Attraverso la partecipazione, inoltre, l’impresa doveva cessare di essere una “zona franca” in cui il potere di gestione era attribuito al solo imprenditore, per diventare un luogo di socialità e un nucleo di democrazia sostanziale. Il lavoratore, non più mero prestatore d’opera, diveniva “cittadino libero dell’azienda” . L’art. 46 si configura così, entro le relazioni aziendali, come un «elemento di dinamismo del sistema» , volto a contenere la subordinazione, codificare il conflitto e democratizzare i processi decisionali.
2.3. Il lavoro come strumento di partecipazione quale fondamento della Repubblica (dimensione democratica)
L’art. 46 è stato concepito quale strumento per realizzare il progetto di democratizzazione del potere economico. In tale prospettiva, la disposizione in esame non può essere interpretata in modo isolato, bensì in sinergia con il complessivo impianto costituzionale che ha introdotto tre livelli di partecipazione economica. Questi livelli sono stati così delineati: «1) al livello macroeconomico delle categorie e dei settori produttivi, il contratto collettivo con efficacia generale, inteso come legge professionale stabile per tutto il periodo di vigenza del contratto; 2) al livello microeconomico delle singole imprese, i consigli di gestione, intesi come organi di controllo delle decisioni concernenti l’organizzazione del lavoro, le quali interagiscono con l’applicazione delle condizioni di lavoro stabilite dal contratto collettivo; 3) infine, al livello macroeconomico più alto, dove si sviluppano i rapporti delle grandi organizzazioni sociali col potere politico dello Stato, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro» .
La partecipazione dei lavoratori era immaginata come il primo gradino della partecipazione economica. Essa, inoltre, era collocata a fondamento della democrazia costituzionale. La Costituzione, infatti, riconosce al lavoro quale forma di partecipazione, anche alla gestione delle aziende, la valenza di rinnovare quotidianamente il legame democratico e di garantire una struttura sociale che sia quanto più compatibile all’eguale e libero esercizio dei diritti politici. La partecipazione dei lavoratori può essere allora considerata la principale modalità attraverso cui trasferire nell’impresa lo statuto della cittadinanza sostanziale.
3. Criteri per valutare una disposizione legislativa di attuazione dell’art. 46 Cost.
Il dettato della Costituzione italiana non riflette integralmente la ricchezza del dibattito svoltosi in Assemblea Costituente sulla partecipazione economica. L’art. 46 Cost., in particolare, ha risentito di «un problema procedurale» , ovvero del mancato coordinamento tra i lavori delle Sottocommissioni (I e III, e della II con riferimento al CNEL). Tale disallineamento dei lavori ha impedito un’articolazione organica del tema della partecipazione del lavoro nel testo costituzionale. La stessa scelta di inserire il diritto alla partecipazione in un articolo specifico, anziché integrarlo nell’art. 41 Cost., non ha sortito l’effetto desiderato: sebbene motivata dall’intento di estendere la partecipazione a tutte le forme di impresa, tale decisione ha successivamente marginalizzato il diritto di collaborazione, rendendolo apparentemente accessorio rispetto alla libertà dell’iniziativa economica.
Alla luce della sintetica ricostruzione svolta, si possono individuare almeno tre criteri per valutare una disposizione legislativa di attuazione dell’art. 46.
3.1. La riserva di legge per dare stabilità alla partecipazione
L’art. 46 contiene una «norma-principio che sancisce un diritto sociale fondamentale» e reca una riserva di legge. Tale riserva fu introdotta per riqualificare le relazioni interne all’organizzazione d’impresa, in particolare per bilanciare il potere dispositivo dell’imprenditore (art. 2082 c.c.) e l’obbligo di collaborazione del lavoratore subordinato (art. 2094 c.c.).
