Testo Integrale con note e bibliografia

SOMMARIO: 1. I limiti legali all’apposizione del termine nel contratto di lavoro. - 2. Il regime speciale delle attività stagionali. - 3. Esigenze oggettive e diritto comunitario. - 4. Questioni interpretative del D.p.r. 7 ottobre 1963, n. 1525. – 5. Contrattazione collettiva ed attività stagionali. – 6. Il controllo giudiziale sulla stagionalità

 

1. Dall’affermazione, oggi contenuta nell’art. 1 del d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81, ma già presente nell’art. 1 del D. lgs. 6 settembre 2001, n. 368, secondo la quale “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”, discende la necessità di prevedere dei limiti all’utilizzo delle altre forme di lavoro subordinato.
Peraltro, la clausola 5 della direttiva comunitaria 1999/70 CE del Consiglio del 28 giugno 1999, di recepimento dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (da qui in poi “la direttiva”), impone agli stati membri di introdurre - in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi – “una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti” .
L’art. 1 del D. lgs. 368 del 2001, in continuità con la disciplina contenuta nella l. 18 aprile 1962, n. 230 , fondava la legittimità dell’apposizione del termine sulla necessaria sussistenza di ragioni oggettive di natura temporanea, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore . La contrattazione collettiva aveva però la facoltà di introdurre limiti percentuali all’utilizzo di tale forma contrattuale, tranne che nei casi per i quali ciò fosse espressamente vietato .
L’art. 3 del D. lgs. 368 del 2001 vietava l’impiego di tale forma di contratto da parte dei datori di lavoro che non avessero effettuato la valutazione dei rischi imposta dalla disciplina per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, anche qualora fossero state in astratto presenti esigenze oggettive di natura temporanea. Erano altresì vietate le assunzioni a tempo determinato per sostituire lavoratori in sciopero, e nelle unità produttive in cui nei sei mesi precedenti si fosse proceduto a licenziamenti collettivi, a sospensioni dal lavoro o a riduzioni di orario, per lavoratori adibiti alle mansioni per le quali si intendeva procedere all’assunzione a termine .
Ciascun contratto di lavoro a tempo determinato non poteva avere una durata superiore a tre anni (comprensivi dell’unica proroga ammessa), e tra ciascun contratto di lavoro a termine doveva intercorrere un periodo minimo di dieci giorni (ove il precedente contratto fosse stato di durata fino a 6 mesi) o di venti giorni (in caso di precedente contratto avente una durata superiore).
Benché la disciplina appena sintetizzata fosse già conforme alla direttiva – che come detto impone l’adozione soltanto di una delle misure sopra indicate – l’art. 5, c. 4 bis del D. lgs 368 del 2001 aveva aggiunto un limite temporale complessivo (derogabile però dalla contrattazione collettiva di qualsiasi livello) di 36 mesi all’utilizzo di un lavoratore in mansioni equivalenti , con contratti di lavoro a tempo determinato e nell’ambito di contratti di somministrazione di lavoro.
La violazione delle disposizioni sopra indicate era sanzionata con la trasformazione del contratto di lavoro in contratto a tempo indeterminato, e con il risarcimento del danno subito dal lavorare. Questo era stato determinato dall’art. 32 della l. 4 novembre 2010, n. 183, anche per le fattispecie perfezionatesi prima della sua entrata in vigore, e per le quali fosse in corso un giudizio , in un’indennità onnicomprensiva, che il Giudice poteva liquidare in misura variabile da 2,5 a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Nella sua formulazione originaria, l’art. 19 del D. lgs. 81 del 2015 non richiedeva invece alcuna ragione specifica, ai fini della legittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro subordinato . Consentiva invece l’impiego del lavoratore, con uno o più contratti di lavoro a tempo determinato (ciascuno dei quali prorogabile per un massimo di cinque volte), presso lo stesso datore di lavoro, per un periodo non superiore a 36 mesi (prorogabili a 48 qualora il relativo contratto fosse stato sottoscritto presso la direzione territoriale del lavoro competente), derogabile dall’autonomia collettiva.
Il predetto limite trovava applicazione ai soli contratti a termine, sottoscritti per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale. La durata complessiva dei contratti di lavoro a tempo determinato tra gli stessi soggetti poteva dunque eccedere la soglia dei 36 mesi, a condizione che l’utilizzo del lavoratore avvenisse per mansioni di diverso livello o di diversa categoria, e che per l’impiego in ciascun livello o ciascuna categoria non venisse superato tale limite.
