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La comunicazione a persona determinata e la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c.: regole generali
Il presente scritto vuole esaminare alcune specifiche situazioni, proprie del rapporto di lavoro, che ineriscono alla tematica delle comunicazioni a persona determinata, condizionanti la validità ed efficacia dell'atto di cui la comunicazione stessa è veicolo, sino al limite estremo della giuridica esistenza dell'atto stesso.
Principio di riferimento è quello enunciato dalla norma suddetta, per cui: "La proposta, l'accettazione e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia".
Il principio in parola è applicabile non solo alle dichiarazioni inerenti alla formazione di un contratto, ma a tutte le dichiarazioni recettizie dirette ad una determinata persona. La proposta e l'accettazione del contratto sono notoriamente dichiarazioni recettizie, le quali assumono rilevanza giuridica in quanto siano conosciute o, quanto meno, giungano all'indirizzo del destinatario .
L'art. 1335 c.c. introduce un temperamento al principio della cognizione previsto dall'art. 1326 c.c., stabilendo una presunzione di effettiva conoscenza dipendente dal solo fatto dell'arrivo della dichiarazione all'indirizzo del destinatario .
Ai sensi dell'art. 1335 c.c., la dichiarazione recettizia si presume conosciuta nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario, nel luogo che, per collegamento ordinario (dimora o domicilio) o per normale frequentazione per l'esplicazione della propria attività lavorativa, o per una preventiva indicazione o pattuizione, risulti in concreto nella sfera di dominio e controllo del destinatario stesso, apparendo idoneo a consentirgli la ricezione dell'atto e la possibilità di conoscenza del relativo contenuto .
L'argomento è interessante, perché denota un effetto anticipatorio, sia sotto il profilo logico che cronologico, in ordine al momento di formazione del contratto, percepibile ancor più significativamente nelle ipotesi in cui la trasmissione della proposta e dell'accettazione avvengano attraverso il canale telematico.
Queste considerazioni scaturiscono dal particolare tenore letterale usato nell'art. 1335 c.c., che ha indotto altra autorevole dottrina ad abbracciare anche per il nostro ordinamento giuridico, come criterio per la formazione del contratto, il principio della «ricezione», tipico dell'ordinamento tedesco, seppure con il temperamento offerto dalla possibilità di fornire la prova in ordine all'incolpevole impossibilità circa la conoscenza dell'atto ricevuto .
Orbene, ricordati questi due principi di ordine generale, vediamo come gli stessi possano essere calati nella quotidianità dei rapporti di lavoro, grazie all'analisi di alcune sentenze della Suprema Corte sul punto .
Una nota sentenza dalla sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che affinché possa operare la presunzione di conoscenza della dichiarazione diretta a persona determinata stabilita dall'art. 1335 c.c. occorre la prova, il cui onere incombe al dichiarante, che la stessa sia stata recapitata all'indirizzo del destinatario, e cioè, nel caso di corrispondenza, che questa sia stata consegnata presso detto indirizzo, e non può invece ritenersi sufficiente un tentativo di recapito ad opera dell'agente postale (come nel caso di cui si occupava la predetta sentenza), che, ritenuto - sia pure a torto - il destinatario sconosciuto all'indirizzo indicato nella lettera raccomandata, abbia disposto il rinvio della stessa al mittente, in quanto mancherebbe in tal caso ogni concreta possibilità per il destinatario di venire a conoscenza della lettera; né in senso opposto potrebbe essere richiamata la disciplina del recapito delle raccomandate con deposito delle stesse presso l'ufficio postale e rilascio dell'avviso di giacenza all'indirizzo del destinatario, poiché in tal caso sussiste la possibilità di conoscenza del contenuto della dichiarazione da parte del destinatario e, del resto, la dichiarazione si ritiene pervenuta all'indirizzo del medesimo solo dal momento del rilascio dell'avviso di giacenza del plico (nella specie, il ricorrente - datore di lavoro - deduceva che l'agente postale avesse ritenuto "sconosciuto" il destinatario - lavoratore subordinato - e quindi omesso il recapito della lettera raccomandata, contenente una contestazione disciplinare, poiché il lavoratore non aveva riportato il suo nome sulla targhetta del citofono e sulla cassetta delle lettere).
Pertanto, la presunzione di conoscenza del destinatario di un atto recettizio non opera se la comunicazione non è stata consegnata né a lui personalmente né presso il suo indirizzo .
