TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. La legge n. 76 del 2025 e il dibattito italiano sulla partecipazione dei lavoratori.
Come è stato affermato recentemente dalla Segretaria generale della CISL Daniela Fumarola, a 77 anni dal varo della Costituzione repubblicana abbiamo finalmente una legge che si pone l’obiettivo esplicito di attuare l’art. 46 (art. 1, l. 15 maggio 2025, n. 76) e, segnatamente, il diritto dei lavoratori ivi sancito di «collaborare […] alla gestione delle aziende» . E questo, al di là delle luci e delle ombre che caratterizzano il provvedimento (e le seconde sono probabilmente più numerose delle prime), è già un fatto eclatante in sé, poiché un paio di anni fa sembrava impossibile anche solo pronosticare un esito di questo tipo .
Non va dimenticata la lunga striscia di insuccessi che hanno accompagnato la prolungata inattuazione del disposto costituzionale. Infatti, della necessità di una legislazione in materia si parla sin dal varo della Carta costituzionale, vista la riserva di legge contemplata dall’art. 46, Cost., che sancisce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle imprese, «nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi».
I due disegni di legge D’Aragona e Morandi sui Consigli di gestione furono addirittura coevi con i lavori della Costituente , ma con la fine dell’unità nazionale la prospettiva dell’attuazione dell’art. 46, Cost., come anche quella delle altre disposizioni costituzionali sul diritto sindacale (artt. 39 e 40), divenne improvvisamente assai remota. Nella seconda metà degli anni ’70 si cominciò a parlare della necessità di una “fase 2 della legislazione di sostegno” . Con tale espressione si intendeva un intervento legislativo che, dopo la “fase 1” costituita dallo Statuto dei lavoratori, supportasse i diritti di informazione e consultazione faticosamente conquistati dal sindacato nei contratti aziendali, prima, e nazionali, poi . In quegli anni di fortissima polarizzazione ideologica, il termine «partecipazione» era assai poco in voga persino in ambito CISL.
Eppure, nel 1983 fu presentato uno dei progetti di legge più ambiziosi su questi temi: quello elaborato da Franco Carinci e Marcello Pedrazzoli , che contemplava diritti di informazione e consultazione ad ampio raggio in favore delle RSA, e perfino la cogestione minoritaria nel consiglio di sorveglianza .
Da allora il dibattito sulla partecipazione dei lavoratori, seppur nel complesso calato di intensità rispetto alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80, si è risvegliato ciclicamente, spesso in coincidenza con iniziative dell’UE, come l’adozione dello Statuto di società europea e le connesse disposizioni sulla partecipazione dei lavoratori . Nemmeno si è placato il furore progettuale: in Parlamento hanno continuato a essere depositati, legislatura dopo legislatura, disegni di legge in materia di partecipazione, tanto economica che istituzionale. In dottrina si può segnalare la centralità della partecipazione nella proposta di legge sindacale, avanzata nel 2014 dai giuslavoristi raccolti intorno alla rivista «Diritti lavori mercati» . Un paio di anni prima, sembrava che finalmente fosse giunta l’ora di sperimentare forme più strutturate e ambiziose di partecipazione dei lavoratori anche nel nostro Paese: nella legge “Fornero” fu, infatti, inserita una delega sulla partecipazione (art. 4, co. 62, l. n. 92/2012) . Purtroppo, però, il relativo decreto delegato non vide mai la luce.
Il resto del tragitto è ormai storia di questo secondo decennio del 2000. All’inizio del 2023, la CISL, sotto la guida del Segretario generale Luigi Sbarra, presenta una proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori : il d.d.l. n. 1573, grazie al sostegno governativo, compie piuttosto velocemente il proprio percorso alla Camera, che lo approva, in versione sensibilmente rimaneggiata rispetto al testo originario cislino, il 26 febbraio 2025. Il Senato non apporta modifiche e licenzia il testo definitivo il 14 maggio 2025.
Nel percorso parlamentare, peraltro particolarmente veloce per gli standard del nostro Paese, si smarrisce rapidamente il sostegno bipartisan alla legge, che, almeno all’inizio, sembrava ancora possibile assicurare. Se la proposta della CISL era stata accolta tiepidamente da CGIL e UIL e dai partiti di centro-sinistra, la legge n. 76/2025 vede la luce con la forte ostilità del resto della triplice , mentre il Partito democratico si astiene nel voto finale alla Camera, ma solo per rispetto a «un grande sindacato come la CISL» .