L’art. 20 del D. lgs. 81 del 2015 ha mantenuto i divieti di stipulazione del contratto a termine previsti dalla disciplina precedente, con la precisazione che la loro violazione avrebbe determinato la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.
Inoltre, l’art. 21 ha conservato la previsione secondo la quale in caso di riassunzione dello stesso lavoratore a tempo determinato, entro dieci giorni dalla scadenza di un contratto a termine di durata inferiore a sei mesi, o entro venti giorni dalla scadenza di un contratto di durata pari o superiore a sei mesi, determina la costituzione ex nunc di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
A tali forme di tutela, l’art. 23 ha aggiunto un limite percentuale all’utilizzo del contratto a tempo determinato, pari al 20 per cento del numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza all’1 gennaio dell’anno di assunzione (o alla data di assunzione, qualora questa avvenga nel corso del primo anno di attività) . Tale limite è però derogabile, sia in senso ampliativo che restrittivo, dalla contrattazione collettiva, di qualsiasi livello.
La soluzione scelta dal legislatore italiano è pienamente conforme al diritto comunitario, in quanto introduce un limite alla durata massima del contratto di lavoro a tempo determinato, con ciò adottando almeno una delle misura imposte dalla clausola 5 della direttiva.
La violazione delle regole sull’apposizione del termine al contratto di lavoro, oltre a determinare la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sanzione di per sé non imposta dall’ordinamento comunitario), determina il diritto del lavoratore al risarcimento del danno subito. L’art. 28 del D. lgs. 81 del 2015 ha conservato il meccanismo di calcolo introdotto dalla disciplina previgente, ma ha indicato la retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (e non la retribuzione globale di fatto) come parametro per la quantificazione dell’indennità risarcitoria onnicomprensiva spettante al lavoratore.
Soltanto per la violazione dei limiti percentuali non era prevista la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma il pagamento di una sanzione amministrativa, che può raggiungere anche importi rilevanti.
Dal punto di vista sistematico, il d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. in l. 11 agosto 2018, n. 96, ha mantenuto l’impianto complessivo della disciplina vigente, limitandosi a modificare alcune disposizioni del D. lgs. 81 del 2015 .
Tali modifiche sono però piuttosto rilevanti ai fini pratici, in quanto hanno ridotto il periodo di libero utilizzo del contratto di lavoro a tempo determinato, per mansioni dello stesso livello e della stessa categoria legale, da 36 a 12 mesi, a condizione che questi siano continuativi, e le eventuali proroghe non siano superiori a 4. Permane dunque la possibilità di superare il predetto limite, a condizione che l’utilizzo del dipendente per mansioni di ciascun livello retributivo, o per ciascuna categoria legale, non superi i 12 mesi.
L’apposizione del termine per un periodo superiore a 12 mesi (ma non eccedente i 24 mesi, a meno che la contrattazione collettiva non preveda regole differenti), la proroga del contratto oltre il predetto limite temporale, o la sottoscrizione di un secondo contratto di lavoro tra le parti, è invece ammessa, secondo l’attuale formulazione dell’art. 19 c. 1 del D. lgs. 81 del 2015, soltanto in presenza di “esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività”, “esigenze di sostituzione di altri lavoratori”, o “esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria” .
Il legislatore ha dunque optato per un notevole irrigidimento dell’utilizzo del contratto a tempo determinato dal punto di vista temporale, introducendo per il periodo superiore a 12 mesi una combinazione tra la necessaria presenza di ragioni obiettive (la cui corretta interpretazione è incerta), e la durata massima del rapporto di lavoro a tempo determinato.

2. Confermando la scelta già operata dal D. lgs. 81 del 2015, la più recente modifica alla disciplina limitativa del contratto a tempo determinato sottrae i contratti di lavoro, sottoscritti per lo svolgimento di attività stagionali, all’applicazione della quasi totalità delle regole richiamate nel paragrafo precedente. Fanno infatti eccezione a tale esclusione soltanto i divieti di assunzione indicati nell’art. 20 del D. lgs. 81 del 2018.
L’art. 19 c. 2 del D. lgs 81 del 2015 dispone dunque che i contratti a termine per lo svolgimento di attività stagionali non siano sottoposti al limite temporale complessivo di 24 mesi.