Nonostante parte della dottrina interpreti la riserva di legge come assoluta , tale ricostruzione appare difficilmente condivisibile. Il nostro ordinamento costituzionale è permeato dal principio della libertà sindacale, che mal si concilia con l’idea che solo la legge possa determinare le modalità di un diritto così rilevante per i lavoratori e le loro organizzazioni rappresentative. Il tenore testuale della disposizione, che prevede l’esercizio del diritto di collaborazione «nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi» (al plurale), suggerisce l’intenzione dei Costituenti di richiedere un intervento legislativo plurimo per la strutturazione della partecipazione in un contesto normativo già disciplinato dal Codice civile. Si propende, pertanto, per definire tale riserva come relativa, la cui funzione dovrebbe essere quella di fornire un quadro normativo certo per la partecipazione e il conflitto istituzionalizzato, consentendo al contempo alla contrattazione collettiva di definire i «modi» e le declinazioni della partecipazione nelle singole realtà aziendali.
Per le ragioni sopraesposte, sembra costituzionalmente necessario che l’art. 46 venga attuato con una legge; l’applicazione contrattuale o il mero rinvio alla contrattazione, pur costituzionalmente legittimi, non possono garantire una tutela integrale del diritto alla collaborazione. L’autonomia contrattuale, infatti, è vincolata alla volontà delle parti e non consente l’instaurazione di quel canale stabile di partecipazione che la disposizione costituzionale in esame intende promuovere. Inoltre, solo la legge è in grado di modificare disposizioni imperative del diritto societario e di bilanciare durevolmente la partecipazione con la libertà di iniziativa economica .
Per garantire il perseguimento delle finalità descritte in precedenza, la via privilegiata per l’attuazione dell’art. 46 Cost. dovrebbe essere una «cornice normativa generale che consenta la valutazione dell’opportunità di scelta delle varie ipotesi di partecipazione» . Questo modello consentirebbe di superare l’ostacolo di un’eccessiva rigidità che deriverebbe dall’introduzione di un unico schema partecipativo, considerando che, come è stato opportunamente annotato, «la partecipazione non può essere imposta per decreto, né può essere decisa a livello individuale» . L’obbligo di scelta tra diversi modelli partecipativi, d’altra parte, permetterebbe l’attuazione effettiva dell’art. 46 e sottrarrebbe la partecipazione da interventi unilaterali dei datori di lavoro.
3.2. Il contenuto del diritto alla collaborazione
L’interpretazione del contenuto del diritto di cui all’art. 46 ha generato un acceso dibattito dottrinale.
Alcuni studiosi hanno definito il “diritto a collaborare” come ossimorico, sostenendo l’incoerenza di un diritto a cooperare all’organizzazione altrui . Questa prospettiva tende a interpretare il diritto in esame come mera libertà del lavoratore di contribuire all’organizzazione, in linea con l’art. 2049 c.c., e si fonda sull’analisi letterale del termine “collaborazione” rispetto all’originario “partecipazione” presente nelle fasi iniziali del dibattito costituente.
Per alcuni, la sostituzione del termine “partecipazione” con “collaborazione”, avvenuta durante i lavori dell’Assemblea Costituente, configurerebbe una «attenuazione lessicale» capace di incidere sul contenuto del diritto, escludendo forme incisive o conflittuali di attivazione dei lavoratori. Altri, invece, sostengono che l’emendamento – che sostituì il termine “partecipazione” con “collaborazione”, a firma Gronchi, Pastore, Storchi e Fanfani – fosse volto a ricondurre la disposizione nell’ambito dell’ordinamento civile , considerando che l’art. 2094 c.c. qualifica la prestazione del lavoratore come «collaborazione nell’impresa del datore» e gli artt. 1176, c. 2, e 2104, c. 1, la annoverano tra le obbligazioni «inerenti a un’attività professionale».