In questa sede si svolgerà qualche considerazione sulla collocazione del modello partecipativo italiano nel quadro comparato, alla luce dell’approvazione della nuova legge. Per svolgere proficuamente questo compito, sarà necessario esaminare in via preliminare i tratti caratterizzanti del nuovo provvedimento: lo si farà misurando le principali distanze dall’originaria proposta di legge di iniziativa popolare della CISL.
2. Dalla proposta di legge della CISL alla legge n. 76/2025: recepimento o tradimento?
La proposta di legge della CISL si configura come un tipico esempio di legislazione di sostegno , finalizzata alla diffusione dei dispositivi di partecipazione dei lavoratori . Secondo la tradizione di questo sindacato, la contrattazione collettiva riveste un ruolo centrale nel determinare sia l’an, sia il quantum degli istituti partecipativi da introdurre nelle imprese . E, tuttavia, in due ipotesi l’introduzione di dispositivi di coinvolgimento dei lavoratori è configurata in termini obbligatori.
Anzitutto, per le società a partecipazione pubblica è prevista la vera e propria cogestione nel consiglio di amministrazione, ove almeno un amministratore deve rappresentare gli interessi dei lavoratori dipendenti ed essere da loro individuato, sulla base di procedure definite dai contratti collettivi (art. 5).
Il secondo caso è quello della partecipazione consultiva di cui all’art. 12, che coinvolge tutte le imprese con più di 50 dipendenti . Anche qui, però, ferma la procedura articolata in due momenti, il primo all’interno di commissioni paritetiche, il secondo di confronto tra la direzione e la RSU o le RSA (art. 14), e un nucleo tematico minimo vincolante , tutto il resto è definito dalla contrattazione collettiva: la composizione delle commissioni, le sedi, i tempi (comunque preventivamente rispetto alle scelte da adottare e almeno una volta l’anno), le modalità e i contenuti. La partecipazione consultiva di cui all’art. 12 deve trovare attuazione anche nelle PA (art. 13) e una sua variante contenutistica viene imposta agli istituti di credito, alle imprese di servizi pubblici essenziali e alle società a partecipazione pubblica (art. 15) .
Per il resto, nella proposta della CISL è tutto affidato alla contrattazione collettiva, con totale libertà di sperimentare o meno le forme partecipative proposte. Con riferimento al coinvolgimento dei lavoratori, oltre alla già menzionata partecipazione consultiva, la proposta della CISL contempla la partecipazione organizzativa in commissioni tecniche paritetiche, il cui obiettivo è quello di contribuire all’innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro (artt. 10-11).
Viene lasciata in una dimensione puramente opzionale, et pour cause, anche la partecipazione gestionale, e cioè la vera e propria cogestione negli organi societari, tema da sempre controverso nel dibattito italiano, non soltanto tra gli imprenditori, ma anche nel movimento sindacale. Qui ci si muove nell’ambito di un modello rigorosamente minoritario, stabilendo che i rappresentanti dei lavoratori, individuati secondo le procedure stabilite dai contratti collettivi, siano almeno pari a 1/5 dei componenti del consiglio di sorveglianza, nelle società per azioni o europee organizzate secondo il modello dualistico, o almeno a un amministratore indipendente in quelle a governance tradizionale o monistica (artt. 3-4).
Con riferimento alla partecipazione economica, spiccano nella proposta della CISL le misure di incentivazione della partecipazione agli utili (art. 6) e di quella al capitale (accesso alla proprietà di azioni o quote del capitale dell’impresa – art. 7), comprese, in questo secondo caso, le disposizioni volte a favorire la gestione congiunta dei diritti di voto (accordo di affidamento fiduciario per la gestione collettiva dei diritti derivanti dalla partecipazione finanziaria e trust istituiti e legittimati allo scopo di esercitare il diritto di voto - art. 8).
In considerazione dell’ampia discrezionalità che il disegno di legge lascia ai partner sociali nella scelta dell’an e del quantum del coinvolgimento dei lavoratori, il carattere promozionale della legge viene recuperato con istituti di premialità: incentivi fiscali e contributivi, per la verità non eccessivamente generosi (art. 19), e la certificazione di impresa socialmente sostenibile (art. 21, co. 3 ss.).