Secondo il successivo art. 21, c. 2, la proroga e il rinnovo dei contratti in questione sono ammessi anche in assenza delle condizioni alle quali – decorso il periodo di 12 mesi, o qualora le parti abbiano già stipulato in precedenza un contratto di lavoro a termine - viene di regola subordinata l’apposizione del termine.
Qualora sussistano esigenze produttive caratterizzate dall’elemento della “stagionalità”, è pertanto legittima la sottoscrizione tra le stesse parti una pluralità di contratti di lavoro a termine, anche per mansioni dello stesso livello retributivo e della stessa categoria legale, senza alcun limite temporale. Non è inoltre richiesta la presenza delle esigenze produttive indicate dalla legge, che di regola sono necessarie per apporre un termine per un periodo superiore a 12 mesi, o in caso di sottoscrizione di un successivo contratto a termine tra le stesse parti.
L’art. 21, c. 2 del D. lgs. 81 del 2015 esenta inoltre i contratti di lavoro a tempo determinato per attività stagionali dal rispetto dell’intervallo obbligatorio tra due diversi contratti di lavoro a termine. Conseguentemente, dopo la cessazione di quello precedente, è ammessa la stipula di un nuovo contratto a tempo determinato, anche senza soluzione di continuità, o senza attendere il periodo che di regola deve intercorrere tra due diversi contratti a termine.
Riproducendo in sostanza quanto già previsto dall’art. 10, c. 7 del D.lgs. 368 del 2001, l’art. 23 del D. lgs. 81 del 2015 consente al datore di lavoro di stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato per attività stagionali, senza dovere sottostare ad alcun limite percentuale, sia di fonte legale che di fonte contrattuale. Per lo svolgimento di un’attività stagionale è dunque possibile anche impiegare esclusivamente lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo determinato, senza che sia necessaria la presenza di lavoratori a tempo indeterminato.
La previsione di regole diverse da quelle vigenti per la generalità dei contratti a termine trova il suo fondamento nella circostanza che, nelle attività che si svolgono o si incrementano soltanto in alcuni periodi dell’anno, introdurre limiti all’utilizzo del contratto a termine si tradurrebbe in una pregiudizio per i lavoratori. Invero, in presenza di esigenze produttive oggettivamente precarie, i datori di lavoro, una volta raggiunti i limiti temporali imposti dalla legge, non procederebbero ad assunzioni a tempo indeterminato dei lavoratori già occupati a termine, ma li sostituirebbero con altri soggetti.
Peraltro, il ricorso – astrattamente possibile – per fare fronte a tali esigenze a contratti di lavoro a tempo parziale, nei quali la prestazione di lavoro sia concentrata nel solo periodo di effettiva esigenza produttiva, sarebbe anch’esso pregiudizievole per i lavoratori. Mentre infatti questi, nel periodo intercorrente tra due assunzioni a tempo determinato, possono accedere al trattamento previdenziale assicurato in caso di disoccupazione, nel caso in cui fossero assunti a tempo parziale non godrebbero di tale forma di tutela .
A tutela degli assunti per attività stagionali, l’art. 24 del D. lgs. 81 del 2015 introduce un diritto di precedenza, per le nuove assunzioni da parte del datore di lavoro per le medesime attività. La volontà di avvalersi di tale diritto deve essere manifestata per iscritto dal lavoratore entro tre mesi dalla cessazione del contratto di lavoro a tempo determinato, e si estingue decorso un anno dalla cessazione del contratto.
La contrattazione collettiva può però introdurre condizioni di esercizio di tale facoltà più favorevoli per i lavoratori , ovvero regolare aspetti non disciplinati dalla legge .
L’atto scritto richiesto a fini della validità dell’apposizione del termine deve espressamente contenere il riconoscimento del diritto di precedenza. In caso di mancato rispetto di tale norma l’art. 24 del D. lgs. 81 del 2015 non prevede alcuna sanzione espressa. Si deve però ritenere che una sanzione vi sia, e consista nell’impossibilità per il datore di lavoro di eccepire al lavoratore assunto a tempo determinato l’eventuale decadenza dal diritto di precedenza. In altri termini, la carenza di informazione comporta la non decorrenza del termine di decadenza previsto dalla legge .

