Testo integrale con note e bibliografia

1. La Corte costituzionale, con sentenza n. 125/2022, ha di recente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 comma 7 secondo periodo St. lav. nella parte in cui prevede che l’insussistenza del fatto, per condurre all’applicazione della reintegrazione, debba essere connotata anche dal carattere manifesto. Alla base di tale statuizione vi è il riconoscimento dell’indeterminatezza di tale connotazione e della mancanza di un maggiore disvalore nell’accertamento di tale carattere manifesto, che di per sé non rende più grave il licenziamento .
Questa sentenza si colloca nel solco di una serie di interventi della Corte costituzionale (le sentenze nn. 194 del 2018, 150 del 2020 e 183 del 2022 sul Jobs Act, e la n. 59 del 2021 sull’art. 18 St. lav.), a loro volta strettamente interconnessi alle pronunce della Corte di Cassazione in materia di giustificato motivo oggettivo. Questa evoluzione si osserva tanto con riferimento all’interpretazione dell’art. 3 legge n. 604/1966 sulla fattispecie, quanto all’impianto sanzionatorio, che già sulla base del testo originario delle norme aveva alimentato sin dal 2012 un vivacissimo dibattito dottrinale .
Di conseguenza, i tempi sembrano maturi per tentare di riordinare ed analizzare i principali passaggi evolutivi nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, e valutarne le implicazioni anche sul piano sistematico.

2. In origine (18 luglio 2012, data di entrata in vigore della legge n. 92), il Giudice, in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, poteva reintegrare il lavoratore: la dottrina si è lungamente divisa tra un’interpretazione letterale di tale opzione e un’interpretazione adeguatrice del testo legale, tesa a leggervi in realtà un vero e proprio obbligo di reintegrazione per il giudice .
Con la sentenza n. 59 del 2021 si è stabilito che la manifesta insussistenza del fatto debba e non possa determinare la reintegrazione, ritenendo l’opzione irragionevole e priva di criteri univoci per la decisione demandata al giudice .
Era inevitabile che si giungesse a sondare anche la ragionevolezza del criterio dell’insussistenza “manifesta”, un requisito previsto solo per i licenziamenti per motivo oggettivo, da tempo considerato irrilevante dalla dottrina .
E anche in questo caso, proprio l’assenza di criteri certi sui quali radicare la distinzione tra insussistenza manifesta e non manifesta del fatto ha indotto il giudice delle leggi, con sentenza n. 125 del 2022, a dichiarare costituzionalmente illegittima anche la norma nella parte in cui prevedeva tale connotazione.

3. Quest’ultimo intervento della Corte, con una tecnica analoga a quella utilizzata nella sentenza n. 59 del 2021, elimina il frammento della disposizione che rende la norma contraria alla Costituzione (il carattere “manifesto” dell’insussistenza), senza che sia necessario un successivo intervento del legislatore, ed opera così una riscrittura della disposizione in conformità al dettato costituzionale .
Così, la mera, e non più la manifesta, insussistenza del fatto, determina necessariamente l’applicazione della tutela reale.
La declaratoria di illegittimità costituzionale produce effetto con la sola comunicazione del dispositivo, e non esclude l’estensione degli effetti della pronuncia ai rapporti giuridici sorti anteriormente ad essa, purché ancora pendenti e cioè non esauriti, intendendo per tali quelli che, in applicazione della disciplina precedente alla pronuncia, facciano ormai stato tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa o siano inoppugnabili per intervenuta prescrizione o decadenza .