In un'altra nota sentenza la Cassazione ha statuito che per ritenere sussistente in base all'art. 1335 c.c. la presunzione di conoscenza da parte del destinatario della dichiarazione a questo diretta, occorre la prova, il cui onere incombe al dichiarante, che la dichiarazione sia pervenuta all'indirizzo del destinatario, e tale momento, nel caso in cui la dichiarazione sia stata inviata mediante lettera raccomandata non consegnata per l'assenza del destinatario (o di altra persona abilitata a riceverla), coincide con il rilascio del relativo avviso di giacenza del plico presso l'ufficio postale, e non già con il momento in cui la lettera sia arrivata al recapito in cui non fu consegnata (nella specie la suprema Corte - riferendosi all'art. 93 Ccnl 23 maggio 1991 per il settore edile che prevede l'obbligo per il lavoratore assente di trasmettere entro tre giorni al datore di lavoro il relativo certificato medico e la sanzione del licenziamento in tronco in caso di assenza ingiustificata protrattasi per tre giorni - ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto giustificato il licenziamento in un'ipotesi in cui il certificato medico trasmesso dal lavoratore era stato ricevuto dal datore di lavoro oltre il termine suddetto).
Si veda, solo per restare ad altro recente precedente giurisprudenziale, la pronuncia 31845/2022 , che ha affermato le due seguenti massime di diritto, entrambe conferenti e anzi perfettamente sovrapponibili al alla fattispecie qui esaminata :
1) “In caso di missive inviate a mezzo del servizio postale tramite raccomandata, non può ritenersi necessaria la produzione dell'avviso di ricevimento, ai fini dell'operatività della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c. sia nel caso in cui non sia contestata l'avvenuta consegna della missiva da parte del servizio postale, sia nel caso in cui l'atto di cui si discute sia stato legittimamente inviato a mezzo di raccomandata semplice, senza avviso di ricevimento.”
2) “Il mittente deve produrre l'avviso di ricevimento, nel caso in cui lo stesso sia disponibile e certamente in tutti i casi in cui si discuta di un atto recettizio che, per espressa disposizione di legge, debba essere necessariamente inviato a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento. In tali ultimi casi, laddove la mancata produzione dell'avviso di ricevimento da parte del mittente non sia adeguatamente giustificata e/o non sussistano altri elementi di prova che dimostrino l'avvenuta consegna della raccomandata, il giudice di merito, in caso di contestazioni, non può ritenere dimostrata l'operatività della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c. solo in virtù della prova dell'invio della raccomandata, ma dovrà verificare l'esito dell'invio in primo luogo sulla base delle risultanze dell'avviso di ricevimento e, comunque, valutando ogni altro mezzo di prova utile e la sua decisione non sarà sindacabile in sede di legittimità, trattandosi di un accertamento di fatto ad esso riservato.”
Deve essere, pertanto, ribadito che la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c. degli atti recettizi in forma scritta giunti all'indirizzo del destinatario opera per il solo fatto oggettivo dell'arrivo dell'atto nel luogo indicato dalla norma, in mancanza di prova contraria (Cass. n. 36397/2022) , e l'allegazione della ricorrente di non aver mai rinvenuto l'avviso di giacenza nella sua cassetta postale non è sufficiente a vincere la presunzione.

Sulla comunicazione di una contestazione e di un provvedimento disciplinare
Una sentenza della Suprema Corte ci offre la possibilità di svolgere alcune brevi riflessioni sulle problematiche connesse all'applicabilità dell'art. 1335 c.c. alle tematiche afferenti la procedura disciplinare.
Nella prassi quotidiana dell'evolversi dei rapporti di lavoro, non è mancata la falsa convinzione che il rifiuto delle corrispondenti comunicazioni fosse idoneo a paralizzare il procedimento attuativo della procedura disciplinare o del licenziamento eventualmente e successivamente annesso.
La procedura da rispettare per la legittima irrogazione del licenziamento disciplinare prevede ed impone che il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, senza avergli preventivamente contestato l'addebito. Come ben noto, poi, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa (cfr. L. n. 300/1970, art. 7, comma 5).
Ciò ricordato, diamo subito contezza della singolare conclusione alla quale è approdata la Suprema Corte nel caso de quo: l'eccessiva cautela nel procedere ad un licenziamento disciplinare può ritorcersi contro l'imprenditore.
È, infatti, illegittimo il rifiuto del lavoratore di ricevere in azienda una contestazione disciplinare durante l'orario di ufficio, poiché contrasta con i doveri nascenti dal contratto di lavoro ed implica che - dalla data del tentativo - la comunicazione si debba considerare come avvenuta.
Ne consegue, pertanto, che il termine per il datore di lavoro entro il quale irrogare la sanzione decorre dal tentativo fallito e non da quando è riuscito a consegnare la contestazione al dipendente.