Chiudono il sistema partecipativo disegnato dalla proposta della CISL il Garante della sostenibilità sociale delle imprese (art. 21) e la Commissione permanente nazionale per la partecipazione dei lavoratori (art. 20). Il primo ha il compito di rilasciare il “bollino” di impresa socialmente sostenibile (art. 21, co. 3) . La seconda, invece, da incardinarsi presso il CNEL, si occupa dell’interpretazione delle procedure partecipative e delle controversie sulla loro violazione, con funzioni conciliative, nonché di raccogliere buone prassi sul coinvolgimento dei lavoratori e di avanzare proposte di legge al CNEL, volte a incoraggiare tutte le tipologie di partecipazione (economica e istituzionale) (art. 20).
Nel confronto tra la proposta originaria della CISL e la l. n. 76/2025 ciò che risalta ictu oculi è il ridimensionamento subito nel corso dell’iter parlamentare .
Anzitutto, la legge abbandona ogni imposizione : scompaiono gli obblighi relativi alla cogestione nelle partecipate ; alla partecipazione consultiva imperniata sulle commissioni , compresa la variante per istituti di credito, società a partecipazione pubblica e imprese erogatrici di servizi pubblici essenziali. La scure non risparmia la partecipazione economica: non vengono, infatti, riproposte le disposizioni volte a favorire la gestione congiunta dei diritti di voto .
In secondo luogo, e purtroppo, viene taglieggiato anche il versante promozionale della legge. Gli incentivi economici alla sperimentazione delle forme partecipative vengono conservati soltanto per la partecipazione agli utili (art. 5) e per incoraggiare l’adozione di piani di partecipazione finanziaria (art. 6) , peraltro con un orizzonte temporale limitato (per il momento) al solo 2025. Non sono più previsti incentivi di alcun tipo per la sperimentazione di forme di partecipazione istituzionale, nemmeno per la cogestione , e nemmeno nella forma light del “bollino” di sostenibilità sociale: viene cancellata conseguentemente anche la figura del Garante della sostenibilità sociale delle imprese .
Per il resto, la legge conserva la tripartizione degli istituti di partecipazione istituzionale in gestionale, organizzativa e consultiva, come anche le loro caratteristiche essenziali. Vengono certo apportati ritocchi, ma non così significativi. Ad es., con riferimento alla cogestione, viene abbandonata la prescrizione di un numero minimo di rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza (almeno 1/5 dei componenti): tuttavia, nel quadro di una forma partecipativa affidata alla libera sperimentazione delle parti sociali, lasciare un tale vincolo aveva poco senso . Nonostante la formulazione leggermente diversa, non cambia sensibilmente l’ambito applicativo della partecipazione gestionale, esteso a tutte le società di capitali . Nella «consultazione preventiva» (partecipazione consultiva) vengono eliminati l’elenco minimo dei temi oggetto del confronto, la periodicità almeno annuale degli incontri e la fase conclusiva con le RSA/RSU in caso di mancata soluzione delle divergenze: «la composizione delle commissioni paritetiche […], le sedi, i tempi, le modalità e i contenuti della consultazione» vengono ora integralmente affidati alla contrattazione collettiva istitutiva della procedura di coinvolgimento dei lavoratori (art. 9, co. 2). I requisiti minimi di quest’ultima, del resto, sono stabiliti nel d.lgs. n. 25/2007, che viene fatto espressamente salvo (art. 9, co. 1) .
Suscita maggiori perplessità la decisione di espungere la contrattazione collettiva dalla predisposizione dei piani di partecipazione finanziaria dei lavoratori (art. 6) e dalla partecipazione organizzativa (art. 7). Nel primo caso, peraltro, i contratti collettivi, seppur non menzionati, paiono indispensabili, visto che l’incentivo economico è collegato all’attribuzione di azioni in sostituzione di premi di risultato, operazione che non può certo bypassare la disciplina collettiva in materia di retribuzione incentivante.
Nella seconda ipotesi, l’art. 7, l. n. 76/2025 non menziona i contratti collettivi con riferimento all’istituzione delle commissioni paritetiche, «finalizzate alla predisposizione di proposte di piani di miglioramento e di innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro» . Premesso che il datore di lavoro può procedere anche unilateralmente a coinvolgere i propri dipendenti in commissioni paritetiche con funzioni, pare di capire, di taglio prettamente operativo , il sostegno alla cd. partecipazione diretta esorbita dall’attuazione dell’art. 46, Cost., che l’art. 1 della legge colloca tra le finalità della stessa: secondo l’opinione preferibile, la disposizione costituzionale si riferisce alla sola partecipazione indiretta . D’altro canto, la l. n. 76/2025 si preoccupa di consentire la sperimentazione di forme di partecipazione, indiretta o quanto meno diretta, anche in quelle realtà in cui la rappresentanza sindacale non si sia radicata .
