testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa e contesto normativo.
Il decreto legislativo 3 maggio 2024, n. 62 rappresenta il più significativo intervento attuativo della legge delega 22 dicembre 2021, n. 227, in materia di disabilità. La riforma, inserita nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) come parte della Missione 5 Inclusione e Coesione, ha introdotto rilevanti novità nel sistema di tutela delle persone con disabilità abbandonando definitivamente l’approccio medico-assistenziale per abbracciare il modello bio-psico-sociale sancito dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006, che riconosce la disabilità come risultato dell’interazione tra la persona e le barriere ambientali e sociali.
L’entrata in vigore del provvedimento alla data del 30 giugno 2024 ha avviato un processo di trasformazione che si articolerà progressivamente con una fase di sperimentazione in nove province selezionate per estendersi poi a tutto il territorio nazionale dal 1° gennaio 2026 . Tuttavia, l’applicazione della riforma presenta già significative criticità operative, principalmente dovute alla mancanza del regolamento attuativo previsto dall’art. 33, co. 3, che doveva essere adottato entro il 30 novembre 2024.
Nonostante il d.lgs. 62/2024 riunifichi e semplifichi i procedimenti di accertamento della condizione di disabilità, persiste un fondamentale disallineamento tecnico-procedurale tra la nuova valutazione di disabilità – accentrata presso l’INPS e orientata al progetto di vita – e le procedure di collocamento obbligatorio affidate alla preesistente architettura della legge 68/1999. L’aspetto più problematico si coglie nell’eccessiva separatezza tra la valutazione di base, ora unificata, e la valutazione multidimensionale, affidata all’UVM (Unità di Valutazione Multidimensionale), previste dal d. lgs. 62/2024, e la valutazione della capacità lavorativa residua come condizione di accesso alle liste e agli strumenti del collocamento mirato, tradizionalmente affidata al comitato tecnico di cui all’art. 8, comma 1-bis, l. 68/1999.
La mancanza di raccordo tra le due norme genera, in concreto, sovrapposizioni burocratiche e rischia di tradursi in una tutela formale e poco efficace per le persone con disabilità nei contesti lavorativi. Complica il quadro l’assenza di un coinvolgimento strutturato delle parti sociali – sindacati e associazioni datoriali – sia nella fase preparatoria (della disciplina) che in quella gestoria (dei procedimenti), lasciando – verosimilmente – i datori di lavoro meri destinatari di obblighi e soluzioni individuate da altri, in assenza di strumenti di concertazione, con possibili disallineamenti procedurali e profili problematici nell’attuazione concreta degli accomodamenti ragionevoli individuati dall’UVM.
È questo l’obiettivo del presente contributo che, dopo una sintetica ma necessaria contestualizzazione dell’intervento normativo, intende evidenziare – in una prospettiva giuslavoristica – le problematiche applicative del d.lgs. 62/2024 che pur esplicando i suoi effetti, diretti e non, nei contesti lavorativi non ha previsto (per lo meno in modo esplicito) il coinvolgimento – ineludibile, a parere di chi scrive – delle parti sociali nella selezione dei sostegni necessari e degli accomodamenti ragionevoli utili alla piena esplicazione della personalità della persona con disabilità nello specifico ambiente lavorativo.

2. Il d. lgs. 3 maggio 2024 n. 62 e le (inevitabili) connessioni con la legge 12 marzo 1999 n. 68.
Il d.lgs. 62/2024, come noto, ha introdotto cambiamenti significativi nella valutazione, nell’inclusione e nell’assistenza delle persone con disabilità , con particolare rilevanza – per quanto qui ci occupa – per i contesti lavorativi, così intrecciandosi con le preesistenti previsioni sul collocamento mirato dei disabili.
Come noto, la legge 68/1999 , cuore storico della disciplina sull’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, ha «come finalità la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato» e affida alle Province e ai Centri per l’Impiego, anche attraversi convenzioni con terzi, compiti di sostegno e personalizzazione dell’inserimento lavorativo. L’applicazione di tale legge è vincolata a un sistema procedurale che sancisce obblighi per aziende pubbliche e private e, contestualmente, prevede incentivi per l’assunzione delle persone con disabilità, comminando sanzioni in caso di inadempimento.
