Testo integrale con note e bibliografia

1.-Come si sa, dopo l’esperienza pandemica si è molto discusso della necessità di adeguare la legislazione in materia di lavoro a distanza, con riguardo alla variegata tipologia emersa da oltre vent’anni a questa parte . Assai controverse sono però ampiezza e profondità di questo adeguamento.
Nel settore privato la scelta del protocollo del 7.12.2021 voluto dal Ministro del lavoro Orlando – e suffragata da un nutrito tavolo dei rappresentanti delle parti sociali - è stata forse low profile, ma lungimirante. Riattivazione di un largo e intenso dialogo sociale, valorizzazione della contrattazione già esistente, aperture alla diversificazione settoriale e organizzativa, attenzione alla concretezza del work-life balance, conservazione dell’accordo individuale ma dentro un contesto che – al netto della contrattazione collettiva e di un unilateralismo congenito al potere imprenditoriale – può essere reale per le alte professionalità. Insomma piccoli passi avanti dentro il quadro legislativo esistente, innovato poco e con prudenza, ma in modo da apparire solido e promettente.
Nel privato comunque molti problemi restano, anche perchè le parti sociali non hanno voluto sciogliere un nodo di fondo, cioè l’ambigua collocazione del lavoro agile tra autonomia (sostanziale) e subordinazione (formale) .
Però, pur senza sciogliere questo nodo complesso, molti sono i problemi delicati su cui si interviene. In questo scritto vorrei mettere a confronto selezione e soluzioni contenute nel protocollo con quelle che emergono sia nel panorama giuridico sovranazionale sia nel limitrofo settore del lavoro pubblico italiano. Ne potrà risultare rischiarato il pezzo di strada ancora da compiere.
Le scelte fatte dal protocollo Orlando possono essere così sintetizzate: a) non toccare la disciplina legislativa esistente (artt. 18-24 della l. 81/17); b) sostenere il ruolo della contrattazione collettiva; c) ribadire e rafforzare il ruolo dell’accordo individuale già previsto dalla l. 81/17.
Sia chiaro: pur non potendola direttamente toccare, il protocollo introduce un importante correttivo di fatto alla legislazione in materia, cioè un inedito apprezzamento e un conseguente rilancio della contrattazione collettiva. Questa nel settore privato non è una scelta politica astratta o ideologica o ipotetica, ma, al contrario, è un dato di realtà e un’indicazione di tutti i principali soggetti collettivi che operano nel nostro paese. Occorre però intendersi bene su questo dato di realtà. La contrattazione collettiva sul lavoro agile nel settore privato è un fenomeno reale – concretizzatosi in svariate centinaia di contratti, soprattutto aziendali, siglati prima, durante e dopo la pandemia – dal quale il protocollo prende le mosse e che la normativa del 2017 non vietava e non promuoveva. Da questa angolazione si tratta di una realtà di cui l’ordinamento prende atto. Però il protocollo vuole anche avere un altro significato: fare di questa realtà il perno di un nuovo assetto regolativo. Da quest’altro versante la contrattazione collettiva per il lavoro agile cessa di essere un mero fenomeno fattuale e diventa realtà giuridica, cioè un passaggio necessario affinchè la nuova fattispecie venga regolata in modo equilibrato e solido . Tutto nella tipica tradizione italiana di un sistema di relazioni industriali che prova ad anticipare un’evoluzione legislativa che ancora non appare pienamente matura.
Se si coglie questa novità, molte altre cose si possono capire meglio e vanno a fuoco tanto gli apprezzamenti come le critiche. In particolare il rinnovato ruolo dell’accordo individuale, ritenuto da qualcuno poco più che una conferma del pregresso assetto legislativo finalmente “sdoganato” da tutti i soggetti collettivi ; e da qualcun altro una scelta scontata e connaturata alla “sartorialità” del lavoro agile inevitabilmente in contraddizione con il ruolo più marcato riconosciuto dal protocollo alla contrattazione collettiva . In verità a mio modo di vedere non si tratta nè di una cosa nè dell’altra. Più banalmente con l’entrata in campo della contrattazione collettiva – dal protocollo trattata come fonte necessaria del lavoro agile – l’accordo individuale – che formalmente torna indispensabile con il finire della legislazione emergenziale (ad oggi 31.3.2022)– deve trovare una sua collocazione new normal: cioè more solito subordinata alla fonte collettiva, salvo per ambiti e professionalità nelle quali la contrattazione collettiva o non c’è o non ha presa giuridica.