A conclusione di questo raffronto, occorre spendere qualche parola su quanto è rimasto della proposta originaria della CISL nella l. n. 76/2025. Il carattere promozionale del provvedimento risulta notevolmente affievolito, per via della cancellazione dei già flebili dispositivi obbligatori di partecipazione e, soprattutto, degli incentivi economici e reputazionali. E, tuttavia, non si può certo affermare che la legge sia totalmente inutile o abbia perso ogni aspetto di sostegno alla partecipazione.
Anzitutto, gli artt. 3-4, l. n. 76/2025 sono indispensabili per attuare nel nostro Paese forme di cogestione negli organi amministrativi delle società di capitali (consiglio di sorveglianza, consiglio di amministrazione e comitato per il controllo sulla gestione, a seconda del modello di governance prescelto). Le disposizioni del diritto societario che regolano la composizione dei predetti organi sono imperative, cosicché soltanto tramite l’intervento della contrattazione collettiva è ora possibile derogarvi per aprire le relative società ai meccanismi della partecipazione gestionale . In altri termini, soltanto grazie agli artt. 3-4, l. n. 76/2025 è diventato possibile per le società di capitali modificare i propri statuti per consentire la nomina o l’elezione di membri degli organi amministrativi ad opera dei lavoratori o dei loro rappresentanti .
Ma anche negli altri ambiti di partecipazione, già ampiamente esplorati in passato dalla cd. “via italiana”, la legge reca un contributo promozionale, seppure soft. Essa fornisce ai partner sociali un modello, un canovaccio, benché scarno, e, soprattutto, svolge un ruolo pedagogico, indicando la via da seguire: si tratta di una funzione che non deve essere sottovalutata .
Sotto questo profilo, non si può concordare con le voci allarmistiche che preconizzano un vulnus alla contrattazione collettiva: proprio perché priva di contenuti vincolanti, la l. n. 76/2025 non può certo spiazzare i rapporti negoziali consolidati tra gli attori sociali, a qualsiasi livello . Con specifico riferimento ai contratti collettivi chiamati ad attuare la legge, poi, l’art. 2, co. 1, lett. e) richiama ex professo quelli “qualificati” di cui all’art. 51, d.lgs. n. 81/2015. Ciò dovrebbe impedire i comportamenti opportunistici delle imprese che intendano giocare la carta della partecipazione addomesticata con sigle sindacali compiacenti e poco rappresentative.
3. Il contesto comparato della proposta.
I sistemi partecipativi più ambiziosi, sotto il profilo della partecipazione istituzionale, sono senza dubbio quelli mitteleuropei: Germania, Austria e Paesi Bassi . In tutte queste esperienze il coinvolgimento dei lavoratori è organizzato sia mediante l’interazione della direzione aziendale con organi di rappresentanza generale elettiva dei lavoratori (partecipazione esterna), sia attraverso l’inserzione di rappresentanti dei lavoratori negli organi societari (partecipazione interna), principalmente nel consiglio di sorveglianza, visto che il modello dualistico di governance societaria è l’unico consentito in Austria e Germania, e di gran lunga quello dominante nei Paesi Bassi. Si tratta, dunque, di sistemi partecipativi a due pilastri, ove la partecipazione interna e quella esterna si rafforzano vicendevolmente.
In tutte e tre le esperienze la partecipazione esterna si caratterizza per l’attribuzione, all’organismo di rappresentanza dei lavoratori, il consiglio d’azienda in Germania e Austria (Betriebsrat), il consiglio d’impresa nei Paesi Bassi (Ondernemingsraad), di robusti diritti di codecisione accanto a quelli meno incisivi, e assai più diffusi in Europa, di mera informazione e consultazione, o anche di negoziazione . I diritti di codecisione, concentrati soprattutto sulle questioni inerenti alla gestione del personale e all’organizzazione del lavoro, sono imperniati, in assenza di accordo tra le parti, sull’intervento di un organismo arbitrale o del giudice. Nel secondo caso, tipico soprattutto dell’ordinamento olandese, ma contemplato anche dalla legge tedesca (v. infra il par. 4), si è più propriamente in presenza di un diritto di veto, poiché il giudice, a differenza dell’organismo arbitrale, non può adottare la decisione al posto delle parti, contemperandone equamente gli interessi, bensì deve limitarsi ad accordare o negare l’autorizzazione al datore a procedere con la decisione sulla quale l’organismo di rappresentanza dei lavoratori ha apposto il suo veto.