Tuttavia, sebbene il termine “collaborazione” possa suggerire una «progressività delle trasformazioni» , la sostituzione operata dall’emendamento Gronchi non sembra aver avuto l’intento di depotenziare il significato complessivo dell’istituto partecipativo. La dichiarazione di voto di Di Vittorio, che espresse favorevole adesione «attribuendo [...] al concetto di collaborazione il significato di partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione dell’azienda, e quindi allo sviluppo dell’azienda stessa nell’interesse dei lavoratori e del Paese», rivela chiaramente che i termini “partecipazione” e “collaborazione”, pur distinti, accentuano profili complementari di un medesimo diritto. Entrambi i concetti riconoscono ai lavoratori il diritto di “prendere parte” alla gestione dell’impresa e, di conseguenza, alle decisioni che ne definiscono la conduzione.
Nonostante l’ampia discussione in sede costituente sulle diverse modalità di collaborazione (diretta, organizzativa, finanziaria, tramite comitati, di controllo o di gestione) e la discussione plenaria su emendamenti esplicitamente riferiti alla partecipazione agli utili, i Costituenti rinunciarono a definire un modello specifico di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, delegando alla legge la regolamentazione dei «modi» di esercizio del diritto . Questa scelta, come osservò Antonio Amorth commentando l’art. 46 Cost., implicava la necessità di declinare la partecipazione in forme plurali, in ragione delle dimensioni aziendali e del tipo di attività: «forme di estrinsecazione [della partecipazione] potranno essere diverse a seconda del tipo di imprese, e cioè del ramo di produzione, e a seconda della stessa struttura aziendale (impresa grande, media, piccola)» .
La mancata specificazione di un modello unico di partecipazione ha dato origine a diverse interpretazioni, riconducibili a tre orientamenti principali.
Un primo orientamento definisce il diritto ex articolo 46 Cost. in un’accezione estesa, comprendente forme di partecipazione sia “debole” che “forte”, mediata e diretta, attraverso rappresentanti sindacali o eletti direttamente dai lavoratori, finanziaria e decisionale, con capacità di incidere sulle decisioni strategiche aziendali o meramente consultiva .
C’è chi, invece, ha inteso limitare l’oggetto del diritto a “collaborare alla gestione” agli strumenti di democrazia economica incisiva, ossia quei meccanismi in cui i rappresentanti dei lavoratori detengono un potere decisivo (es. potere di veto) o partecipano agli organi decisionali .
Infine, un terzo filone interpretativo, che appare preferibile, riconduce il diritto dell’art. 46 a quegli strumenti che consentono ai rappresentanti dei lavoratori di influire sulle decisioni che li riguardano, includendo anche gli strumenti di democrazia finanziaria qualora organizzati collettivamente per incidere sulla gestione delle imprese. In tal senso, sarebbero ricompresi tutti i diritti (di informazione, consultazione, negoziazione, codecisione, cogestione) che permettono una reale incidenza sulla gestione delle imprese da parte dei lavoratori.
Il diritto di collaborazione, alla luce dei lavori dell’Assemblea costituente, sembra voler configurare una proceduralizzazione delle forme di influenza dei lavoratori capaci di istituzionalizzare il conflitto, incanalandolo in processi decisionali che prevedono il confronto tra rappresentanti di interessi divergenti. In questa prospettiva, il dibattito che contrapponeva conflitto e collaborazione, intesi come strumenti di pacificazione o contrapposizione tra datori di lavoro e lavoratori, non sembra aver colto nel segno. La “collaborazione” di cui all’art. 46 Cost. non mira a introdurre una conciliazione preordinata, bensì la necessità di istituzionalizzare il conflitto tra interessi divergenti, sottraendolo alla mera rivendicazione informale e al potere di fatto. Perciò, il diritto alla collaborazione dei lavoratori si pone a presidio di un riequilibrio effettivo della posizione subordinata dei lavoratori nei confronti di chi dirige la gestione aziendale.