Certo anche a tal riguardo una riforma legislativa avrebbe potuto far di più, ma è inutile addebitare al protocollo mancate scelte al riguardo; al contrario anche qui le scelte sono frutto consapevole della rinuncia a promuovere una riforma della legislazione in materia, temuta assai più delle ambiguità di quella esistente.
Cionostante qualcos’altro il protocollo ha fatto; mentre, per altri versi, avrebbe potuto fare di più.
Ciò che ha fatto è mettere a frutto l’esperienza del lavoro agile “pandemico” a proposito del work-life balance e del lavoro agile come modalità per far lavorare meglio chi è in condizioni soggettive di fragilità. In particolare a mio avviso è molto importante aver scritto nero su bianco che il lavoro agile non è in se stesso uno strumento che agevola le lavoratrici . Anche se agile il lavoro deve sempre essere accompagnato da accorgimenti che favoriscano la conciliazione vita-lavoro o, ancor meglio, “l’effettiva condivisione delle responsabilità genitoriali” (art. 9 comma 2).
Quel che il protocollo non ha fatto è invece andare oltre una generica affermazione del diritto del lavoratore agile “allo stesso trattamento economico e normativo complessivamente applicato” ai lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dei locali aziendali (art. 9 comma 1). Qui sembra prevalere un approccio omologante, cioè il contrario di quel che il vero lavoro agile potrebbe richiedere . Così si rischia di indirizzare anche la futura contrattazione collettiva verso regole inutili o di difficile applicazione, lasciando al contempo ampi margini per regolazione migliorative ad personam sottratte ad ogni criterio equitativo.
L’altro punto sul quale non tutto convince è il diritto alla disconnessione. Pur essendovi maggiore impegno regolativo rispetto alla l. 81/17, anche sulla falsariga dei contratti collettivi esistenti, restano margini di genericità che potevano essere ridimensionati e che vengono affidati alla futura contrattazione collettiva con tutti i rischi di eccessiva frammentazione di un diritto che appare fondamentale per evitare che il lavoro agile diventi un “lavoro senza fine” .
In ogni caso molte delle scelte fatte dal protocollo sono formulate come linee di indirizzo per la contrattazione collettiva, alla quale sono sostanzialmente rimessi gli sviluppi di una “nuova normalità”. Perciò può dirsi che il protocollo riapre un percorso regolativo innovativo, valorizzando tutto ciò che si è rinvenuto lungo la strada già percorsa, con particolare affanno, ma anche ricchezza, nell’ultimo biennio. Però resta ancora tanto da fare. E per questo appare interessante ed utile vedere ora, seppure brevemente, cosa pensano di fare o hanno fatto “gli altri”, cioè ordinamenti giuridici in stretto rapporto con il nostro diritto del lavoro e coloro che in questi anni si sono occupati più da presso nel nostro paese del lavoro pubblico, seguendo percorsi caratterizzati forse più del solito da una forte alternanza di convergenze e divergenze con il settore privato.
2.- Se si guarda fuori dai confini italiani molti sono gli elementi da tener presenti, anche per andare oltre i pur preziosi equilibri consolidati con il protocollo. Naturalmente qui è possibile fare solo accenni assai fugaci, mentre sarebbe interessante indagare a fondo le linee regolative che emergono sia nel diritto dell’Unione europea sia in altri Stati a noi vicini.
Per quanto riguarda il diritto europeo vigente due sono gli elementi da tener presenti. Uno è piuttosto risalente, cioè l’accordo quadro europeo sul telelavoro del 16 luglio 2002. L’altro invece è molto più recente, cioè l’accordo europeo sulla digitalizzazione del giugno 2020. Entrambi presentano profili problematici per il nostro diritto del lavoro.