I dispositivi di partecipazione interna più evoluti sono sicuramente quelli dell’esperienza tedesca, ove si sfiora, soprattutto nel settore carbo-siderurgico, la parità sostanziale tra capitale e lavoro tanto agognata dal movimento sindacale di quel Paese (v. infra il par. 4). In Austria, invece, i rappresentanti dei lavoratori in seno ai consigli di sorveglianza non superano 1/3 dei membri complessivi .
Nei Paesi Bassi esiste, per le società di più rilevanti dimensioni e a prevalente radicamento olandese (structuurvennootschappen), uno speciale regime in forza del quale almeno 1/3 dei componenti del consiglio di sorveglianza deve essere scelto dall’assemblea tra i candidati proposti dal consiglio d’impresa . Peraltro, il sistema cogestionale olandese presenta tratti del tutto peculiari nel contesto comparato, poiché tutti i membri del consiglio di sorveglianza devono offrire garanzie di indipendenza rispetto alla società, agli azionisti, ai sindacati, e non possono essere dipendenti della società; l’organo, inoltre, si rinnova per cooptazione controllata. Quando si presenta una vacanza in seno al consiglio di sorveglianza (i membri vengono a scadenza in tempi diversi), quest’ultimo, vagliate le candidature proposta dal consiglio d’impresa e dall’assemblea degli azionisti, sceglie autonomamente i membri da presentare all’assemblea per la designazione (salvo, ovviamente, per il terzo riservato, nell’ambito del quale deve necessariamente proporre i candidati indicati dal consiglio d’impresa). L’assemblea conserva sempre il diritto di respingere la candidatura proposta dal consiglio di sorveglianza, ma non può nominare membri che non siano stati formalmente proposti dal consiglio stesso.
A fini di comparazione, sembra allora più utile soffermarsi un poco sul modello tedesco, che, del resto, ha assunto da tempo caratteri emblematici quanto a completezza e incisività del sistema partecipativo.
4. La partecipazione in Germania.
Il primo pilastro della partecipazione tedesca, la betriebliche Mitbestimmung (cogestione d’azienda), è imperniato sulla dialettica tra il consiglio d’azienda e la direzione aziendale (partecipazione esterna) . La sua regolazione è contenuta nella legge sull’ordinamento aziendale del 1972 (Betriebsverfassungsgesetz), più volte successivamente novellata.
Il consiglio d’azienda (Betriebsrat) non è un organismo sindacale, bensì di rappresentanza generale dei lavoratori dell’unità produttiva: le liste per la sua elezione possono essere presentate anche da gruppi di lavoratori, non soltanto da organizzazioni sindacali. La sua elezione è prevista ogni quattro anni in tutte le unità produttive con almeno 5 dipendenti. Se in azienda non esiste alcun Betriebsrat, la procedura per la sua costituzione può essere avviata su iniziativa dei lavoratori stessi o del sindacato: se, tuttavia, nessuno attiva tale procedura, l’unità produttiva rimarrà priva di Betriebsrat.
Il Betriebsrat gode di importanti diritti di informazione e consultazione, che abbracciano tutte le più importanti vicende dell’unità produttiva. Ma ciò che veramente distingue il consiglio d’azienda da consimili organismi di altri Paesi, come i comités de empresa spagnoli o i comités sociaux et économiques francesi , sono, come già accennato, i diritti di codecisione. Su questioni importanti in materia sociale e del personale il datore di lavoro non può decidere unilateralmente, ma deve negoziare con il consiglio d’azienda, per raggiungere un’intesa, che viene formalizzata in una pattuizione aziendale (Betriebsvereinbarung), con efficacia generalizzata per tutti i lavoratori. Se l’intesa non è raggiunta, interviene un organismo arbitrale imparziale (Einigungsstelle), che decide al posto delle parti, ispirandosi al bene dei lavoratori e dell’azienda secondo equità (nach billigem Ermessen). L’impugnazione di tale decisione da parte del consiglio d’azienda o del datore è possibile soltanto nel termine di decadenza di due settimane, e avviene assai di rado, stante l’ampia discrezionalità di cui gode l’organismo arbitrale grazie al riferimento della legge all’equità.
Le materie oggetto dei diritti di codecisione sono cruciali per la vita dell’azienda, e sono andate crescendo nel corso delle numerose riforme della legge sull’ordinamento aziendale che si sono susseguite regolarmente nel corso dei decenni (l’ultima novella risale al 2021) .