3. La non applicazione, ai contratti di lavoro a tempo determinato per attività stagionali, dei limiti generali previsti per l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, potrebbe però comportare un problema di compatibilità con il diritto comunitario.
Il solo riconoscimento del diritto di precedenza – peraltro sottoposto ad un termine di decadenza piuttosto breve - ai lavoratori assunti per le attività stagionali, non costituisce di per sé uno strumento per impedire l’abuso dei contratti a tempo determinato. Questo infatti non pone alcun limite temporale all’utilizzo del contratto in questione, e nulla dice in ordine all’esistenza di esigenze oggettive che giustifichino il ricorso a tale forma contrattuale.
Parimenti, il divieto di assunzione a termine in alcuni casi limitati, pur contribuendo ad evitare gli abusi più gravi, non incide sulla generalità dei fenomeni oggetto della disciplina.
Tuttavia, tra le misure introdotte dalla clausola 5 assume rilievo – e su tale ipotesi era stata in passato costruita la disciplina limitativa all’apposizione del termine – la presenza di ragioni obiettive che giustifichino l’apposizione del termine. In particolare, l’assunzione di un lavoratore al fine di soddisfare esigenze provvisorie e specifiche del datore di lavoro può, in via di principio, costituire una ragione obiettiva ai sensi della direttiva.
In mancanza di una definizione del concetto di “ragioni oggettive”, occorre ricercare il significato di queste nelle finalità della direttiva . La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito in proposito che la nozione di “ragione obiettiva” va riferita “a circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare, in un simile contesto particolare, l’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione” . Queste possono risultare “dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro” .
Invece, una disposizione nazionale, avente natura legislativa o regolamentare (ma si deve ritenere anche di fonte collettiva, ove questa costituisse fonte di disciplina del rapporto di lavoro) che consentisse in modo generale ed astratto il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, non sarebbe conforme ai criteri sopra indicati . Una disposizione di questo genere infatti non permetterebbe di verificare, sulla base di criteri oggettivi e trasparenti, se il ricorso ai contratti a tempo determinato risponda ad un’esigenza reale, sia idoneo al conseguimento dell’obiettivo perseguito, e sia necessario a tale scopo .
In particolare, con riferimento ad un’attività economica, che si caratterizzava per la variazione – in aumento ed in diminuzione – del volume dell’attività, in funzione di circostanze non prevedibili, la Corte di Giustizia ha sostanzialmente ritenuto che l’apposizione del termine ai vari contratti di lavoro non fosse giustificata da ragioni obiettive. Ciò in quanto gli stessi si erano protratti, in modo ininterrotto, per oltre 6 anni, con ciò rendendo evidente che i rapporti di lavoro in questione avevano soddisfatto esigenze produttive durevoli, e non meramente temporanee .

4. Le attività stagionali sono ancora oggi identificate, innanzitutto, dal D.p.r. 7 ottobre 1963, n. 1525. Tale regolamento era stato emanato in attuazione dell’art. 1, c. 6 della l. 230 del 1962, che affidava la loro individuazione ad un decreto del Presidente della Repubblica, da adottare su proposta del Ministro del lavoro entro un anno dall’entrata in vigore della legge . L’art. 1 c. 1 lett. a) della l. 230 del 1962 consentiva infatti di stipulare validamente un contratto di lavoro a tempo determinato, qualora questo fosse richiesto “dalla speciale natura dell’attività lavorativa, derivante dal carattere stagionale della medesima”.
Benché la l. 230 del 1962 consentisse espressamente di modificare il regolamento in questione, seguendo la stessa procedura, tale potere era stato impiegato con estrema parsimonia, per cui l’elenco era rimasto nel corso del tempo sostanzialmente invariato .
L’elencazione contenuta nel regolamento era stata ritenuta tassativa, con la conseguenza che l’eventuale controllo giudiziale successivo era limitato ad accertare se l’ipotesi concreta fosse sussumibile in una delle fattispecie astratte previste. Ciò aveva determinato un rilevante problema di carattere pratico, in quanto attività non incluse nel regolamento, ma caratterizzate da identiche esigenze produttive (e che si svolgevano dunque soltanto in alcuni periodi dell’anno), non potevano essere considerate come ipotesi legittime di apposizione del termine al contratto di lavoro .