L’accordo sul telelavoro – attuato nella maggior parte dei paesi Ue con legge (Belgio, Bulgaria, Croazia, Estonia, Francia, Grecia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Ungheria) o con contratti collettivi dotati di incisiva efficacia giuridica (Danimarca, Germania, Svezia) – nel settore privato italiano è stato attuato con un accordo interconfederale del 9.6.2004 dalle ampie adesioni, ma dalla nota debolezza normativa. Ciononostante – prevedendo vincoli e ampi rinvii alla contrattazione collettiva di livello inferiore – l’esistenza di questo accordo è stato ritenuto uno dei motivi per introdurre nel 2017 una disciplina legislativa in materia di lavoro agile – che nel diritto italiano, come noto, è fattispecie distinta dal telelavoro (ancorché di difficile individuazione) – che tiene in assai poco conto il ruolo della contrattazione collettiva. C’è poi da tener presente che la nozione di telelavoro nell’accordo europeo sembra sufficientemente ampia da ricomprendere anche il telelavoro alternato caratterizzato da “regolarità”, cioè una modalità di lavoro a distanza molto simile al nostro lavoro agile .
L’accordo europeo sulla digitalizzazione – impiantato, pur con i noti limiti strutturali, sull’ art. 155.2 del TFUE – affronta molte questioni che incrociano l’utilizzazione di tecnologie digitali e di intelligenza artificiale da parte delle imprese con la tutela delle condizioni di lavoro. Oltre a contenere un marcato indirizzo a favore del coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori (anche aziendali) in generale e soprattutto sui profili dell’integrità psico-fisica e della formazione specifica dei dipendenti, l’accordo presta particolare attenzione alle modalità di connessione e disconnessione, rimarcando la necessità di evitare che i lavoratori rimangano “eccessivamente connessi”. Qui, oltre a misure di tipo culturale, formativo, organizzativo, si precisa che “il raggiungimento degli obiettivi organizzativi non dovrebbe richiedere la connessione fuori dell’orario di lavoro”. Infatti si prevede che “il lavoratore non è obbligato a rendersi contattabile fuori dell’orario di lavoro previsto dalla legge, dalla contrattazione collettiva e dal contratto individuale”; e che “va riconosciuta una adeguata remunerazione per il tempo aggiuntivo lavorato”.
Questi principi – non innovativi per il nostro ordinamento, ma importanti proprio a livello europeo – inducono a rafforzare, da un lato, il ruolo della contrattazione collettiva in materia di lavoro a distanza digitale e, dall’altra, a riempire di contenuti la regola secondo cui deve esistere un vero e proprio diritto alla disconnessione “fuori dell’orario di lavoro” specificamente previsto dalla sequenza di fonti indicata nell’accordo europeo (legge/contratti collettivi/accordo individuale). Su entrambi i punti appare difficile uscire dal piano generico dei principi, ma, se non se ne esce, il diritto alla disconnessione appare destinato ad essere ben poca cosa, addirittura una tautologia giuridica.
L’accordo sulla digitalizzazione non risulta ancora trasposto in nessun paese (il termine scade nel 2023). Vari Stati europei – pur avendo, al contrario dell’Italia, poco innovato la legislazione durante la pandemia - hanno però manifestato una notevole consapevolezza della necessità di regolare meglio il fenomeno della remotizzazione del lavoro e, in particolare, il diritto alla disconnessione. Hanno così rafforzato la legislazione esistente in materia di lavoro a distanza (Portogallo, Spagna) o addirittura adottato per la prima volta disposizioni legislative, pur in presenza di una significativa esperienza di contrattazione collettiva (Belgio). Ovviamente questo non significa che si siano risolti tutti i problemi, anche con riguardo al diritto alla disconnessione, che pure è stato l’istituto più toccato. Però l’accordo europeo sulla digitalizzazione e la spinta a rafforzare le tutele della legge, unitamente a quelle della contrattazione collettiva, sembrano indicare una direzione piuttosto chiara: è necessaria complementarità e compattezza delle fonti sul lavoro digitale a distanza, a partire da una normativa legale particolarmente attenta alle maggiori criticità. Delle criticità fa certamente parte il diritto alla disconnessione.