Il secondo pilastro della partecipazione tedesca, la unternehmerische Mitbestimmung (cogestione d’impresa o societaria), è imperniata sulla presenza di rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza (Aufsichtsrat) delle società di capitali tedesche . Nel modello duale di corporate governance vigente in Germania, il consiglio di sorveglianza è un organo fondamentale, in quanto nomina e revoca il consiglio di gestione (Vorstand) e ne supervisiona l’operato, di fatto presiedendo alla determinazione delle linee strategiche della società. I rappresentanti dei lavoratori siedono in quest’organo con parità di diritti e doveri rispetto agli altri componenti, nominati dall’assemblea degli azionisti.
In Germania esistono tre modelli di cogestione societaria, che si sono stratificati nel tempo. Il primo è quello vigente nel settore carbosiderurgico, nelle imprese con più di 1000 dipendenti, cui si è già fatto un cenno (v. retro il par. 3): contenuto nel Montan-Mitbestimmungsgesetz del 1951, garantisce ancora oggi il maggior livello di influenza ai rappresentanti dei lavoratori. Infatti, il consiglio di sorveglianza delle società del settore carbosiderurgico assoggettate al regime cogestionale è composto di un numero dispari di membri. Gli azionisti e i rappresentanti dei lavoratori nominano un egual numero di componenti di loro pertinenza, mentre l’ulteriore componente, che deve rivestire carattere di imparzialità, è scelto con una complessa procedura volta a salvaguardare la sua equidistanza rispetto agli interessi degli azionisti e dei lavoratori.
Il secondo modello, detto della “cogestione di 1/3”, era originariamente regolato dalla legge sull’ordinamento aziendale del 1952 e costituiva l’archetipo di generale applicazione. Oggi, invece, disciplinato dal Drittelbeteiligungsgesetz del 2004, è vigente solo nelle società di capitali con un numero di dipendenti compreso tra 500 e 2000 lavoratori (tra 500 e 1000 nel settore carbosiderurgico). Qui gli esponenti dei lavoratori raggiungono la quota di 1/3 dei consiglieri, mentre i restanti 2/3 sono nominati dall’assemblea degli azionisti.
Il terzo modello, introdotto dal Mitbestimmungsgesetz del 1976 dopo un lungo dibattito, innescato dalla relazione della Commissione Biedenkopf, è ora quello di generale applicazione in tutte le società di capitali tedesche con più di 2000 dipendenti. Benché prima facie dia l’impressione dell’agognata parità tra capitale e lavoro nel consiglio di sorveglianza, esso garantisce in realtà una leggera prevalenza ai rappresentanti degli azionisti. Infatti, benché l’Aufsichtsrat conti un numero pari di membri e sia pariteticamente composto, con la metà dei consiglieri nominati dall’assemblea e l’altra metà eletta dai lavoratori, anche su liste sindacali, ai componenti di nomina assembleare è attribuita una leggera prevalenza. Infatti, in caso di stallo decisionale, è sempre garantito il voto doppio al Presidente dell’organo, che non può mai essere eletto contro il volere degli azionisti (e, quindi, di norma è vicino alle loro posizioni).
5. Il modello italiano e quello scandinavo.
Il pur sintetico esame delle esperienze partecipative mitteleuropee mette facilmente in evidenza le distanze con il sistema di relazioni industriali del nostro Paese, in generale, e quelle con la l. n. 76/2025, in particolare. Si tratta di modelli partecipativi ad alta densità di regolazione legale imperativa, che lasciano solo limitati spazi di derogabilità alle parti sociali. Sono imperniati su un rigoroso canale doppio, con potenti organismi di rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale che non sono di natura sindacale, bensì con legittimazione esclusivamente elettiva. Per conseguenza, gli accordi da essi stipulati non sono tecnicamente nemmeno contratti collettivi, anche se, di norma, a questi ultimi cedono il passo, in omaggio alla preminenza del diritto di libertà sindacale, di rango costituzionale, su quelli di partecipazione, che, inter alia, non godono di copertura costituzionale né nell’ordinamento tedesco, né in quello austriaco . Inoltre, i tre Paesi in questione si contraddistinguono per la lunga tradizione di cooperazione tra le parti sociali a livello aziendale, con bassi tassi di conflittualità.
La legge n. 76 può essere accostata, allora, più efficacemente e proficuamente, ai modelli scandinavi di coinvolgimento dei lavoratori . Sia in Svezia che in Danimarca la partecipazione dei lavoratori si fonda sul sindacato nell’ambito di un rigoroso modello a canale unico di rappresentanza. Ci si soffermerà un poco di più sulla Svezia, perché in Danimarca vi è una legge soltanto sulla partecipazione interna , e non su quella esterna, ove il coinvolgimento dei lavoratori ha luogo nell’ambito di comitati bilaterali integralmente governati dalla contrattazione collettiva .