4. Con la sentenza n. 125 del 2022, la Corte costituzionale non si limita a sancire l’eliminazione del requisito del carattere manifesto dell’insussistenza per l’applicazione della tutela reale.
Infatti, stando al tenore letterale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, vigente prima dell’ultimo intervento della Corte, il carattere manifesto dell’insussistenza, sia pure in modo ambivalente, rappresentava il criterio per la graduazione di gravità, interna alla nozione di ingiustificatezza, che caratterizzava il licenziamento ingiustificato meritevole della tutela reale in luogo di quella indennitaria , e ciò specialmente dopo la sentenza n. 59/2021 che aveva eliminato il potere di scelta del giudice del lavoro sulla sanzione da applicare.
Nel momento in cui la sentenza n. 125/2022 elimina questo criterio, a causa della sua ambivalenza, permane integra la necessità di distinguere tra l’insussistenza del fatto che conduce alla reintegrazione e le altre ipotesi di illegittimità del licenziamento per g.m.o. che conducono alla tutela indennitaria .
Si tratta indubbiamente di una distinzione difficoltosa, posto che secondo l’orientamento attualmente prevalente nella giurisprudenza di legittimità , e in linea con le sollecitazioni di parte della dottrina , “il riferimento legislativo alla manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie”.
Per tali si intendono, da un lato, le ragioni, comprensive del nesso causale tra esse e la scelta del singolo lavoratore, ormai considerato un corollario delle prime , dall’altro l’assolvimento dell’obbligo di ripescaggio, id est l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore.
I recenti interventi della Corte costituzionale sull’art. 18 St. lav. avallano la suddetta interpretazione della Cassazione, perché dopo aver ribadito il carattere di extrema ratio che deve connotare ogni licenziamento per g.m.o., riconoscono che il fatto all’origine del licenziamento non è identificato solamente con le ragioni di cui all’art. 3 legge n. 604/1966, ma anche con il nesso causale, e con l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore (repechage o prova di inutilizzabilità).
Il giudice delle leggi, dunque, recepisce l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità e supera quei primi tentativi della giurisprudenza di merito e di parte della dottrina , tesi a sottolineare la natura giurisprudenziale e non legale del requisito del repechage, oltre all’impossibilità di imporre la prova di un fatto giuridico per mezzo di un elemento negativo.
Di talché anche la singola carenza, ormai anche non più manifesta, di uno dei requisiti (ragioni e nesso, repechage) può integrare l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento .

5. Se qualsiasi licenziamento per g.m.o. di lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 conduce alla reintegrazione in mancanza di uno solo dei tre presupposti che integrano il g.m.o., l’applicazione della tutela indennitaria può specularmente essere concepita – come riconosce la stessa sentenza n. 125/2022 – solo in ipotesi nelle quali l’illiceità del recesso non discende dalla carenza dei requisiti della fattispecie. Difatti, come detto, la mancata prova dei (tre) requisiti del giustificato motivo oggettivo, singolarmente e congiuntamente considerati, si identifica con l’insussistenza del fatto.
Se ci si limitasse a questa considerazione, non esisterebbe più alcun margine di distinzione tra la nozione di fatto, di cui al secondo periodo del comma settimo, art. 18 St. lav., e la nozione di estremi del giustificato motivo oggettivo, di cui all’art. 3 l. n. 604 del 1966.
Invece, per la Corte costituzionale residua ancora uno spazio per la tutela indennitaria, quando l’illiceità discenda dalle modalità di esercizio del potere di scelta del lavoratore da licenziare all’esito dell’accertamento della necessità di soppressione. In particolare, quando tale scelta sia contraria ai principi di correttezza e buona fede, come a suo tempo suggerito dalla dottrina , dunque solamente nel caso di soppressione di posizioni lavorative rispetto alle quali sia occupato in azienda personale omogeneo e fungibile. Tutto ciò, beninteso, può essere accertato solo dopo aver verificato l’esistenza del fatto posto a base della decisione di ridurre il personale, ossia la necessità della soppressione del posto di lavoro, la cui mancanza comporterebbe comunque la reintegrazione .
Appare pertanto evidente come l’intervento della Corte costituzionale abbia delineato una norma assolutamente diversa rispetto alla voluntas legislatoris dell’epoca, che era orientata a circoscrivere la tutela reale alle sole ipotesi più gravi di illegittimità del licenziamento , ma non v’è dubbio che l’evoluzione del diritto vivente possa consentire interpretazioni correttive.