Questo fuggevole accenno a quanto accade fuori dai nostri confini deve essere completato anche con necessari riferimenti ad alcune prospettive de iure condendo che riguardano il diritto dell’Unione. Qui è anzitutto emersa, qualche mese fa, la proposta di “una procedura a livello dell’UE” (credo si alluda a una direttiva) per regolamentare “il contratto di lavoro a distanza europeo” , proprio con l’obiettivo di fornire delle tutele comuni a tutti gli Stati, in considerazione, da un lato, della necessità di favorirne la diffusione e dall’altro dei particolari (e aggiuntivi) rischi di dumping cui espone l’ampliamento della possibilità di organizzare il lavoro digitale a distanza con flessibilità crescente e ampia invasione della vita privata dei lavoratori (la ormai ben nota time porosity). Forse una direttiva, specie con oggetto ampio, è uno stadio ulteriore e una fuga in avanti, da valutare dopo un primo bilancio anche dell’attuazione dell’ultimo accordo europeo (che comunque ha un oggetto parziale). Ma i legislatori e i Governi nazionali, nell’intervenire sulla ormai vasta materia del lavoro digitale a distanza, dovrebbero avere ben presente anche questa prospettiva che potrebbe diventare necessaria.
Ancor più dovrebbero farlo se si tiene conto degli ulteriori sviluppi maturati sempre nel 2021, allorché il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione (2019/2181(INL) volta a promuovere l’approvazione di una direttiva proprio sul diritto alla disconnessione per garantire ai lavoratori “un sistema oggettivo, affidabile e accessibile che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro svolto da ciascun lavoratore, nel rispetto del diritto dei lavoratori alla vita privata e alla tutela dei dati personali”, comprensivo del diritto “di richiedere e ottenere il registro del loro orario di lavoro” (art. 3 della proposta di direttiva allegata alla Risoluzione). Anche i tempi di approvazione di tale direttiva non appaiono brevi , ma la sua sola esistenza segnala l’importanza di intervenire almeno sul diritto alla disconnessione.
3. Nel lavoro pubblico italiano è invece accaduto che durante la pandemia – divenuta anche digi-demia - tutte le strumentazioni del digitale hanno potentemente investito la prestazione lavorativa dei dipendenti pubblici che è stata più o meno coattivamente “esportata” nell’infosfera senza però che vi fosse il tempo di adeguare cultura e strutture del lavoro e delle organizzazioni.
La dimensione quantitativa che il fenomeno ha assunto si è riverberata sulla qualità dei problemi e sulla conseguente difficoltà di rinvenire soluzioni adeguate e tempestive. Sarebbe comunque del tutto sbagliato ritenere che il processo non sia stato governato, anzitutto sotto il profilo giuridico-normativo. Non solo nuove regole, spesso a ritmo serrato e con le note difficoltà applicative. Ma anche qualche buona, invenzione, non rivoluzionaria magari ma di interessante profilazione. Mi riferisco soprattutto al Piano organizzativo del lavoro agile (in seguito POLA), che, emerso a ridosso dell’estate 2020 (art. 263.4 del d.l. 16.7.2020 n. 76, che modifica l’art. 14.1 della l. 124/15), ha fatto un pò di strada all’interno delle amministrazioni, riuscendo a veicolare mutamenti culturali, organizzativi, tecnologici e, persino, nelle relazioni sindacali. Tutti peraltro all’insegna della sperimentazione e di quella sorta di sospensione di tempi e certezze indotta dalla pandemia .
Purtroppo il POLA ha peccato gravemente in un punto: si è cioè avventurato nell’indicare le quantità percentuali di lavoro agile da introdurre nelle amministrazioni, arrivando a prefiguare entro tempi brevissimi percentuali oggettivamente molto alte, come il 60% dei dipendenti. Percentuali da rapportare alle attività “smartabili” – e questo ne salva sia la logica sia la legittimità costituzionale – ma comunque talmente alte da scoperchiare il vaso dei sogni come degli incubi, entusiasmando i neofiti ma allarmando chi guarda con gli occhi del passato al lavoro pubblico. Anche se il POLA non perdeva di vista la dura realtà dell’organizzazione quotidiana dell’azione amministrativa anche digitalizzata, come dimostrano le interessanti, anche se un pò tardive, linee-guida adottate dalla Funzione pubblica nel dicembre 2020.