A norma dell’art. 8 della l. 68/1999 le persone con disabilità aventi diritto al collocamento mirato , che risultano disoccupate e aspirano ad una occupazione conforme alle proprie capacità lavorative, sono tenute ad iscriversi nell’apposito elenco tenuto dai servizi per il collocamento mirato. Per ogni persona, il comitato tecnico annota in una apposita scheda le capacità lavorative, le abilità, le competenze e le inclinazioni, nonché la natura e il grado della disabilità e analizza le caratteristiche dei posti da assegnare, favorendo l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
L’approccio del d.lgs. 62/2024 si focalizza, come noto, sull’elaborazione del progetto di vita individualizzato e personalizzato attraverso un processo di valutazione multidimensionale, che coinvolge ab initio la persona con disabilità, la famiglia e i servizi territoriali.
Come confermato dai dossier istituzionali e dagli atti parlamentari, i lavori preparatori del d.lgs. 62/2024 , pur avendo coinvolto i competenti organi del Ministero del Lavoro, hanno privilegiato la partecipazione delle federazioni rappresentative delle persone con disabilità, degli ordini professionali e delle società scientifiche, omettendo il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali né, salvo eccezioni marginali riferite al mondo cooperativo, delle associazioni datoriali . Dall’analisi della relazione illustrativa e dei documenti parlamentari disponibili, risulta, infatti, che tra i soggetti auditi e coinvolti nei lavori preparatori figurano principalmente: federazioni rappresentative delle persone con disabilità; associazioni di categoria che partecipano alle commissioni di accertamento (ai sensi della legge n. 295/1990); ordini professionali; società scientifiche e mediche; Conferenza delle Regioni ed Enti del Terzo Settore .
Tale scelta ha determinato, come si cercherà di dimostrare, che la parte datoriale, non coinvolta nella fase di valutazione multidimensionale del soggetto con disabilità, rischia di essere relegata a una posizione essenzialmente recettiva nel processo di elaborazione e attuazione dei percorsi di inclusione lavorativa, a valle dei quali si colloca la selezione – effettuata dall’UVM - degli accomodamenti necessari per l’emancipazione della persona con disabilità.
Si tratta di un percorso che rischia di compromettere l’efficacia dei nuovi strumenti, alimentando un senso di estraneità rispetto ai vincoli operativi, ai fabbisogni produttivi e alle effettive capacità di inclusione delle imprese.

Il decreto, infatti, non prevede la partecipazione del datore di lavoro o dei rappresentanti sindacali nei procedimenti affidati all’Unità di Valutazione Multidimensionale, che è chiamata a individuare accomodamenti ragionevoli e sostegni necessari, anche in ambito lavorativo.
L’assenza di un confronto con le parti sociali ha portato a una disciplina che, sebbene innovativa nei principi, in materia di accomodamenti ragionevoli e di attuazione del progetto di vita individualizzato, sul piano operativo genera il rischio di produrre soluzioni astratte o di difficile applicazione nella specifica realtà aziendale. La normativa, infatti, come meglio vedremo più avanti, non chiarisce in modo dettagliato le procedure di negoziazione dei previsti accomodamenti e sostegni, le modalità di motivazione di eventuali dinieghi all’adozione degli stessi e le tutele in caso di inerzia, lasciando ampi margini di incertezza applicativa.
Solo un’auspicabile armonizzazione tra il d. lgs. 62/2024 e la l. 68/1999 permetterà quindi di definire con precisione la ripartizione delle responsabilità, degli oneri economici e organizzativi derivanti dall’attuazione degli accomodamenti ragionevoli previsti nel progetto di vita, soprattutto in presenza di soluzioni tecnologiche avanzate.
Per comprendere appieno la necessità di tale armonizzazione appare necessario ripercorrere, sia pur sinteticamente, l’evoluzione dei presidi normativi posti a tutela dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità con particolare riferimento all’innovativa valutazione di base multidimensionale e all’inedito progetto di vita per le persone con disabilità, che includono inequivocabilmente nel loro perimetro applicativo anche i contesti lavorativi.

3. L’evoluzione della disciplina italiana nel passaggio dall’approccio medico-clinico a quello bio-psico-sociale.
L’assetto regolamentare nazionale relativo all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, progressivamente armonizzatosi con gli standard internazionali di riferimento , si è delineato mediante un’evoluzione sia legislativa sia giurisprudenziale volta a perseguire un bilanciamento tra il principio dell’eguaglianza sostanziale e il coesistente principio, anch’esso di rango costituzionale, della libertà di iniziativa economica garantito dall’articolo 41 della Costituzione.