6. Un profilo critico attiene, dunque, alla necessità di attribuire un effettivo ambito applicativo all’art. 18, comma 7, terzo periodo, nella parte in cui applica la tutela indennitaria ad ipotesi di licenziamento privo di g.m.o. ma che siano al contempo connotate dalla sussistenza del fatto. Queste ipotesi devono esistere ed essere effettivamente individuate, al fine di riconoscere un ambito applicativo concreto alla disposizione di legge così come riformulata all’esito degli interventi della Corte Costituzionale, ed evitare che la stessa possa essere considerata una norma apparente.
Su questo punto l’interpretazione della Corte costituzionale, nell’accogliere gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, mostra i maggiori profili di delicatezza argomentativa.
Infatti, nel licenziamento disciplinare, dove pure è prevista un’alternativa tra tutela reale e indennitaria ai sensi dei commi quarto e quinto dell’art. 18 St. lav., questo dualismo appare ancora configurabile, seppure in ambiti molto ridotti , poiché si può perlomeno ancora ipotizzare, in via generale, la sussistenza di un illecito disciplinare che non sia punito con sanzioni conservative sulla base delle previsioni dei contratti collettivi, ma per il quale sia considerata comunque sproporzionata la sanzione del licenziamento disciplinare.
Nel licenziamento per motivo oggettivo, invece, dopo l’intervento della Corte cost. n. 125/2022, l’unico elemento rimasto per sostenere che l’art. 18, comma 7, terzo periodo St. lav. abbia ancora un margine di applicazione concreto si individua esclusivamente nella (particolarissima) ipotesi della violazione dei criteri di scelta nel caso in cui vi siano più maestranze adibite a mansioni fungibili.
Ma il terzo periodo del comma settimo fa riferimento ad “altre ipotesi nelle quali non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo”: dunque si potrebbe ritenere che tali ipotesi debbano essere necessariamente più di una, mentre il giudice delle leggi ne indica solo una e non paiono configurabili altre.
Peraltro, a stretto rigore, la ricorrenza della violazione dei criteri di scelta potrebbe non configurare neppure un’ipotesi nella quale non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo (i quali anche in tal caso, come detto, sono tutti e tre sussistenti), bensì un’ipotesi di illegittimità del licenziamento generata dall’esercizio del potere di recesso in contrasto con i generali principi di correttezza e buona fede.

 

7. Nell’ipotesi del licenziamento per soppressione di personale omogeneo e fungibile, a ben vedere, l’applicazione di criteri di buona fede e correttezza , tendenzialmente riconducibili in via analogica ai criteri sussidiari di cui alla legge n. 223/1991 , seppure non automaticamente , non è solamente effettuata a valle della decisione di sopprimere il posto di lavoro.
Come è stato sottolineato , infatti, tale applicazione opera specularmente ed alternativamente ai criteri del nesso di causalità e della impossibilità di ricollocazione (in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili).
Svolgendo questo ragionamento, si potrebbe riscontrare un certo grado di incongruenza nella distinzione tra mancato assolvimento dell’onere probatorio sull’inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni funzionali, e mancato assolvimento dell’onere probatorio sulla corretta individuazione del lavoratore da licenziare tra le varie posizioni funzionali.
In altri termini, potrebbe essere giuridicamente labile sostenere, da un lato, che la mancata prova di inutilizzabilità della prestazione, per definizione effettuata a valle, in un momento successivo alla scelta imprenditoriale di procedere al licenziamento , debba rientrare – usando le parole della Corte – tra “i vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso” e, dall’altro, affermare che proprio il requisito elaborato dalla giurisprudenza in sostituzione di tale verifica, non attenga al fatto, e dunque non conduca all’invalidità dell’atto espulsivo.
La labile distinzione può essere ricostruita nei seguenti termini. Nel caso dell’obbligo di repechage il ricollocamento va valutato ad organizzazione invariata o, più precisamente, senza incidenza sulla posizione degli altri lavoratori e senza necessità che venga intimato alcun atto di recesso (di qui l’insussistenza del motivo).
Nel caso della violazione dei principi di correttezza e buona fede, invece, la scelta implica comunque il sacrificio della posizione di un collega e, quindi, conduce sempre e comunque ad un licenziamento per il medesimo motivo (che dunque sussiste in generale, pur dovendosi scegliere un altro soggetto).
Ad ogni modo è fin troppo evidente che il quadro giuridico creato dalla sentenza n. 59/2021 potrebbe generare a sua volta un’irrazionalità giuridica di sistema, impedendo una graduazione di tutele che deve avere un’effettiva portata applicativa ai sensi dell’art. 18 comma 7 St. lav., secondo e terzo periodo , peraltro secondo una chiara opzione di graduazione della gravità del comportamento datoriale .