Con prudenza e tempestività si sono poi ridotte le quantità di lavoro agile imposte nella misura minima al 15% (d.l. 56/21 di aprile, poi art. 11bis della l. 87/21 di giugno), lasciando alle amministrazioni una più analitica scelta basata sulle specifiche “condizioni di salute” informatica, organizzativa, gestionale, ecc. da indicare nei POLA. Nel mentre andavano avanti le proposte di nuova disciplina per pubblico e privato, da affidare anzitutto alla contrattazione collettiva e, in secondo luogo, alla legge.
Tra luglio e agosto 2021 nel futuro governato ha fatto irruzione il recente passato dominato dal COVID-19 con tutte le sue varianti e tutti i suoi nodi irrisolti. E, ironia della sorte, quel passato si è infilato nelle vesti digitali del green pass. Uno strumento impensabile senza l’infosfera, alla quale è stata affidata la difficile missione di riportare tutti nella realtà fisica, rivelatasi ancora una volta vitale per rilanciare le attività economiche, culturali, sociali in genere . Dopo questa svolta le sfide della pandemia sono in parte mutate, assumendo anche una inusuale radicalità proprio riguardo al lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni .
In astratto, se si fosse ripreso il filo rosso delle riforme del lavoro pubblico partendo proprio dalla l. 81/17, si sarebbe dovuto puntare ad un rapido superamento della singolare divaricazione regolativa tra pubblico e privato che si è verificata durante la pandemia. Ripercorrerne per intero l’evoluzione, con tutte le sue singolarità, sarebbe qui digressivo e inutile. Però mi pare interessante sottolineare che il diritto pandemico ha per entrambi i settori anzitutto impresso una svolta autoritario/sanitaria al lavoro agile, trasformandolo per tutti in una misura disposta unilateralmente dal datore di lavoro in chiave di dispositivo di protezione individuale e della salute pubblica. Questo ne ha favorito un’indubbia diffusione a macchia d’olio nel privato e nel pubblico. Nel primo però ne sono rapidamente emerse tutte le potenzialità per massimizzare produttività aziendale e benessere lavorativo (salvo l’esplosione della questione della tutela della privacy, intendendo per tale anche la conservazione di una solida barriera tra lavoro e vitali attività extralavorative): con conseguente adeguamento degli accorgimenti organizzativi e regolativi (incluso un significativo sviluppo della contrattazione collettiva, specie aziendale) che hanno fatto intravedere un probabile assestamento in quantità notevoli di un vero e proprio lavoro agile anche dopo la pandemia, almeno nelle imprese di maggiori dimensioni e soprattutto nel terziario . Ciò per un verso ha indotto ad allungare fino alla fine dell’emergenza sanitaria (31 marzo 2022) il periodo in cui non è richiesto l’accordo individuale per l’attivazione del lavoro agile. Mentre, per altro verso, ha reso meno urgente una riforma legislativa della l. 81/17, rinviata proprio grazie al protocollo del 7 dicembre 2021, volto, come si è detto, a favorire ancor più una disciplina a ridosso della fenomenologia emergente nelle diverse situazioni.