Nel perimetro euro-unitario, la Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 , recepita in Italia con il d.lgs. 9 luglio 2003 n. 216, aveva infatti già definito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e, nella declinazione specifica della disabilità, aveva abilitato datori di lavoro e organizzazioni ad adottare misure adeguate, sotto forma di obbligo positivo, per ovviare alle situazioni potenzialmente idonee mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone portatrici di handicap . Le misure da adottarsi dovevano (recte devono) essere adeguate nel senso che devono consentire ai disabili idonee possibilità di accesso al lavoro, di esecuzione della prestazione lavorativa e di progressioni di carriera, ma non devono richiedere al datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato, come espressamente previsto dall’art. 5 della direttiva.
La Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità del 2006, confermando i principi cardine della parità di opportunità e del divieto di discriminazione , ha sposato un percorso iterativo degli adattamenti ragionevoli riconoscendo la disabilità quale elemento relazionale risultante dall’interazione tra soggetti portatori di minorazioni e barriere di natura comportamentale ed ambientale . Tale concezione ha imposto il superamento dell’interpretazione meramente medico-clinica della disabilità in favore dell’adozione di un paradigma bio-psico-sociale nel contesto dell’inclusione lavorativa .
Sotto il profilo giuslavoristico, questa evoluzione normativa ed ermeneutica ha segnato il passaggio dal tradizionale concetto di “imposizione” a quello, più avanzato, di “diritto soggettivo” ed “opportunità”, intesi non solo quali strumenti di integrazione sociale per la persona con disabilità ma anche come elementi di valorizzazione nell’organizzazione aziendale .
Nell’ordinamento nazionale, la legge 2 aprile 1968, n. 482 aveva inizialmente introdotto una disciplina dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità fondata su un sistema di collocamento obbligatorio, improntato prevalentemente a criteri assistenzialistici e risarcitori . Tale impianto normativo era caratterizzato da una concezione categoriale della disabilità e da modalità applicative rigide, poco sensibili alla valorizzazione delle peculiari capacità e delle aspettative individuali dei soggetti destinatari .
In una prospettiva evolutiva, la legge 12 marzo 1999, n. 68 ha segnato una svolta paradigmatica, superando la logica meramente quantitativa dell’obbligo numerico e orientando il sistema verso una più incisiva inclusione attiva. L’intervento normativo ha introdotto, come si accennava, l’istituto del collocamento mirato fondato su una valutazione personalizzata delle attitudini professionali del lavoratore con disabilità e sull’adeguamento delle stesse alle specificità dei contesti organizzativi, anche tramite la previsione di servizi di sostegno finalizzati al consolidamento del processo di inserimento socio-lavorativo e procedure di chiamata nominativa .
In tale contesto ha assunto rilievo sempre più significativo l’analisi puntuale dei posti di lavoro e l’adozione di soluzioni ragionevoli che, alla stregua degli insegnamenti europei, in conformità dell’articolo 2, co. 4, della Convenzione ONU riguardano «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo» e che devono essere adottati, ove ve ne sia necessità, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali; obblighi che gli Stati membri devono imporre direttamente ai datori di lavoro, come sancito dalla Corte di giustizia UE .
La valorizzazione della dimensione sociale della disabilità ha favorito, sul piano normativo, la transizione da una concezione passiva e meramente orientata alla prevenzione della discriminazione a un paradigma attivo, nel quale la piena partecipazione dei soggetti con disabilità presuppone la rimozione sistematica degli ostacoli e l’adozione di misure idonee a garantire, nel rispetto del principio di uguaglianza sostanziale, l’effettiva fruizione dei diritti civili e sociali, inclusi quelli relativi all’inclusione lavorativa .