8. Si impone una considerazione: l’unico esempio fatto dalla Corte costituzionale di ambito di applicazione della tutela indennitaria, è quello che, nei licenziamenti collettivi (artt. 4 e 24 l. n. 223/1991) determina sempre la tutela reale.
Al riguardo, è lecito domandarsi se sia (ancora) ragionevole questa differenziazione di tutele e su quali presupposti possa fondarsi. In passato, si poteva ritenere che tale differenziazione poggiasse sulla formulazione originaria dell’art. 18, comma 7, secondo e terzo periodo, St. lav., nella quale (solo per i licenziamenti individuali) era prevista una graduazione in base alla gravità del comportamento datoriale, tale per cui solo il licenziamento pretestuoso avrebbe condotto (o meglio potuto condurre, prima della sentenza 59/21) alla reintegrazione. Dopo gli interventi delle sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022, questa differenziazione non sussiste più .
Esistono indubbiamente argomenti per sostenere la ragionevolezza della distinzione: permane certamente la specialità della disciplina dei licenziamenti collettivi, tradizionalmente giustificata per il notevole impatto sociale delle procedure.
Come pure è noto che nei licenziamenti collettivi i criteri di scelta rappresentano un requisito espressamente previsto dalla legge , peraltro l’unico su cui si possa osservare un forte vaglio giudiziario, mentre nei licenziamenti individuali esiste un controllo giudiziale antecedente a tale verifica, quello sulla veridicità dell’esigenza aziendale rappresentata nella lettera di licenziamento per ridurre il personale.
Si potrebbe anche sottolineare il (tendenzialmente) maggiore numero di soggetti coinvolti dalla procedura di licenziamento collettivo, tale da giustificare una più forte deterrenza per i casi di errore.
E tuttavia non si può omettere di sottolineare come allo stato due fattispecie che presentano tratti identici dal punto di vista del soggetto tutelato (i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015), si vedano riconoscere tutele completamente differenti: oggi la violazione dei criteri di scelta, che è considerata l’unica meritevole della reintegrazione nel licenziamento collettivo, addirittura più grave dell’omissione della procedura di informazione e consultazione, è l’unica ipotesi che, invece, nei licenziamenti per g.m.o. plurimo di personale omogeneo, permette l’estinzione del rapporto e il riconoscimento della sola tutela indennitaria.

9. Non si può trascurare l’altra, parallela evoluzione della giurisprudenza di legittimità sulla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, alla cui stregua si possono considerare legittimi i recessi intimati per motivo “organizzativo”, svincolati cioè da esigenze di risparmio o perdite economiche.
In questa prospettiva, il fatto posto a base del licenziamento può identificarsi in un riassetto organizzativo, anche per mere finalità di lucro, purché preesistente alla scelta di licenziare ed effettivamente attuato , e le vicende economiche rilevano solo se specificamente addotte dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento .
Il giudice delle leggi, con la sentenza citata, elimina o comunque riduce sensibilmente i margini di applicazione della tutela indennitaria, di tal ché aumenta l’importanza di distinguere tra un licenziamento per giustificato motivo organizzativo “genuino”, che non viene sanzionato in alcun modo, e un licenziamento privo delle ragioni organizzative, che, per gli assunti prima del 7 marzo 2015, conduce ad una reintegrazione pressoché sicura.
E di fronte alle perplessità evidenziate a più riprese da parte della dottrina, preoccupata di ancorare la verifica dei presupposti delle scelte espulsive aziendali a dati obiettivi , è probabile che la giurisprudenza, già oggi attenta a contenere interpretazioni troppo liberistiche o con finalità elusive sul g.m.o. organizzativo , fornisca nuove e più precise delimitazioni della fattispecie.
In altri termini, la sentenza della Corte Costituzionale rende ancora più urgente una perimetrazione più precisa dei confini della fattispecie del giustificato motivo oggettivo di tipo organizzativo, poiché è proprio dalla sussistenza o dall’insussistenza del fatto (senza alcun altra connotazione) che transita il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro precedentemente occupato, con tutto quel che ne consegue in termini di tutela per il lavoratore e di certezza del diritto per le imprese.