Nel pubblico il periodo “pandemico” ha prodotto un’esperienza consistente ma molto meno sintonica con le esigenze di regolazione/gestione della complessa e articolata macchina organizzativa. Si è passati infatti da un’enfasi eccessiva sul lavoro agile come “modalità ordinaria” di svolgimento della prestazione del dipendente pubblico (art. 87.1 del dl. 18/20) ad un repentino dietrofront (dPCM del 24/9/21, seguito dal DM Funzione Pubblica dell’8./10/2021) a partire da fine ottobre/inizi novembre 2021, con contestuale ripristino dell’accordo individuale e adozione di linee guida regolative (peraltro rimaste in una singolare informalità) dirette ad anticipare una nuova disciplina contrattuale, di livello essenzialmente nazionale, annunciata (v. art. 263.1 d.l. 19.5.2020 n. 34, conv. in l. 17.7.2020 n. 77, modificato dal d.l. 56/21) e però ancora non formalmente approvata (il primo contratto di comparto post-pandemia – quello delle Funzioni centrali – è stato siglato, ancora sotto forma di ipotesi – solo il 5 gennaio 2022). A seguito di questi sviluppi, siamo ora dinanzi ad un lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni dove più rapido è stato il ritorno all’assetto formale della l. 81/97, ma in una situazione di confusione regolativa più accentuata. Il ritorno ad un accordo individuale molto burocratizzato – e da sempre poco armonizzabile con gli standard gestionali del lavoro pubblico - si accompagna a normative regolamentari varie che mentre intendono diradare il ricorso al lavoro agile, ne prescrivono un utilizzo “a rotazione” e preludono ad una contrattazione collettiva lontana dalle dinamiche micro-organizzative, insolitamente anticipata dalle già citate linee-guida del Ministero della Funzione pubblica prive di una precisa formalizzazione (comunque sono state presentate per il parere della Conferenza Stato-Regioni il 16 dicembre 2021). Salvo poi criptiche smentite – o ripensamenti ben mascherati – come quella contenuta nella circolare congiunta Brunetta-Orlando del 5 gennaio 2022 in cui, mentre sembra tornare una convergenza tra pubblico e privato, si conferma che nel lavoro pubblico la prestazione in presenza deve essere prevalente pur potendosi “la prevalenza del lavoro in presenza indicata nelle linee guida …essere raggiunta nella media della programmazione plurimensile”.
Mi pare abbastanza chiaro che in questa situazione creata da una tortuosa fuoriuscita dall’emergenza pandemica, sarà difficile (ri)avere medesime regole per pubblico e privato. Mentre infatti si torna a discutere di una riforma della l. 81/17 , rimane una siderale distanza di fondo causata da cultura e prassi organizzative che ancora distanziano enormemente privato e pubblico, rendendo quest’ultimo, pur nella sua eterogeneità, poco preparato a gestire adeguatamente il lavoro agile in significative dimensioni.
Perciò non c’è da meravigliarsi se nel pubblico restassero norme di legge dirette a dosare gli eccessi al ribasso o al rialzo del lavoro agile, spronando le amministrazioni a dotarsi di misure organizzative e atti programmatori volti a rendere più fertile il terreno per una più significativa remotizzazione del lavoro . Infatti, per non entrare in contrasto con il principio di buon andamento previsto dall’art. 97 Cost, tali norme devono tener adeguatamente presente che il lavoro agile richiede alcuni presupposti culturali, tecnologici, gestionali nonchè squisitamente organizzativi, che devono sussistere stabilmente in ogni amministrazione che decida di farne uso.
Si può dunque concludere sul punto rilevando che l’esperienza della pandemia ha posto fine alla (breve) stagione dell’ingenuità in cui alle pubbliche amministrazioni si chiedeva di raggiungere percentuali, alquanto generiche, di lavoro agile al fine di garantire la migliore conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro (v. l’originario art. 14 della l. 124/2015). Non sarebbe però una buona notizia se dall’ingenuità dell’enfasi si passasse ad una stagione di vincoli più o meno dichiarati, all’insegna della sfiducia e della conservazione.
4. Più specificamente sull’accordo individuale si è visto che un migliore disegno regolativo è una delle sfide più complesse che ci attendono nella fase post-pandemica. In particolare nel lavoro pubblico il tema è stato ampiamente segnalato in dottrina , ma molto c’è da approfondire, specie in una prospettiva che richiede modifiche legislative rispetto agli equilibri rinvenibili nella l. 81/17, ormai superati. Vi è da presidiare anzitutto la genuinità dell’accordo individuale, anche in un contesto come quello pubblico nel quale un approccio classicamente burocratico non valorizza tramite l’accordo nè la funzionalità dell’azione amministrativa nè la sartorialità delle condizioni di lavoro. Occorrono regole e accorgimenti organizzativi che sostengano la capacità negoziale sia dei soggetti dirigenziali o paradirigenziali sia dei lavoratori uti singuli. E al riguardo non servono né la negoziabilità di obiettivi e progetti di lavoro, né troppi tavoli negoziali con le organizzazioni sindacali. Mentre un ambito di negoziazione realmente individualizzata potrebbe essere agevolata da una preventiva attività di “pulizia” del tavolo del negoziato individuale, sgombrandolo da materie e problemi che potrebbero essere oggetto di contrattazioni decentrate ben circoscritte (ad esempio in materia di infrazioni e potere disciplinare; di salario accessorio; di strumenti di lavoro e cybersicurezza); o di convergenze realizzate tra amministrazione e rappresentanti dei lavoratori negli organismi con funzioni partecipative (ad esempio sul coordinamento di attività in presenza e a distanza; sulla ottimizzazione della logistica ; sul coinvolgimento nella vita collettiva degli smart workers).