In Svezia, invece, vi sono due provvedimenti legislativi: medbestämmandelagen (legge sulla codeterminazione) del 1976, che regola la contrattazione collettiva e le procedure della partecipazione esterna ; la legge sulla rappresentanza dei lavoratori privati nel consiglio di amministrazione, del 17 dicembre 1987, per la partecipazione interna , che riscrive un precedente provvedimento anch’esso risalente agli anni ’70.
Medbestämmandelagen attribuisce al sindacato, che sia vincolato al datore di lavoro da un contratto collettivo, estesissimi diritti di informazione e negoziazione: in particolare, il datore è obbligato a trattare con il sindacato de quo su ogni decisione che comporti importanti cambiamenti della sua attività . Si tratta di un’espressione che la giurisprudenza svedese ha interpretato in modo estensivo, facendovi rientrare non soltanto operazioni strategiche, quali l’acquisto o la vendita dell’impresa o di una parte di essa, ma anche decisioni di più modesta portata, come le riduzioni di personale o la variazione dei tempi di lavoro, e perfino la nomina di un dirigente . La trattativa si svolge in prima battuta con il sindacato a livello locale, ma, in caso di mancato accordo, l’imprenditore è tenuto, su richiesta, a negoziare anche con l’organizzazione sindacale centrale.
Spostando ora il fuoco dell’attenzione sulla cogestione in senso tecnico, il sistema svedese appare molto interessante, perché affida al sindacato, che sia vincolato al datore da un contratto collettivo, la decisione se attivare o meno la partecipazione interna, individuando propri rappresentanti da inserire in seno al Consiglio di amministrazione. Si tratta di una partecipazione chiaramente minoritaria: di norma due membri titolari e due supplenti, tre se l’impresa operi in diversi settori e occupi in media almeno 1000 lavoratori .
L’aspetto che maggiormente avvicina la l. n. 76/2025 alla legislazione svedese sulla partecipazione è la profonda deferenza nei confronti della contrattazione collettiva.
Le previsioni di medbestämmandelagen sul coinvolgimento dei lavoratori sono per lo più derogabili dai contratti collettivi sia in melius, sia in pejus, secondo i principi consolidati del modello di relazioni industriali di quel Paese, nel quale le disposizioni di legge in materia sindacale e del lavoro sono di regola semi-dispositive (o parzialmente inderogabili) . Anzi, il § 32 della legge incoraggia espressamente i partner sociali a stipulare propri accordi in materia , secondo il principio del negoziato in the shadow of the law.
E così, proprio approfittando di questa apertura, nel 1982 un accordo interconfederale che copre gran parte del settore privato dell’economia (l’Utvecklingsavtal, accordo di sviluppo) ha recuperato la lunga tradizione svedese di commissioni paritetiche sui luoghi di lavoro, consentendo alla contrattazione di livello decentrato di optare per tale consolidato strumento in alternativa alla negoziazione secondo medbestämmandelagen. Così le commissioni paritetiche hanno potuto continuare a offrire il loro contributo allo sviluppo di relazioni di lavoro improntate a un’intensa collaborazione nei contesti produttivi con ciò più sintonici.
Le assonanze con la partecipazione consultiva e organizzativa della l. n. 76/2025 sono evidenti. Va, però, rimarcato come la scelta svedese di incoraggiare la contrattazione collettiva stabilendo un livello minimo di partecipazione affidato alla totale disponibilità delle parti sociali, ma applicabile in assenza di accordo derogatorio, ha permesso alla legge di giocare un più marcato ruolo promozionale e di sostegno . Di fatto, gli accordi sulla partecipazione si sono massicciamente diffusi nel giro di pochi anni dall’approvazione del medbestämmandelagen, e coprono oggi gran parte dei lavoratori svedesi, sia privati che pubblici .
Si riscontrano analogie anche con la partecipazione gestionale. La legge n. 76 opta per la cogestione minoritaria, come la legge svedese: nulla vieta ai partner sociali, nel modello dualistico, di sperimentare forme più intense e ambiziose di partecipazione, ma questo esito è assai improbabile, poiché per introdurre la cogestione è necessario l’accordo del datore di lavoro (e dell’assemblea degli azionisti, visto che occorre pure modificare lo statuto). Come nel sistema svedese, sarà in ultima istanza il sindacato a decidere se puntare o meno sulla cogestione: infatti, senza un contratto collettivo tale forma partecipativa non potrà essere attivata.