 

10. Come ha ribadito in più occasioni la stessa Corte Costituzionale , le garanzie volte a temperare il «potere di recesso del datore di lavoro» sono sì «affidate alla discrezionalità del legislatore, sia nella scelta dei tempi sia dei modi d’attuazione», ma è pur vero che il legislatore non può introdurre tutele differenziate a fronte di fattispecie che presentino tratti identici .

11. L’interprete odierno potrebbe essere indotto a confrontare la sanzione per licenziamento privo di g.m.o. nella disciplina del Jobs Act e quella dell’art. 18 St. lav., così come ridisegnata dalle sentenze della Corte costituzionale. Infatti, nel sistema dell’art. 18 St. lav., a parte un’eccezione – quella della soppressione di personale omogeneo, che pure potrebbe suscitare perplessità (par. 7) –, nei licenziamenti per g.m.o. si applica sempre la tutela reale, mentre nel sistema del Jobs Act questo non accade mai.
La Corte costituzionale n. 194 del 2018 aveva ritenuto inefficace e irragionevole che due comportamenti di identica gravità comportassero tutele differenziate in base al solo dato dell’anzianità lavorativa, e in nome di questo ha imposto al giudice di utilizzare altri parametri, che sono poi quelli individuati dall’art. 8, legge 604/1966 e dall’art. 30, comma 3, legge n. 183/2010.
Ma proprio entro queste coordinate, non può sfuggire all’interprete come l’evoluzione giurisprudenziale abbia restituito un quadro radicalmente opposto rispetto a quello vigente nel 2015 e valutato nel 2018 dalla sentenza n. 194, che contrasta con gli stessi valori giuridici ivi affermati: un sistema nel quale, infatti, le tutele per licenziamento privo di uno o tutti gli estremi del giustificato motivo oggettivo sono di fatto determinate esclusivamente in base all’anzianità lavorativa (essere assunti prima o dal 7 marzo 2015).
Non v’è dubbio che tale impianto potrebbe rimanere indenne da vizi di legittimità costituzionale, ove l’interprete soffermasse l’attenzione sul fatto che questa differenziazione è frutto della scelta di un diverso legislatore: del resto per la Corte costituzionale, almeno di regola, «il fluire del tempo costituisce, di per sé, idoneo elemento di differenziazione delle situazioni soggettive» (sic in materia previdenziale, Corte cost. n. 409/1988 ) e le norme di carattere non retroattivo sono «espressione delle scelte discrezionali che competono al legislatore […] con il solo limite della loro non manifesta irragionevolezza» (ord. Corte Cost. n. 112/2013). Si tratta di scelte di differenziazione del regime applicabile in ragione del decorso del tempo che, come impianto sistematico, il giudice delle leggi sembra inequivocabilmente avallare anche con riferimento al Jobs Act .