5. Purtroppo non sembra che gli sviluppi regolativi del lavoro pubblico vadano speditamente in questa direzione. Le già segnalate “smarginature” sul piano normativo – lungi dall’essere ricomposte – richiedono ancora di capire quale spazio nel sistema delle fonti nel lavoro pubblico possa avere la contrattazione collettiva.
Già ho detto che mentre nel lavoro privato abbiamo una corposa esperienza di contrattazione collettiva sul lavoro agile, nel lavoro pubblico si è ancora in attesa che risuoni compiutamente la prima nota di avvio, che deve venire dalla contrattazione di comparto dato l’assetto formale delle relazioni contrattuali per le pubbliche amministrazioni. Qui si paga lo scotto di stagioni contrattuali a lungo bloccate (dal 2010) per ragioni finanziarie e di scarsa lungimiranza gestionale che hanno prodotto, oltre ad una contrattazione integrativa routinaria o comunque con scarse ambizioni, una tardiva ripartenza della contrattazione di comparto solo nel 2018, con contenuti qualitativamente poco innovativi. Basti dire che il lavoro agile non è mai regolato (solo fuggevolmente menzionato nel comparto istruzione), nè esplicitamente previsto come materia negoziabile a livello integrativo. Cosicché tutta l’esperienza pandemica si è svolta con rarissime esperienze di discipline negoziate e un prevalente ricorso a normative unilaterali, spesso confluite in disciplinari di amministrazione dall’incerta natura giuridica, anche se oggetto di confronto con le organizzazioni sindacali (prescritto anche per l’adozione dei POLA). Insomma il lavoro agile nel pubblico ancora è alla ricerca di un approccio regolativo condiviso anche nella cultura sindacale oltre che in quella gestionale.
Non c’è da stupirsi allora che molto si confidasse nelle prime regole negoziate con l’Aran nel corso del 2021. Al punto che il legislatore aveva immaginato una fine anticipata dell’emergenza sanitaria e del regime unilaterale del lavoro agile man mano che fossero approvati i contratti collettivi nazionali (v. art. 263.1 del d.l. 19.5.2020 n. 34 conv. in l. 17.7.2020 n. 77, modificato dal d.L. 56/21). In realtà i tempi dei primi contratti di comparto si sono molto allungati. Alla prima ipotesi di contratto – per le Funzioni centrali – si è arrivati, come si è detto, solo a inizio gennaio 2022. Gli altri seguiranno, ma occorreranno vari mesi (ben oltre la fine dell’emergenza, ora fissata al 31 marzo 2022).
Anche nei contenuti queste prime regolazioni negoziali, sebbene indispensabili, appaiono molto caute e non danno indicazioni chiarissime e coerenti con l’esigenza, più volte segnalata, di avvicinare le regole del lavoro agile alle dinamiche innovative delle amministrazioni che vogliano sperimentare più coraggiosamente. Senza entrare in troppi dettagli, qualche regola chiarificatrice si rinviene in materia di diritto alla disconnessione – assai utile per porre un freno alla time porosity connaturata a questa modalità di lavorare - e di sicurezza sul lavoro e dei dati. Però i contratti aprono anche un fronte inedito, prevedendo una tipologia diversa dal lavoro agile che è denominata “lavoro da remoto” e che avrebbe la caratteristica di prevedere prestazioni a distanza accompagnate da vincoli di orari analoghi a quelli del lavoro in presenza. Questa tipologia sembrerebbe porsi a metà tra il lavoro agile ex l. 81/17 (che per tabulas è “senza vincoli di orari”, salvo il rispetto dei limiti massimi) e il telelavoro . E la sua “contrattualizzazione” non aiuta a chiarire il quadro normativo entro cui si devono muovere le amministrazioni.