Tale corrispondenza tra diritti sociali, principio di uguaglianza e disabilità trova la sua espressione più adeguata nell’istituto dell’accomodamento personalizzato che, per la sua natura iterativa e dinamica, non può essere inteso come un elemento statico e omogeneo, deve adattarsi nel tempo per consentire il pieno compimento della dignità del soggetto disabile . La Suprema Corte ha poi graniticamente sancito che, considerato il vasto raggio degli accomodamenti ipotizzabili, il limite espresso all’adozione di essi , rinvenibile già nella stessa Convenzione ONU, consiste nel fatto che tale accomodamento non deve imporre «un onere sproporzionato o eccessivo» . L’obbligo infatti, stando agli insegnamenti dottrinali e giurisprudenziali sin qui esaminati, non può presentare un carattere assoluto poiché è sancito, normativamente, uno specifico controlimite: l’accomodamento per essere «ragionevole» non deve costituire un onere sproporzionato o eccessivo per il soggetto obbligato, sia esso pubblica amministrazione o soggetto privato , come confermato anche dal novellato art. 5-bis della l. n. 104/1992 . Il concetto di onere, peraltro, non si esaurisce in una mera valutazione di natura economico-finanziaria; piuttosto, il “costo” deve essere ponderato in relazione alla complessiva disponibilità delle risorse, alle dimensioni strutturali dell’organizzazione e all’impatto che l’adattamento può determinare sull’ente o sull’impresa destinataria dell’accomodamento . Quindi non può escludersi che, pur in presenza di un costo economicamente sostenibile, specifiche condizioni fattuali possano incidere sulla ragionevolezza di una determinata modifica organizzativa, considerando altresì l’interferenza con gli interessi altrui, ad esempio di altri lavoratori coinvolti o delle dinamiche organizzative correlate .
All’esito di una valutazione complessiva delle circostanze fattuali e organizzative , potrà considerarsi ragionevole qualsiasi soluzione concretamente attuabile che persegua la salvaguardia della posizione lavorativa del soggetto con disabilità, purché l’attività risulti effettivamente funzionale alla realtà produttiva e imponga all’imprenditore, così come al personale eventualmente interessato, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo la «comune valutazione sociale» . Da ciò discende, in via ulteriore, l’obbligo di procedere al cosiddetto test di proporzionalità, a seguito del quale dovrà emergere un rapporto equilibrato tra i vantaggi derivanti dall’attuazione dell’accomodamento ragionevole e l’onere, non esclusivamente economico, che tale attuazione determina per il datore di lavoro e per l’organizzazione nel suo complesso , in coerenza con i principi sanciti dall’art. 41 della Costituzione .
In tali approdi ermeneutici consolidati si è innestato il d.lgs. 62/2024 che, per quanto qui ci occupa, ha innovato profondamente la definizione di disabilità, ha ri-definito la nozione di accomodamenti ragionevoli e ha introdotto la valutazione multidimensionale finalizzata all’elaborazione del progetto di vita della persona con disabilità .

4. Le novità del d.lgs. 3 maggio 2024 n. 62 e le conseguenze applicative in prospettiva giuslavoristica.
Il d.lgs. 62/2024, modificando sostanzialmente l’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, definisce la persona con disabilità come colui che presenta «durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri» . Questa definizione, in linea con la Convenzione ONU del 2006, evidenzia l’importanza di considerare la disabilità come il risultato dell’interazione sociale tra la persona e il suo ambiente, piuttosto che come una caratteristica intrinseca ed esclusivamente clinica dell’individuo.
Ai fini dell’accertamento dello stato di disabilità, il decreto introduce la Valutazione di Base ovvero un procedimento volto al riconoscimento della condizione di disabilità che si attiva su richiesta dell’interessato . La Valutazione di Base si basa sui domini della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ; questo nuovo paradigma valutativo dovrebbe consentire una migliore individuazione delle potenzialità residue della persona con disabilità ..
Ai sensi dell’art. 5 la Valutazione di Base comprende ogni accertamento dell’invalidità civile già previsto dalla normativa vigente, ivi compreso quello «ai fini dell’inclusione lavorativa, ai sensi della legge 12 marzo 1999, n. 68» (cfr. art. 5, co. 1, lett. f) così esplicando pacificamente i suoi effetti nei contesti lavorativi, tanto che, in combinato disposto con la previsione del comma 4 del medesimo articolo «il riconoscimento della condizione di disabilità della persona determina l’acquisizione di una tutela proporzionata al livello di disabilità, con priorità per le disabilità che presentano necessità di sostegno intensivo e delle correlate prestazioni previste dalla legge, incluse quelle volte a favorire l’inclusione scolastica, presso le istituzioni della formazione superiore e lavorativa» .