In particolare, si era posto il problema se nel n. 36 del D.p.r. 1525 del 1963 (che consente l’apposizione del termine ai contratti di lavoro stipulati per la “fabbricazione e confezionamento di specialità nei periodi precedenti le festività del Natale e della Pasqua”) potessero rientrare quelle attività che, pur protraendosi per tutto l’anno, presentassero punte di incremento della domanda in particolari periodi.
La giurisprudenza di legittimità aveva aderito ad un’interpretazione restrittiva, ritenendo pertanto che la fattispecie comprendesse soltanto le attività che si aggiungevano alle normali lavorazioni aziendali, ed erano destinate fin dall’origine ad esaurirsi in un determinato periodo di tempo . Non sarebbero invece state incluse quelle il cui ciclo produttivo si fosse svolto nel corso dell’intero anno, sia pure con momenti di maggiore o minore produzione. Aveva pertanto ritenuto che “nel concetto di attività stagionale (…) possono ricomprendersi soltanto situazioni aziendali collegate ad attività stagionali in senso stretto, ossia ad attività preordinate ed organizzate per un espletamento temporaneo (limitato ad una stagione) e non anche situazioni aziendali collegate ad esigenze di intensificazione dell’attività lavorativa determinate da maggiori richieste di mercato o da altre ragioni di natura economico produttiva” .
Per superare il problema il legislatore aveva introdotto un’ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine , attribuendo al datore di lavoro la possibilità (in origine limitata alle sole imprese del commercio e del turismo, e poi estesa a tutti i settori economici) di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato, anche in presenza di incrementi periodici e prevedibili dell’attività lavorativa .
Infine, l’art. 23 della l. 28 febbraio 1987, n. 56, aveva attribuito alla contrattazione collettiva nazionale il compito di individuare ulteriori ipotesi di apposizione del termine, oltre a quelle di fonte legale, con ciò consentendo di modulare l’utilizzo di tale contratto in relazione alle specifiche esigenze di ciascun settore economico .
La formulazione originaria del D. lgs. 368 del 2001 aveva invece fortemente limitato il potere di intervento della contrattazione collettiva. Questa non avrebbe potuto introdurre ipotesi ulteriori di legittima apposizione del termine (ad esempio fondate sulla situazione soggettiva del lavoratore, come era invece legittimo nella disciplina previgente ), ma soltanto specificare la norma generale contenuta nell’art. 1 del D. lgs. 368 del 2001 , ovvero limitarne in via convenzionale l’ambito di applicazione.
Tuttavia, l’art. 5 c. 4 ter del D. lgs. 368 del 2001 aveva consentito ai contratti collettivi nazionali di lavoro, purché stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, di aggiungere a quelle previste dal D.p.r. 1525 del 1963 ulteriori ipotesi di attività stagionale, alle quali non trovava applicazione il limite temporale complessivo di 36 mesi.
L’art. 21 c. 2 del D. lgs. 81 del 2015, cui anche le restanti disposizioni in materia rinviano ai fini della identificazione delle attività stagionali, attribuisce invece il potere di superare il limite complessivo all’utilizzo del contratto a termine per assunzioni relative allo stesso livello e categoria (ridotto dal d.l. 87 del 2018 a 24 mesi) ai contratti collettivi tout court. In assenza di ulteriori specificazioni, l’art. 51 del D. lgs. 81 del 2015 precisa che il rinvio all’autonomia collettiva vada inteso come effettuato non soltanto ai contratti collettivi nazionali, ma anche a quelli territoriali ed aziendali, purché stipulati “da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, e nel caso dei contratti aziendali “dalle loro rappresentanze sindacali aziendali”, o anche soltanto dalla rappresentanza sindacale unitaria.
In attuazione dell’art. 5, c. 4 ter del D. lgs. 368 del 2001, la contrattazione collettiva aveva individuato una serie di ipotesi alle quali il limite complessivo di 36 mesi non poteva trovare applicazione.
Il successivo ampliamento dei casi in cui la natura stagionale dell’attività assume rilievo, ai fini della individuazione della disciplina applicabile, ha portato l’autonomia collettiva in numerosi settori economici ad intervenire in modo approfondito. In taluni casi, ciò è avvenuto confermando espressamente, ai fini della nuova disciplina, quanto già previsto nella vigenza del D. lgs. 368 del 2001.