Molti altri aspetti restano poi indefiniti, con qualche opzione di principio che non esclude del tutto scelte differenziate nelle amministrazioni (ad esempio in tema di buoni pasto ed altri trattamenti retributivi; di concreta localizzazione della prestazione in modo da realizzare la buona regola del far but close). Il problema è che tali scelte differenziate non hanno circuiti normativi ben delineati per esprimersi e produrre regole condivise e solide. Infatti il contratto nazionale non sembra abilitare la contrattazione integrativa con esplicito riferimento al lavoro agile, costringendo ad andare a compulsare materie e limiti posti in generale agli altri livelli di contrattazione . E questo può aprire forti contrasti nelle relazioni sindacali a livello di singola amministrazione, dove, come prima si diceva, non è ancora matura una cultura sindacale sul lavoro digitalizzato che contemperi tutti gli interessi e tutte le variabili in campo.
Insomma anche dopo la ripartenza della contrattazione nazionale resta aperto un duplice rischio: scaricare a livello decentrato troppi nodi da risolvere o emarginare del tutto la contrattazione decentrata. In entrambi i casi non si agevola una metabolizzazione equilibrata del lavoro agile e delle sue potenzialità.
Ci si poteva aspettare un potenziamento dei circuiti partecipativi. Anche qui si resta delusi, perchè il massimo che si prevede, almeno per le Funzioni Centrali, è un momento di “confronto” sui “criteri generali delle modalità attuative del lavoro agile e del lavoro da remoto nonchè (su)i criteri di priorità per l’accesso agli stessi” (art. 5.3 lett. g). Confronto esteso alle “attività che possono essere effettuate in lavoro agile” (art. 37.2), pur riconoscendosi (giustamente) all’amministrazione il potere unilaterale di individuare tali attività; e previsto anche dalla norma che impone alle amministrazioni di aver cura “di facilitare l’accesso al lavoro agile ai lavoratori che si trovino in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure” (art. 37.3). Per il resto tutto resta piuttosto genericamente affidato a preesistente istituti e prassi – come l’organismo paritetico per l’innovazione (OPI: v. art. 6.2) - che almeno per ora non risultano particolarmente vitali .
6. Traendo alcune brevi notazioni conclusive da questo raffronto del protocollo del 7.12.2021 con le tematiche regolative affrontate “dagli altri”, mi pare emergano alcune conferme, ma anche vari aspetti da affrontare.
La principale conferma sta nell’aver rilanciato il ruolo della contrattazione collettiva, che appare cruciale sia sul piano sovranazionale sia nel settore pubblico. Quest’ultimo però induce ad interrogarsi su due aspetti. Il primo è formale, riguardando il regime giuridico della contrattazione. Nel pubblico il chiaro ruolo di normativa eteronoma del contratto collettivo di qualsiasi livello, seppur tardivamente, ha assolto ad una funzione importante per colmare alcune lacune emerse nella prassi pandemica della remotizzazione del lavoro, ma ha probabilmente indotto a privilegiare una regolazione distante dai luoghi di lavoro. L’esatto contrario nel settore privato, dove probabilmente anche il regime giuridico meno problematico per gli accordi aziendali pare far pendere il baricentro del sistema negoziale verso il livello aziendale. Forse pubblico e privato dovrebbero convergere verso un assetto di maggiore equilibrio tra regole generali e regole negoziate più radicate nelle esigenze delle singole organizzazioni e dei lavoratori in carne ed ossa.
A quest’ultimo riguardo è importante aver ribadito la centralità dell’accordo individuale, che però resta da rendere più genuino, anche rafforzandone l’involucro normativo entro cui viene posto in essere.
In ogni caso non sembra che si possa eludere un miglioramento del quadro legislativo italiano del 2017, che mostra la corda sia in un panorama di diritto europeo e comparato sia in ordine alla necessità di irrobustire le tutele inderogabili in materia di separazione tra lavoro e sfera privata del lavoratore, una frontiera cruciale che, a dispetto di qualsiasi buona intenzione, rischia di sgretolarsi se gli individui vengono lasciati a se stessi.

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