12. Sembra invece più utile sviluppare anche con riferimento al Jobs Act una delle argomentazioni utilizzate dal giudice delle leggi nel pronunciarsi sull’art. 18 St. lav., ossia quella che impone un’identica risposta sanzionatoria tra licenziamento disciplinare e per g.m.o. per ipotesi di maggiore gravità.
Il principio evidenziato dalle sentenze nn. 59/2021 e 125/2022 è quello per cui, di fronte alla medesima gravità del comportamento datoriale, derivante dalla insussistenza della motivazione addotta, la conseguenza sanzionatoria non può essere diversa a seconda della qualificazione attribuita al licenziamento dal soggetto che commette la violazione (il datore di lavoro).
Per questo si è ritenuto inaccettabile che un licenziamento disciplinare pretestuoso ottenesse sempre la reintegrazione, mentre un licenziamento per g.m.o. pretestuoso potesse ottenere o non ottenere tale tutela in base ad una valutazione discrezionale del giudice o solo in caso di manifesta insussistenza .
In particolare, al punto 10.1 della sentenza della Corte n. 59/2021 si legge che è “manifestamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria”.
Ma proprio sotto questo profilo, ci si può domandare che cosa distingua un licenziamento per un riassetto organizzativo inesistente o basato su una sostituzione con un macchinario mai avvenuta nell’unità produttiva, da un procedimento disciplinare per inadempimenti non commessi dal lavoratore o allo stesso non imputabili, se non la mera scelta qualificatoria operata dal datore di lavoro.
Questo problema può dirsi ormai risolto nello Statuto dei lavoratori, dopo il duplice intervento della Corte costituzionale che riconosce, come detto, pressoché sempre l’applicazione della tutela reale anche per il g.m.o. e certamente in ogni ipotesi di licenziamento pretestuoso.
Questo problema non è invece affatto risolto nel d. lgs. n. 23 del 2015 , come si evince ictu oculi confrontando i commi 1 e 2 dell’art. 3 d. lgs. n. 23 del 2015, poiché nel licenziamento disciplinare, quantomeno a fronte di un licenziamento pretestuoso sotto il profilo dell’addebito (insussistenza del fatto contestato), si riconosce la tutela reale, mentre la mancanza dei requisiti del g.m.o., anche se radicale o palese (e dunque altrettanto pretestuosa), non conduce mai alla reintegrazione.

13. Confrontando gli impianti sanzionatori tracciati dalla legge n. 92 del 2012 e dal d. lgs. n. 23 del 2015, non sembra sfuggire ad alcuni rilievi neppure il quadro sanzionatorio previsto per le piccole imprese.
La Corte costituzionale, con sent. n. 183/2022, dichiara la questione di legittimità dell’art. 9 d. lgs. n. 23 del 2015 inammissibile, ritenendo di dover salvaguardare la discrezionalità legislativa, ma non manca di porre in discussione il regime sanzionatorio delle piccole imprese, aggiungendo un monito al legislatore ad intervenire in futuro e riservandosi di provvedere direttamente in caso di inerzia legislativa a fronte di nuove ordinanze di rimessione.
La sanzione contro il licenziamento ingiustificato viene ritenuta inadeguata, in ragione del “limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge”, che secondo la Corte “conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti”, a scapito degli altri criteri e senza fornire parametri adattabili alle particolarità delle vicende concrete.
La prima tentazione potrebbe essere quella di rilevare che il sistema non è affatto differente da quello delineato dall’art. 8 legge n. 604 del 1966. E tuttavia proprio sul mutamento di contesto si annida la considerazione più rilevante della Corte costituzionale, muovendo dal presupposto che il criterio del numero dei dipendenti, oggi, «in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi» , non è indicativo della effettiva forza economica del datore di lavoro, almeno nelle piccole imprese. In questi contesti, spesso ormai altamente automatizzati e lontani dal modello social-tipico dell’impresa fordista, ad un ridotto numero di dipendenti possono corrispondere cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. A tale considerazione di inadeguatezza si può aggiungere un dato ulteriore: la soglia numerica non è intaccata in presenza di stagisti, apprendisti, collaboratori coordinati e continuativi, nonché di lavoratori somministrati, sempre più numerosi da qualche anno a questa parte nella maggior parte delle realtà aziendali.
Bisogna però riconoscere che, se si accogliesse l’indicazione della Corte, il criterio sarebbe oggi inadeguato non solo con riferimento all’art. 9 d. lgs. n. 23/2015, ma anche all’art. 8 legge n. 604/1966, che di fatto presenta soglie pressoché identiche , e criteri di calcolo dell’indennità risarcitoria non più così differenti dopo l’intervento della sentenza n. 194 del 2018.