Tuttavia, anche in assenza di una successiva espressa manifestazione di volontà in questo senso, le ipotesi di stagionalità previste dalla contrattazione collettiva, con riferimento al superamento del limite (allora) di 36 mesi, previsto dall’art. 5, c. 4 ter del D. lgs. 368 del 2001, sono da considerare valide anche in relazione alla previsione dell’art. 21, c. 2 del D. lgs. 81 del 2015.
Tale norma infatti fa rinvio alle “ipotesi individuate dai contratti collettivi”, senza alcun riferimento al momento in cui questi ultimi siano stati sottoscritti. Per la specificazione del concetto di attività stagionale, la disposizione in esame considera dunque anche le disposizioni collettive già esistenti al momento della sua entrata in vigore.
Rimane ovviamente ferma la possibilità per le parti di modificare il contenuto di quanto in precedenza concordato, ove tali norme non dovessero essere ritenute più congrue rispetto al mutato quadro normativo.
Va tuttavia rammentato che la semplice previsione legale (direttamente, o tramite il rinvio ad un’altra fonte) della legittimità dell’apposizione del termine ad un contratto di lavoro non è di per sé ragione sufficiente per ritenere rispettato quanto previsto dalla clausola 5 della direttiva .
Dato che non valgono per le attività stagionali le disposizioni che limitano dal punto di vista temporale il ricorso ai contratti a termine, ed il numero dei rinnovi di questi, la natura stagionale dell’attività deve essere dunque indissolubilmente legata agli elementi dell’oggettività, e della temporaneità.
Dubbi di conformità al diritto comunitario si possono cogliere già con riferimento ad alcune delle ipotesi elencate nel D.p.r. 1525 del 1963, che possono svolgersi in concreto nel corso dell’anno, senza pause o interruzioni.
Senza alcuna pretesa di completezza, il riferimento è a quelle attività che, dipendenti in passato dal ciclo naturale della maturazione di determinati prodotti, sono oggi svincolate da questo, come la “raccolta, cernita, spedizione di prodotti ortofrutticoli freschi e relativi imballaggi” (che il sistema delle serre ha sganciato dal ciclo di sviluppo delle piante legato alle stagioni), ovvero la “salatura e marinatura del pesce” o la “lavorazione delle carni suine” (che possono svolgersi in concreto in qualsiasi periodo dell’anno, specie quando si trattino animali provenienti da allevamenti, ovvero vengano lavorati prodotti conservati nelle celle frigorifere).

5. Da un esame – sia pur senza pretese di completezza - della contrattazione collettiva nazionale, emerge che l’autonomia collettiva ha di regola considerato stagionali non soltanto le attività che si svolgono soltanto in alcuni periodi dell’anno (eventualmente integrando o specificando le previsioni del D.p.r. 1525 del 1963 ), ma anche quelle che, pur non avendo interruzioni, presentano incrementi periodici (anche non programmabili) della domanda, legati all’andamento del mercato.
Il C.c.n.l. del settore metalmeccanico del 26 novembre 2016 ha infatti qualificato come stagionali le “attività caratterizzate dalla necessità ricorrente di intensificazione dell’attività lavorativa in determinati e limitati periodi dell’anno”.
La specificazione di tale nozione viene poi rimessa al contratto aziendale, che la norma prevede sia sottoscritto in modo unitario dalle rappresentanze aziendali e dalle organizzazioni territoriali. Tuttavia, il mancato rispetto di tale disposizione, e dunque la sottoscrizione di un contratto aziendale esclusivamente con le rappresentanze sindacali aziendali, sarebbe pienamente conforme alla previsione dell’art. 51 del D. lgs. 81 del 2015, per cui potrebbe comunque individuare legittimamente ulteriori ipotesi di stagionalità.
La disposizione nazionale prevede altresì che non possano essere considerate “stagionali” esigenze produttive che si protraggano oltre il termine di sei mesi. Anche in questo caso, però, un contratto aziendale sottoscritto nel rispetto del citato art. 51 potrebbe prolungare o ridurre il termine in questione.
Una scelta analoga è stata operata dal C.c.n.l. del settore chimico del 15 ottobre 2015, che all’art. 44 include tra le attività stagionali “quelle richieste da esigenze tecnico produttive ricorrenti in determinati periodi dell’anno in quanto connesse alle stagioni climatiche o a stagionalità identificate come tali nei settori clienti” (indicati in modo esemplificativo). E’ però rimessa al contratto aziendale (che va sottoscritto dalle rappresentanze sindacali aziendali, o in loro assenza dalle organizzazioni territoriali), l’introduzione di ulteriori ipotesi di stagionalità - per le quali non viene indicata a priori una durata massima - “dovute a particolari esigenze tecnico – produttive di tipo temporaneo e periodico”.