Certo, in Svezia il sindacato gode di una posizione più solida, perché può optare per l’invio di propri rappresentanti nel CdA a prescindere dall’accordo della direzione aziendale. Ma, per un verso, è raro che il sindacato si attivi in questo senso in caso di aperta ostilità datoriale, poiché in tale ipotesi preferirà impostare i rapporti nel solco della più tradizionale attività di contrattazione collettiva e in una logica distributiva. Per altro verso, nel modello italiano è possibile, tramite la contrattazione collettiva, scegliere la modalità cogestionale più adatta alle caratteristiche dell’impresa e al suo posizionamento nel mercato. Sotto questo profilo, il sistema svedese appare forse troppo rigido, ponendo di fronte al sindacato l’alternativa del “o tutto, o niente”.
6. E’ tempo di rimboccarsi le maniche!
La l. n. 76/2025 va accolta con favore, perché si pone l’obiettivo di rompere un’impasse che dura nel nostro Paese ormai da oltre 70 anni. Si tratta di un lasso di tempo che crea imbarazzo, anche perché viene in rilievo l’inattuazione di un diritto sancito costituzionalmente: quello dei lavoratori a collaborare alla gestione delle imprese, di cui all’art. 46 .
Il provvedimento è cauto e sperimentale, e lascia amplissimo spazio alla contrattazione collettiva : questo approccio è stato indispensabile per ottenere l’approvazione del Parlamento ed evitare spaccature troppo profonde tra le parti sociali. Occorre essere franchi: progetti più ambiziosi e improntati a un maggior tasso di vincolatività non avrebbero avuto alcuna speranza in Parlamento e avrebbero indotto le principali organizzazioni imprenditoriali, Confindustria in testa , a una lotta senza quartiere contro le novità prospettate .
Si poteva, però, fare di più, pur senza varcare la soglia dell’imposizione: è veramente una sciagura che, nel passaggio dalla proposta della CISL alla legge n. 76, si siano lasciati cadere i già deboli incentivi economici e perfino quello reputazionale, legato al rilascio della certificazione di impresa socialmente sostenibile . In questo modo, si è persa per strada gran parte della funzione promozionale del provvedimento legislativo, anche se, come si è cercato di argomentare retro al par. 2, esso conserva una propria utilità, e non soltanto, per così dire, “pedagogica”.
D’altro canto, il modello partecipativo italiano, come innovato dalla legge n. 76, trova riscontro nel panorama comparato, e segnatamente nei Paesi scandinavi (v. retro il par. 5). Non si tratta, in tutta onestà, di esperienze nelle quali sono state attinte le vette della partecipazione cd. “forte”, contraddistinta dalla codecisione (nell’ambito della partecipazione esterna) e dalla cogestione societaria: qui il modello di riferimento non può che essere quello tedesco, come si è avuto modo di illustrare (v. retro il par. 4). Ma i Paesi scandinavi sono, comunque, contraddistinti da sistemi di relazioni industriali evoluti e ben funzionanti: i meccanismi partecipativi che li contraddistinguono sono riusciti a radicare un clima di collaborazione e fiducia tra i partner sociali, che ha offerto un contributo essenziale in termini di produttività e benessere dei lavoratori.
A questo punto sorge spontanea la domanda: che fare della legge n. 76? La risposta non può essere che una: nonostante tutti i limiti che si sono segnalati, è legge dello Stato e le parti sociali, tutte quante, farebbero bene a utilizzarla in modo da consentire ai lavoratori di esercitare effettivamente il diritto loro riconosciuto dall’art. 46, Cost. Nella complessa epoca storica in cui viviamo, una collaborazione rafforzata tra capitale e lavoro è indispensabile per affrontare con successo la triplice transizione (digitale, ecologica e sociale) .
Una nouvelle vague di accordi e protocolli dovrebbe, anzitutto, generalizzare l’istituto delle commissioni paritetiche, facendone il perno di una partecipazione rinnovata, in grado di incidere sulle modifiche dell’organizzazione e dei processi lavorativi e di governarne l’implementazione, nonché di interloquire sulle decisioni strategiche delle imprese (partecipazione organizzativa e consultiva). In secondo luogo, tali intese dovrebbero aprire la via alla sperimentazione di forme di partecipazione gestionale e azionaria, là dove il livello di collaborazione già raggiunto tra i partner sociali lo consenta. E’ tempo di rimboccarsi le maniche!