La suprema Corte ha respinto il ricorso del datore di lavoro pur censurando il comportamento del dipendente.
A quest'ultimo, impiegato delle Poste, era stato intimato un licenziamento disciplinare e, contro lo stesso, egli aveva presentato ricorso in Tribunale.
I Giudici di prime cure ne avevano accolto la domanda, annullando il licenziamento e condannando la società a reintegrarlo nel proprio posto di lavoro.
La decisione veniva financo confermata dalla Corte d'Appello di Milano, per la quale il provvedimento si doveva considerare illecito in quanto mancante della preventiva regolare comunicazione all'incolpato degli addebiti disciplinari; e comunque il licenziamento era tardivo perché intervenuto oltre il termine contrattuale di trenta giorni da quello assegnato al dipendente per presentare le sue giustificazioni.
La vicenda è approdata quindi in Cassazione.
Di fronte ai giudici di legittimità l'azienda ha sostenuto che i giudici del merito sarebbero incorsi in una serie di errori relativi alla comunicazione ed alla notifica del provvedimento.
In particolare, l'azienda datrice di lavoro censurava la sentenza di secondo grado per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 7 della L. n. 300/1970 e 2118 c.c., nonché per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo relativamente alla ritenuta tardività del licenziamento.
Poste Italiane, a tal proposito, ricordava come il licenziamento fosse stato comunicato al dipendente in data 22 giugno 2001, mentre la lettera di contestazione fosse stata notificata all'incolpato il precedente 21 maggio, con assegnazione al lavoratore del termine di cinque giorni per presentare le sue difese.
Ad avviso della ricorrente sarebbe stato rispettato il termine massimo di trenta giorni (da computarsi dallo scadere di quello per rendere giustificazioni), oltre il quale la contrattazione collettiva stabilisce che il procedimento disciplinare deve intendersi archiviato.
In particolare - ed è qui il punto della questione - Poste Italiane dissentiva con quanto sostenuto dalla Corte territoriale in merito alla consumazione (sia consentito l'utilizzo di un concetto "penalistico") e alla validità del tentativo di comunicazione della lettera di contestazione disciplinare nel momento in cui l'addetto al servizio risorse umane aveva cercato di consegnare tale lettera in azienda a mani del dipendente.
Poste Italiane evidenziava, ritenendolo del tutto assorbente e tombale, il fatto che il lavoratore incolpato ne avesse rifiutato la ricezione.
Conseguentemente la società ricorrente aveva provveduto ad un secondo tentativo di comunicazione mediante notifica a mezzo ufficiale giudiziario.
Andata a buon fine questa seconda soluzione, con assegnazione al lavoratore di un termine di cinque giorni per presentare le sue difese, l'azienda comunicava al dipendente il licenziamento un mese dopo.
In questo contesto, proseguiva la ricorrente, appare evidente come il termine di trenta giorni dallo scadere di quello per rendere le giustificazioni fosse stato perfettamente rispettato, senza possibilità di considerare archiviato il procedimento disciplinare, tanto più che non era stato affatto provato che il contenuto del documento fosse stato letto dall'interessato.
La Cassazione, nel decidere la controversia, ha stabilito come fosse assolutamente pacifico che - contrariamente a quanto sostenuto dalle Poste - l'addetto alle risorse umane avesse dato lettura della comunicazione al dipendente, come sostenuto dalla Corte d'Appello, a prescindere dal fatto che lo stesso ne avesse rifiutato la ricezione.
Tuttavia, proseguiva il Collegio, questo fatto non è comunque decisivo.
Infatti, anche se non esiste, in ossequio a principi già stabiliti dalla Suprema Corte , l'obbligo generale ed incondizionato del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni e, in particolare, di accettare la consegna di documenti scritti da parte di chicchessia ed in qualunque situazione, il rifiuto di ricevere un atto unilaterale recettizio non esclude che la comunicazione debba ritenersi avvenuta ai sensi dell'art. 1335 c.c. e produca i relativi effetti, in quanto regolarmente giunta a quello che in quel momento era l'indirizzo del destinatario, anche a prescindere dal fatto che sia o meno avvenuta la lettura del testo della comunicazione.
In particolare, nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile, in linea di massima, l'obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro e durante l'orario di lavoro, dal datore di lavoro o dai suoi delegati, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto, così come non può escludersi un obbligo di ascolto, e quindi anche di ricevere comunicazioni, da parte dei superiori del lavoratore.