Egualmente, l’art. 14 del C.c.n.l. gas – acqua del 18 maggio 2017 considera “stagionali” le “punte eccezionali di attività, anche con riferimento alla procedura di gara, cui non sia possibile fare fronte con le risorse normalmente impiegate”. Rinvia inoltre alla contrattazione aziendale l’eventuale indicazione di ulteriori ipotesi da considerare come “attività stagionali”.
La citata disposizione collettiva include però, tra i casi esclusi dall’applicazione dell’art. 19 c. 2, e dell’art. 21 c. 2 del D. lgs. 81 del 2015, anche la sostituzione dei lavoratori assenti, con ciò estendendo il concetto di stagionalità anche ad ipotesi tradizionalmente non considerate tali.
Più articolata, in considerazione del largo uso del contratto a tempo determinato in tali attività, è la disciplina introdotta per il lavoro nell’industria alimentare. Il C.c.n.l. del 27 ottobre 2012 ha infatti confermato la validità dell’accordo del 17 marzo 2008, attuativo dell’art. 5, c. 4 ter del D. lgs. 368 del 2001, che per la ragioni già esposte mantiene la sua validità anche nella vigenza del D. lgs. 81 del 2015.
Tale accordo precisa in via preliminare che il concetto di attività stagionale “si è nel tempo significativamente modificato ed ampliato, estendendosi da una stagionalità legata alla disponibilità delle materie prime ad una stagionalità di consumo, fortemente condizionata dalla domanda del consumatore”.
In aggiunta a quanto previsto dal D.p.r. 1525 del 1963, l’accordo qualifica dunque come stagionali quelle “attività produttive concentrate in periodi dell’anno e finalizzate a rispondere ad una intensificazione della domanda per ragioni collegate ad esigenze cicliche e alle variazioni climatiche, o perché connesse con le tradizionali e consolidate ricorrenze e festività e per iniziative promo pubblicitarie, per un tempo limitato”. Nello stesso ciclo di attività stagionale, il singolo contratto e le eventuali proroghe di questo devono essere contenuti nel tempo strettamente necessario, e non possono comunque eccedere gli otto mesi.
Nel settore dell’igiene ambientali invece l’autonomia collettiva – con minime variazioni lessicali tra l’art. 11 del C.c.n.l. dei servizi ambientali del 10 luglio 2016 e l’art. 11 del C.c.n.l. Assoambiente del 6 dicembre 2016 – considera attività stagionali i servizi di spazzamento, raccolta, trasporto, smaltimento e trattamento dei rifiuti “in relazione ed esigenze cicliche, anche contrattualmente previste, nonché a maggiori flussi stagionali nelle località di interesse turistico o climatico ovvero in relazione a tradizionali e consolidate ricorrenze e festività”. Anche in questo caso, dunque, si fa riferimento ad esigenze di natura temporanea, ancorché cicliche, ricorrenti e programmabili da parte del datore di lavoro.
Un’ipotesi di stagionalità – o meglio di legittima apposizione del termine per incrementi produttivi – specificamente identificata dal legislatore era contenuta nell’art. 2, c. 1 del D. lgs. 368 del 2001, che aveva sostanzialmente riprodotto la disciplina previgente per il lavoro a termine nel settore aeroportuale .
Le imprese operanti nel settore del trasporto aereo, o esercenti i servizi aeroportuali , potevano infatti concludere contratti di lavoro a tempo determinato anche in assenza delle ragioni tecniche, produttive, organizzative e sostitutive richieste dall’art. 1 del D. lgs. 368 del 2001, purché i lavoratori assunti fossero adibiti ai servizi merci, di assistenza a bordo dei passeggeri, ed a quelli operativi di terra e di volo.
Tale facoltà incontrava però un limite di carattere temporale, in quanto era ammessa per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, ovvero di quattro mesi diversamente distribuiti. Inoltre tali assunzioni non potevano eccedere il quindici per centro degli addetti ai servizi in questione, percentuale che poteva essere aumentata negli aeroporti minori, su autorizzazione della direzione provinciale del lavoro.