La correlazione con il tema dell’inclusione lavorativa risulta ulteriormente esplicitata nel secondo periodo del co. 4 dell’art. 5, laddove si prevede che «al riconoscimento della condizione di disabilità consegue anche la tutela dell’accomodamento ragionevole ai sensi dell’articolo 5-bis della legge 5 febbraio 1992, n. 104 e la possibilità della richiesta dell’avvio del procedimento di valutazione multidimensionale per l’elaborazione del progetto di vita individuale».
Il decreto introduce, infatti, dopo la Valutazione di Base un’ulteriore procedura di valutazione effettuata dall’Unità di Valutazione Multidimensionale finalizzata all’elaborazione del progetto di vita – individuale, personalizzato e partecipato – dalla persona con disabilità quale ulteriore strumento di capacitazione, nel rispetto dei suoi diritti civili e sociali .
Il progetto di vita della persona con disabilità, a norma dell’art. 2, co. 1, lett. n, rappresenta un progetto che, partendo dai desiderata della persona con disabilità e dalle sue aspettative, è diretto ad individuare, i sostegni - formali e informali - idonei a consentire alla persona con disabilità a partecipare ai vari contesti di vita in condizioni di pari opportunità rispetto agli altri ; il budget di progetto e gli accomodamenti ragionevoli che garantiscono l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà fondamentali .
Il progetto di vita previsto dal d.lgs. 62/2024 assume, pertanto, la funzione di strumento di «pianificazione» degli interventi e dei supporti necessari alla persona con disabilità, finalizzato a garantire la piena realizzazione della sua personalità in ogni ambito sociale, incluso quello lavorativo, coerentemente con le esigenze e le aspirazioni espresse dall’interessato, il quale ha altresì la facoltà di allegare all’istanza per la predisposizione del progetto di vita una proposta specifica .
Il rilievo del progetto di vita nel produrre effetti anche nell’ambito dei contesti lavorativi costituisce un dato inequivoco, desumibile dall’interpretazione sistematica delle disposizioni normative applicabili e, segnatamente: i) dall’art. 18 del d. lgs. 62/2024 secondo cui il progetto di vita individua, per qualità, quantità ed intensità, gli strumenti, le risorse, gli interventi, i benefici, le prestazioni, i servizi e gli accomodamenti ragionevoli, volti anche ad eliminare e a prevenire le barriere e ad attivare i supporti necessari per l’inclusione e la partecipazione della persona stessa nei diversi ambiti di vita, compresi quelli scolastici, della formazione superiore, abitativi, lavorativi e sociali (co. 2) e, in modo ancora più pervasivo, ii) dall’art. 26 secondo cui «il progetto individua, tra gli altri, gli obiettivi della persona con disabilità, gli interventi necessari in diverse aree, tra cui il lavoro (art. 26, co.3, lett. b, n. 2), nonché i servizi, le misure di cura e di assistenza, gli accomodamenti ragionevoli volti a perseguire la migliore qualità di vita e a favorire la partecipazione della persona con disabilità nei diversi ambiti della vita» (art. 26, co.3, lett. c).
In aggiunta, il decreto introduce, per la prima volta all’interno della legislazione italiana, una definizione normativa specifica di accomodamento ragionevole, contenuta nel nuovo articolo 5-bis , inserito nella vigente legge 104/1992, secondo cui «nei casi in cui l’applicazione delle disposizioni di legge non garantisca alle persone con disabilità il godimento e l’effettivo e tempestivo esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali, l’accomodamento ragionevole, ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, individua le misure e gli adattamenti necessari, pertinenti, appropriati e adeguati, che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo al soggetto obbligato» (art. 17, co. 1).
L’accomodamento nello specifico contesto lavorativo deve essere idoneo a consentire a un lavoratore con disabilità, in possesso delle qualifiche richieste per una determinata posizione, di neutralizzare in maniera efficace lo svantaggio o la menomazione che lo affligge . L’articolato normativo, infatti, facendo propri gli approdi ermeneutici di cui si è dato conto, introducendo l’art. 5-bis prescrive che l’accomodamento «deve risultare necessario, adeguato, pertinente e appropriato rispetto all’entità della tutela da accordare e alle condizioni di contesto nel caso concreto, nonché compatibile con le risorse effettivamente disponibili allo scopo» (art. 5-bis, co. 5, l. n. 104/1992), non deve imporre «un onere sproporzionato o eccessivo al soggetto obbligato» (art. 5-bis, co. 1 ultimo periodo, l. n. 104/1992) e deve essere attuato «nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» (art. 5-bis, co. 12, l. n. 104/1992) .