In buona sostanza, conclude il collegio, a prescindere dal "comportamento non collaborativo" del lavoratore in occasione della comunicazione, il rifiuto di "questi di ricevere la lettera che la conteneva equivale alla effettiva ricezione" e da quella data, pertanto, cominciano a decorrere per l'azienda i termini per intimare il licenziamento: detto altrimenti, il rifiuto di conoscenza imputabile al lavoratore non fa venir meno la presunzione di conoscenza derivante dalla legge, non potendo rilevare il fatto che materialmente la consegna non abbia luogo quando non avvenga per il rifiuto del destinatario di ricevere il documento, non potendo essere l'interessato costretto a farlo.
Sull'impugnazione del licenziamento
Merita di essere compiutamente approfondito anche un altro aspetto che potrebbe presentare delle criticità in ragione delle riflessioni che stiamo effettuando in materia di conoscenza/conoscibilità della dichiarazione, ovverosia quelle connesse al licenziamento ed alla sua impugnazione.
Quest'ultima, infatti, se effettuata da parte del lavoratore che abbia interesse all'accertamento in giudizio della sua illegittimità, è tipicamente un atto unilaterale recettizio e, pertanto, come visto, deve giungere a conoscenza del datore di lavoro per produrre i suoi effetti.
Non occorre, tuttavia, che il datore ne abbia avuto l'effettiva conoscenza, essendo sufficiente che l'atto di impugnazione sia entrato nella sua sfera di conoscibilità , come si evince dalla rubrica dell'art. 1335 c.c. e, successivamente, dal tenore letterale della norma che utilizza l'espressione "si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario", così introducendo una presunzione legale relativa di conoscenza che il datore di lavoro può vincere solo dimostrando di non aver avuto notizia dell'atto senza sua colpa.
Il termine di sessanta giorni per impugnare il licenziamento è, a sua volta, espressamente qualificato dal legislatore come termine di decadenza.
Da ciò deriva l'ovvia conseguenza, cui era già approdata la Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 1987 , che, nei sessanta giorni prescritti, il datore di lavoro deve ricevere la comunicazione di impugnazione del licenziamento.
A parere delle Sezioni Unite la ratio della relativa previsione di legge impone di considerare la funzione del termine di decadenza da essa previsto come operante "in via primaria nell'interesse del datore di lavoro il quale deve avere la sicurezza di poter provvedere alle necessità dell'impresa senza il rischio di dover riassumere - o risarcire - dei lavoratori che siano stati licenziati anche in epoca remota".
Non pare pertanto condivisibile la tesi minoritaria riaffermata da una sentenza della Suprema Corte secondo cui, quando si tratta di impedire una decadenza o una preclusione, avverrebbe una scissione degli effetti dell'atto, nel senso che per la parte attiva gli effetti si produrrebbero al compimento dell'attività richiesta dalla legge per impedire la decadenza, mentre per la parte ricevente si verificherebbero al momento della ricezione dell'atto, con la conseguenza che in tema di notificazione degli atti di impugnazione del licenziamento il lavoratore interessato assolverebbe integralmente l'onere a suo carico con la consegna dell'atto giudiziale all'ufficio notifiche o di quello extragiudiziale all'ufficio postale, mentre per il datore di lavoro ricevente gli effetti dell'impugnazione si produrrebbero solo al momento del recapito.
Secondo tale orientamento minoritario, il lavoratore dovrebbe, pertanto, preoccuparsi solo di effettuare la consegna dell'atto a chi di dovere, cui conseguirebbe l'automatica certezza della tempestività della notifica, mentre sarebbe poi il datore di lavoro a dover sopportare l'incertezza di ricevere "un giorno" l'impugnazione del licenziamento.
Come detto, la giurisprudenza maggioritaria non la pensa così; sostanzialmente fa ricadere sul lavoratore "il rischio connesso alla scelta dello strumento di comunicazione, considerata la piena libertà di cui egli gode nell'optare per una qualsiasi delle innumerevoli forme possibili" .
In realtà, la vicenda interpretativa ha ripreso nuovo vigore con la presa d'atto, da parte della S.C., dell'esistenza di un contrasto più significativo, stimolato dall'analisi dottrinale e giurisprudenziale, non ancora del tutto assestata e sopita. Alla luce di un tale conflitto interpretativo ed applicativo, la Corte ha rimesso la questione alla competenza delle sezioni unite .
Si è così ritenuto che la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c., nell'ambito di una impugnazione stragiudiziale, operi in caso di utilizzo della lettera raccomandata, del telegramma telefonico, ma al limite anche attraverso la consegna brevi manu da parte del lavoratore.
In caso di utilizzo della lettera raccomandata, la presunzione di conoscenza potrà dirsi realizzata per il solo fatto oggettivo, al di là del compimento dell'atto di impugnazione del licenziamento entro il termine di sessanta giorni, dell'arrivo dell'atto, entro lo stesso termine all'indirizzo del datore di lavoro.