14. Non v’è dubbio che gli interrogativi suscitati dall’evoluzione del diritto vivente, specie con riferimento all’art. 18 St. lav., riguardino oggi anche la materia della prescrizione.
È possibile domandarsi se, ed eventualmente in quali termini l’estensione dell’ambito di applicazione della reintegrazione di cui all’art. 18 St. lav., operata in modo indubbio dalle sentenze nn. 59/2021 e 125/2022 per il licenziamento per g.m.o., e dalla giurisprudenza di legittimità per il licenziamento disciplinare sproporzionato , possa influire sul riconoscimento della natura di rapporti resistenti a quelli instaurati nelle medio-grandi imprese.
Si potrebbe ipotizzare che il ritorno ad un’applicazione pressoché generalizzata della tutela reale contro il licenziamento ingiustificato possa avere incidenza sul regime di decorrenza della prescrizione.
Non è di questo avviso la giurisprudenza di legittimità, recentemente pronunciatasi affermando che il termine di prescrizione dei diritti di credito retributivo, dopo le modifiche dell’art. 18 St. lav., decorre dalla fine del rapporto “per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata”, perché l’intervento giudice delle leggi non avrebbe reso la reintegrazione “la forma ordinaria di tutela contro ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento” .
In realtà, appaiono controvertibili l’espressione letterale e l’impostazione argomentativa utilizzate dalla Corte Suprema con riferimento all’attuale sistema dell’art. 18 St. lav.: infatti, tanto con riferimento al licenziamento disciplinare, quanto al licenziamento per g.m.o., la reintegrazione non si pone come rimedio esclusivo, ma di certo è divenuto proprio il rimedio ordinario, perché la tutela indennitaria è ridotta a un’eccezione, mentre è il rimedio esclusivo solo per la nullità e violazione dei divieti di licenziamento.
Invece, potrebbe essere dirimente il primo aspetto della valutazione della sentenza (spec. punto 8), perché è basato sul fatto che “l’individuazione del regime di stabilità sopravviene .. all’esito dell’accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex post: così affidandone l’identificazione o meno, al criterio del caso per caso”. Accogliendo questa lettura, anche nell’attuale regime dell’art. 18 St. lav. non sarebbero affatto fugati i rischi di metus del lavoratore anche nell’ambito del licenziamento ingiustificato .
Ma si potrebbe ricordare che all’epoca in cui fu emessa la sentenza Corte cost. n. 63 del 1966, l’esempio coevo di disciplina idonea ad assicurare la resistenza del rapporto, ossia le disciplina del pubblico impiego (D.P.R. n. 3 del 1957) disponeva che la “ricostituzione del rapporto” potesse avvenire mediante “annullamento del provvedimento di risoluzione”, oppure per “reintegrazione dell’impiegato destituito” o, infine (art. 132), per “riammissione in servizio” .
In quest’ultima ipotesi, la riammissione, la decorrenza dell’anzianità presupponeva l’estinzione del rapporto precedente, perché decorreva dalla data del provvedimento di riammissione (art. 132) ed inoltre il rimedio non costituiva un obbligo per la pubblica amministrazione, ma una mera facoltà, tant’è che l’applicazione di tale rimedio non solo necessitava di una richiesta da parte del lavoratore, ma implicava un giudizio altamente discrezionale della p.a.: dunque neppure nel sistema legislativo di tutela dei pubblici dipendenti coevo alla sentenza n. 63 del 1966 i rapporti resistenti godevano sempre e in ogni caso della tutela reale .