Una volta individuato lo specifico accomodamento i soggetti obbligati all’adozione dello stesso non potranno rifiutarsi di adempiere .
A norma del novellato art. 5-bis, co. 11, legge n. 104/1992 «nel caso di rifiuto da parte di un soggetto privato dell’accomodamento ragionevole, richiesto ai sensi del comma 3, l’istante e le associazioni legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 67/2006, ferma restando la facoltà di agire in giudizio ai sensi della medesima legge, possono chiedere all’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità di verificare la discriminazione di rifiuto di accomodamento ragionevole» .
In termini essenziali, se si assume una corretta interpretazione della recente riforma legislativa, allorché la pubblica amministrazione, con l’atto conclusivo del procedimento di accertamento della condizione di disabilità (unitamente all’accertamento multidimensionale volto all’implementazione del progetto di vita), individui un determinato accomodamento ragionevole, ne deriva l’obbligo – per ogni soggetto pubblico o privato – di adottare tale misura nei molteplici ambiti sociali in cui si realizza l’esistenza della persona con disabilità, ivi incluso il contesto lavorativo.
Il datore di lavoro, in questo schema innovativo ma incompleto, resta un soggetto passivo essenzialmente tenuto ad adottare l’accomodamento ragionevole identificato – da altri – come utile allo scopo e ciò sia che si tratti di prima assunzione che di disabilità sopravvenuta. La novella legislativa, infatti, non prevede che il datore di lavoro o eventuali associazioni datoriali possano partecipare al procedimento dell’Unità Valutativa Multidimensionale (UVM) incaricata di elaborare il progetto di vita, di individuare gli adattamenti ragionevoli specificatamente utili e di definire il relativo budget di progetto .
A norma dell’art. 24, co. 2 lett. g., d.lgs. 62/2024 infatti può partecipare all’UVM «ove necessario, un rappresentante dei servizi per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità di cui all’articolo 6 della legge 12 marzo 1999, n. 68, nei casi di cui all’articolo 1, comma 1, della medesima legge».
Tuttavia, non è contemplata la partecipazione del datore di lavoro che, nello specifico contesto lavorativo, diverrebbe di fatto destinatario di un obbligo di attuazione di un adattamento ragionevole individuato senza la sua collaborazione o, se si preferisce, in assenza di un contraddittorio che, lungi dall’assumere carattere oppositivo, potrebbe invece risultare proficuo e funzionale.

5. Spunti conclusivi: migliorare l’armonizzazione normativa per ottenere un’effettiva inclusione lavorativa delle persone con disabilità.
In definitiva, il modello innovativo introdotto dal d.lgs. 62/2024 resta – almeno per ora – privo di meccanismi che ne consentano la traslazione diretta nei percorsi amministrativi previsti dalla legge 68/1999.
La riforma, infatti, pur esplicando – come si è visto – i suoi effetti sui contesti lavorativi rimane formalmente separata dalle procedure del collocamento mirato previste dalla legge 68/1999, che continua a basarsi su criteri e procedure normative ben definite e distinte, non armonizzate con quelle introdotte dal d. lgs. 62/2024, e ciò sia per la Valutazione di Base che per la Valutazione Multidimensionale .
La separazione fra la valutazione sanitaria-relazionale e i procedimenti di collocamento amministrativo rischia di produrre sovrapposizioni, duplicazioni, zone grigie di responsabilità e rallentamenti che minano l’efficacia effettiva dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità.
Il datore di lavoro, soprattutto nel caso di disabilità sopravvenuta, non viene coinvolto – nemmeno per il tramite di rappresentanti delle associazioni datoriali – nella procedura di Valutazione Multidimensionale e rischia di diventare destinatario di obblighi previsti in assenza di logiche di co-progettazione. Occorrerebbe allora introdurre la partecipazione strutturata di rappresentanze sindacali, datori di lavoro e associazioni di settore soprattutto nei processi di valutazione e progettazione degli accomodamenti uniformando le procedure amministrative tra INPS, UVM, Centri per l’Impiego, ETS e aziende e collegando formalmente i risultati della Valutazione Multidimensionale ai percorsi di collocamento mirato.