Nell'ottica di favorire un riequilibrio della posizione del lavoratore, il concetto di "indirizzo del destinatario" è interpretato in modo estensivo dalla giurisprudenza.
Si ritiene, infatti, sufficiente che l'atto pervenga oltre che nella residenza, domicilio o dimora del destinatario, anche in "qualsivoglia luogo che per collegamento ordinario o normale frequenza o preventiva indicazione appartenga alla sfera di dominio o controllo del destinatario" , ivi compreso lo stabilimento produttivo decentrato della società datrice di lavoro "dalla cui direzione sia pervenuta la comunicazione del licenziamento al lavoratore, il quale in tale stabilimento espleti la sua prestazione lavorativa" .
Sulla intimazione del licenziamento
Per quel che attiene, invece, la comunicazione del provvedimento di recesso in caso di licenziamento individuale, la Suprema Corte ha stabilito come la stessa sia rituale qualora venga effettuata al dipendente mediante lettera raccomandata spedita al suo domicilio, presupponendo l'operatività della presunzione di cui all'art. 1335 c.c. che la dichiarazione sia "diretta ad una determinata persona" e che essa "giunga all'indirizzo del destinatario", qualunque sia il mezzo impiegato. Nel caso specifico, il lavoratore, assegnato ad una sede in Germania, aveva contestato l'operatività della presunzione in parola atteso che la lettera raccomandata era stata affidata al servizio postale tedesco, il cui regolamento stabiliva una presunzione di giacenza, in caso di impossibilità di consegna al destinatario, di soli sette giorni, ritenendo, invece, che dovesse farsi riferimento alla successiva consegna a mano della lettera; la Suprema Corte, in applicazione dell'anzidetto principio, ha rigettato il ricorso, evidenziando che, in ogni caso, il licenziamento era stato impugnato, tardivamente, ben prima della consegna a mano dell'intimazione a riprova dell'effettiva conoscenza, da parte del lavoratore, dell'avvenuta risoluzione del rapporto.
Nella recente sentenza 15397/2023, la Suprema Corte ha ribadito, confermando l’orientamento già stratificato negli anni precedenti , che a norma dell'art. 1335 c.c., gli atti unilaterali diretti a un determinato destinatario, come il licenziamento, si reputano conosciuti nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia. Si tratta di una presunzione legale di conoscenza, nel senso di conoscibilità equiparata a legale conoscenza, fondata sulla prova del pervenimento all'indirizzo del destinatario della comunicazione. Affinché tale presunzione legale sia superata, è necessario che sia fornita la prova contraria dell'impossibilità di averne notizia senza colpa del destinatario. Pertanto, occorre, in caso di contestazione in giudizio, procedere ad un accertamento di fatto, che deve fondarsi su un governo logico, coerente e motivato delle risultanze probatorie, soltanto in questi limiti censurabile in sede di legittimità .
Dalla suddetta circostanza, dell'operatività del meccanismo giuridico prefigurato dall'art. 1335, anche in fattispecie di intimazione di licenziamento, essendo la stessa, unitamente alla comunicazione dei relativi motivi, un atto unilaterale recettizio, ne consegue che non è configurabile un onere del datore di lavoro di consegnare materialmente nelle mani del lavoratore l'atto contenente il licenziamento e che la presunzione stabilita dall'art. 1335 c.c. opera per il solo fatto oggettivo dell'arrivo della dichiarazione all'indirizzo del destinatario, dovendosi per tale intendere il luogo più idoneo per la ricezione e cioè il luogo che, in base ad un criterio di collegamento ordinario (dimora o domicilio) o di normale frequenza (luogo di esplicazione di un'attività lavorativa) o per preventiva comunicazione o pattuizione dell'interessato, risulti in concreto nella sfera di dominio o controllo del destinatario .
Bene conferma, di recente, la Suprema Corte che la presunzione di conoscenza di un atto - nella specie la lettera di licenziamento - del quale sia contestato il suo pervenimento a destinazione, non è integrata dalla sola prova della spedizione della raccomandata, essendo necessaria, attraverso l'avviso di ricevimento o l'attestazione di compiuta giacenza, la dimostrazione del perfezionamento del procedimento notificatorio. (In applicazione del principio, è stata esclusa l'operatività della presunzione legale di conoscenza ex art. 1335 c.c. in assenza delle attestazioni circa le attività svolte dall'agente postale incaricato della consegna, con conseguente declaratoria di inefficacia del recesso datoriale) .

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