15. All’esito di questo ricco iter giurisprudenziale, emerge una maggiore certezza nell’individuazione dei presupposti di applicazione della tutela reale, che, con riferimento all’art. 18 St. lav., non è più rimessa né alla scelta del magistrato, né ad un requisito di graduazione.
Il perno delle statuizioni della Corte costituzionale è individuato nella ragionevolezza dell’impianto sanzionatorio, che non può tollerare soggettivismi applicativi. Del resto anche sul Jobs Act la Corte ha imposto parametri attendibili e coerenti nella determinazione dell’indennità risarcitoria per i licenziamenti viziati dal punto di vista sostanziale (sentenza n. 194 del 2018) o formale (sentenza n. 150 del 2020).
Come si è cercato di evidenziare, a seguito degli interventi operati dalla Corte costituzionale, i profili di maggiore criticità dell’art. 18 St. lav. non sembrano tanto porsi nello sviluppo di questa argomentazione, quanto nelle premesse dell’impostazione giuridica e in particolare nella nozione di fatto a fini sanzionatori e nei riflessi sistematici che essa genera ove si pongano a confronto i due regimi di tutela, contenuti nell’art. 18 St. lav. e nel d.lgs. n. 23 del 2015.
Quanto al primo aspetto, nell’accogliere – sulla scia della giurisprudenza di legittimità – l’equiparazione tra requisiti di legittimità del licenziamento e requisiti di insussistenza del fatto, la Corte costituzionale di fatto riduce notevolmente la portata applicativa della tutela indennitaria per le grandi imprese (art. 18, comma 7, terzo periodo St. lav.), generando più di qualche perplessità sistematica e applicativa.
Infatti, l’esempio di tutela indennitaria ex art. 18 comma 7 terzo periodo St. lav. integra ormai un’eccezione, invero dubbia (par. 8), identificata esclusivamente nell’ipotesi di licenziamenti di lavoratori fungibili, che peraltro nelle stesse condizioni ottengono sempre la tutela reale nei licenziamenti collettivi.
In secondo luogo, la Corte opera un’estensione in via generale della tutela reintegratoria per (pressoché) qualsiasi ipotesi di licenziamento privo dei requisiti di liceità del g.m.o., che pone all’interprete nuovi interrogativi sul regime della prescrizione per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, nonostante la giurisprudenza di legittimità, anche all’esito della sentenza n. 125/2022, viri con decisione verso il riconoscimento della natura non resistente anche a tali rapporti dopo le modifiche della legge n. 92 del 2012 all’art. 18 St. lav. (supra, par. 14).
Non solo: l’evoluzione descritta suscita oggi più di un dubbio in ordine alla ragionevole ripartizione di tutele tra lavoratori ingiustificatamente licenziati per g.m.o. in base alla data di assunzione, prima o dal 7 marzo 2015.
Ciò non tanto per il passaggio, che corrisponde a una chiara opzione legislativa, dalla tutela reale (nell’art. 18 comma 7, secondo periodo St. lav., che ormai come detto copre pressoché tutte le ipotesi di mancanza degli estremi del g.m.o.), alla tutela indennitaria, sempre prevista nel Jobs Act per il licenziamento privo di g.m.o., anche nei casi di più grave comportamento del datore di lavoro.
Il vero aspetto critico del Jobs Act, sul piano sistematico, attiene invece alla diversa rilevanza attribuita all’insussistenza del fatto tra licenziamento disciplinare e licenziamento per giustificato motivo oggettivo, avuto riguardo agli stessi criteri di comparazione tra la due fattispecie (disciplinare e g.m.o.) richiamati dalla Corte costituzionale pronunciandosi sull’art. 18 St. lav.
Infatti per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, vi è la certezza della reintegrazione per insussistenza del fatto a fronte di un licenziamento disciplinare, mentre per comportamenti datoriali di analoga gravità nel licenziamento qualificato come giustificato motivo oggettivo non è prevista la reintegrazione: in tal senso il sistema complessivo risultante dall’attività della Corte potrebbe allora mostrare alcuni caratteri di irragionevolezza, da riferire questa volta alla nuova disciplina del 2015.
Entrambi i sistemi sanzionatori per i dipendenti delle piccole imprese potrebbero inoltre essere investiti dalle conseguenze della statuizione n. 183 del 2022 del giudice delle leggi: su questo punto sarà importante osservare se e come il legislatore deciderà di intervenire per superare o ridimensionare il criterio del numero dei dipendenti nella quantificazione dell’indennità. Facendo riferimento a diversi criteri dimensionali, da valutarsi anche in via concorrente tra di loro, quali il fatturato, l’andamento economico dell’impresa, o il complessivo organico, a prescindere dalla tipologia dei rapporti di lavoro, etc.
Vi è da chiedersi, infine, se un simile ragionamento valga anche per il limite dimensionale previsto dall’art. 35, comma 1, St. lav., ai fini di delimitare il campo applicativo delle tutele e diritti sindacali previsti dal Titolo III dello Statuto.
In tal caso, tuttavia, va considerato che l’esercizio dei diritti sindacali investe in maniera più diretta non solo la forza economica ma anche la dimensione organizzativa dell’impresa, in relazione alla quale, il limite dimensionale, inteso quale estensione dell’organico, conserva un margine più ampio di attualità.

 

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