Tale norma non è stata riprodotta nel D. lgs. 81 del 2015, per cui anche nel predetto settore economico dovrebbero trovare applicazione le regole di carattere generale (ed in particolare quelle relative ai limiti temporali all’utilizzo del contratto a termine, ed alla necessaria presenza delle ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine, indicate nell’art. 19 c. 2 del D. lgs. 81 del 2015). Tuttavia, ciò arrecherebbe ancora una volta un notevole pregiudizio ai lavoratori, che, in presenza di ragioni oggettive in ordine all’apposizione di un termine al contratto di lavoro, verrebbero sostituiti da altri soggetti, una volta esaurito il periodo di legittimo utilizzo presso l’impresa del settore.
Il verbale di accordo dell’1 ottobre 2014 per il settore aeroportuale, in relazione ai limiti temporali previsti dall’art. 5 c. 4 ter del D. lgs. 368 del 2001 “e successive modifiche ed integrazioni”, aveva “confermato” (rectius affermato) la natura stagionale dell’intera ipotesi descritta dall’allora vigente art. 2 del predetto decreto.
Tale qualificazione dell’attività come stagionale non viene meno in considerazione della abrogazione della disciplina speciale, atteso che la volontà delle parti collettive era stata chiara, nel senso di sottrarre i contratti sottoscritti nei periodi in questione alle limitazioni introdotte per i rapporti di lavoro a termine privi del requisito della stagionalità.

6. Il D. lgs. 81 del 2015 non attribuisce al Giudice alcun potere di sindacare direttamente il contenuto delle clausole contrattuali, né tantomeno di valutare la loro conformità ad una (inesistente) nozione legale di stagionalità. Tuttavia, ove ciò sia possibile, l’interpretazione delle disposizioni sopra indicate dovrebbe essere conforme al diritto comunitario, e dunque, in presenza di più opzioni interpretative, dovrebbe essere preferita quella che limiti la validità dell’assunzione alla presenza di esigenze di natura oggettiva e temporanea (ad esempio l’incremento di attività legata a particolari esigenze del ciclo produttivo).
Spetta invece al giudice verificare l’esistenza di un effettivo nesso causale tra le esigenze stagionali e l’assunzione del lavoratore. Questa è di facile dimostrazione, nel caso delle attività che sono limitate soltanto ad alcuni periodi dell’anno.
Nelle altre ipotesi – ad esempio in caso di incrementi stagionali dell’attività – non basta la mera coincidenza cronologica tra le esigenze produttive stagionali ed il contratto di lavoro a tempo determinato, per affermare la legittimità di quest’ultimo. Occorre invece che tra la situazione produttiva legittimante l’apposizione del termine, e ciascun contratto, sussista un nesso di causalità, per cui il negozio costituisce la conseguenza dell’esigenza imprenditoriale giuridicamente rilevante .
Il giudice non può sindacare la scelta dell’imprenditore, ma è tenuto a verificare se l’impiego temporaneo del lavoratore risponda alle esigenze che l’imprenditore ha dichiarato al momento della stipula del contratto . La conclusione di un contratto a tempo determinato non potrà quindi essere giustificata semplicemente assumendo l’esistenza di esigenze stagionali. Il datore di lavoro dovrà invece provare il legame tra queste e l’assunzione a tempo determinato.
Tale dimostrazione può essere data soltanto a posteriori, accertando quali siano stati i compiti effettivamente assegnati al lavoratore, e la loro reale connessione con l’esigenza imprenditoriale giustificatrice. In proposito, nella vigenza della l. 230 del 1962 la giurisprudenza di legittimità aveva aderito ad un’interpretazione restrittiva della disposizione, in forza della quale il lavoratore non avrebbe potuto essere adibito a mansioni che non si identificassero oggettivamente con quelle proprie della lavorazione stagionale per la quale era stato assunto, o non fossero ad essa strettamente complementari ed accessorie .
Tale orientamento era stato oggetto di rilievi critici, in quanto in contrasto con l’interpretazione più permissiva, seguita dalla giurisprudenza in materia ad esempio di sostituzioni “a cascata” . Tuttavia, in considerazione della rilevata necessità che l’apposizione del termine sia giustificata da esigenze oggettive, l’adibizione del dipendente assunto a tempo determinato ad attività prive del requisito della stagionalità non pare possa essere ritenuto legittimo, nemmeno nell’attuale assetto normativo.

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