3.3. Il ruolo dei sindacati e della contrattazione
Secondo un’interpretazione letterale della Costituzione, la titolarità del diritto alla collaborazione nella gestione d’impresa spetta ai lavoratori e, di conseguenza, l’esercizio di tale diritto è affidato alle loro rappresentanze . Inoltre, alla luce del riconoscimento della libertà di cui all’art. 39 Cost., si deve ritenere che le rappresentanze elette direttamente dai lavoratori possano essere integrate da rappresentanti designati dalle organizzazioni sindacali, specialmente in contesti caratterizzati da un canale unico di rappresentanza aziendale.
Il diritto alla collaborazione dei lavoratori non solo è compatibile con la libertà sindacale, ma – alla luce della complessiva lettura delle disposizioni sulla partecipazione economica – ne costituisce un presupposto e una declinazione.
Infatti, la partecipazione dei lavoratori, priva di un sostegno sindacale, potrebbe condurre a un coinvolgimento funzionalista dei singoli lavoratori. La marginalizzazione del sindacato depotenzierebbe la partecipazione come strumento a carattere comunitario, con il rischio di incoraggiare una collaborazione funzionalizzata alle scelte manageriali, piuttosto che a una partecipazione in grado di modificarle; si tratterebbe di una forma di democrazia partecipativa e non di uno strumento di democrazia economica. Da ciò discende la necessità, come già ricordato, di un’integrazione sinergica tra legge e contrattazione collettiva, per attivare e potenziare canali partecipativi e forme di raccordo tra sindacati e lavoratori all’interno delle imprese.
4. Il compito di attuare il disegno di democrazia economica
Le Madri e i Padri costituenti avevano introdotto «strumenti moderatori, destinati a favorire processi di soluzione dei conflitti non guidati esclusivamente dal rapporto di forza, e a garantire l’alternanza di periodi di tregua e di collaborazione» . All’interno di questo disegno, l’articolo 46 della Costituzione si configurava come un elemento distintivo del modello economico e sociale. Si può, quindi, affermare che la partecipazione dei lavoratori all’impresa era – e rimane – la modalità privilegiata per l’«elevazione economica e sociale del lavoro», sia a livello individuale che collettivo (tramite il sindacato e nell’impresa).
Il diritto di collaborazione dei lavoratori era, pertanto, considerato una forma di inveramento della democrazia in tutti i settori della vita dei cittadini. Esso era concepito come strumento finalizzato a garantire lo sviluppo della personalità del lavoratore nei luoghi di lavoro o, per citare Bruno Trentin, «l’autorealizzazione della persona nel lavoro» .
Il complesso delle disposizioni costituzionali relative alla partecipazione economica è rimasto sostanzialmente inattuato. Questa “elusione” costituzionale è riconducibile a cause precise che qui si possono solo accennare. L’accentramento delle relazioni economiche e sindacali, l’abbandono del percorso tracciato dall’art. 39 e l’accantonamento della partecipazione attiva dei lavoratori hanno complessivamente creato le condizioni per l’astensione del legislatore nazionale dall’intervenire sulle regole che governano le parti sociali, sia sindacali che datoriali. Ne è conseguito che, nel nostro ordinamento, «è mancato l’impulso sia legislativo sia politico-sindacale non solo alla partecipazione dei lavoratori nell’impresa, ma anche a una regolazione stabile delle relazioni industriali» .
Sebbene l’attuale “clima” dei rapporti tra i sindacati e tra le parti sociali non appaia propiziare i presupposti per una regolazione complessiva delle relazioni industriali, non si può che auspicare che la legge n. 76 del 2025 possa costituire un primo tassello – necessariamente da potenziare alla luce dei criteri costituzionali ricostruiti in questa sede – per riconsiderare il disegno di democrazia economica delineato nella Costituzione che, come si è provato brevemente ad argomentare, non si attesta al solo articolo 46, ma si estende alla democratizzazione di tutti i rapporti economici e sociali (anche interni alle organizzazioni sindacali e imprenditoriali).