L’apparato sanzionatorio e di garanzia nel caso di diniego o inerzia da parte del datore di lavoro nell’adozione degli accomodamenti individuati dall’UVM risulta peraltro incerto e poco dettagliato, rischiando di lasciare priva di reale tutela la persona con disabilità che aspiri a una piena inclusione lavorativa.
D’altra parte, come già rilevato , l’applicazione del procedimento invocato dall’art. 17, comma 7, riferito al «diniego motivato, ove non sia possibile accordare l'accomodamento ragionevole proposto» strutturato analogamente a un classico procedimento amministrativo, se appare pacificamente applicabile nei confronti della Pubblica Amministrazione, non risulta ben calibrato nel contesto dei rapporti tra privati, pur sempre caratterizzati dall’autonomia negoziale.
Infatti, come previsto dal comma 11 del medesimo articolo, «nel caso di rifiuto da parte di un soggetto privato dell’accomodamento ragionevole, richiesto ai sensi del comma 3, l’istante e le associazioni legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 67/2006, ferma restando la facoltà di agire in giudizio ai sensi della medesima legge, possono chiedere all'Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità di verificare la discriminazione di rifiuto di accomodamento ragionevole» facendo diventare così quello che potrebbe essere un “momento di confronto” progettuale sulla ragionevolezza dell’accomodamento un “terreno di scontro” ancorato ai profili discriminatori.
Anche la definizione delle responsabilità tra INPS, enti locali, UVM, servizi per l’impiego e datori di lavoro resta poco chiara, soprattutto per quanto riguarda l’attuazione e il finanziamento degli accomodamenti ragionevoli e dei progetti di vita: non sono delineate in modo univoco né le modalità di collaborazione né le coperture finanziarie per gli interventi personalizzati che la nuova disciplina vuole – condivisibilmente – incentivare. Infatti, sebbene la nuova disciplina introduca concetti avanzati come il budget di progetto e apra all’uso di tecnologie inclusive (comprese IA e soluzioni digitali) , non sono definiti standard pratici, canali finanziari automatici o strumenti normativi che rendano effettiva tale innovazione nei percorsi di collocamento mirato della L. 68/1999.
In conclusione, resta sullo sfondo una disciplina normativa parzialmente incompiuta: mancano ancora regolamenti chiave, le procedure non sono state uniformemente calibrate sul territorio nazionale e la fase sperimentale è ancora limitata a poche province , con il rischio di soluzioni disomogenee e di disparità territoriali nell’effettiva applicazione dei nuovi strumenti .
Se il nesso tra il progetto di vita individualizzato, gli accomodamenti ragionevoli e i sostegni necessari risulta concettualmente pacifico, non può essere trascurata la problematica relativa alla responsabilità concreta nell’adozione degli stessi accomodamenti ragionevoli, né la questione, parimenti significativa, della attribuibilità degli oneri connessi all’effettiva integrazione degli aspetti tecnologici con quelli organizzativi.
Per rendere realmente effettiva l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, l’armonizzazione tra il d.lgs. 62/2024 e la legge 68/1999 richiede interventi mirati sia sul piano tecnico-giuridico che su quello operativo e organizzativo.
La questione non ammette soluzioni approssimative poiché, condividendo – almeno su un piano concettuale – l’obbligo datoriale di adozione degli «accomodamenti ragionevoli» così come definiti dall’Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM) al fine di assicurare una compiuta inclusione lavorativa della persona con disabilità, non si comprende l’omessa previsione di un coinvolgimento della parte datoriale nella definizione preventiva e progettuale degli accomodamenti ragionevoli adottabili per l’esecuzione del progetto di vita elaborato a valle della valutazione multidimensionale.
Occorre allora prevedere il coinvolgimento effettivo delle parti sociali nella governance delle Unità Valutative Multidimensionali, sia pubbliche sia private, per valorizzare competenze di settore e trovare soluzioni condivise; nella stessa prospettiva occorre concedere al datore di lavoro, soprattutto in caso di disabilità sopravvenuta del dipendente già in organico, la possibilità di partecipare al processo di individuazione degli accomodamenti, garantendo un equilibrio tra diritto all’inclusione e fattibilità aziendale. La partecipazione attiva delle parti sociali nella fase valutativa e applicativa può contribuire a superare la logica dell’imposizione unilaterale, promuovendo la corresponsabilità nella costruzione di ambienti di lavoro accessibili e inclusivi.
L’intento protettivo delle nuove norme, pur teoricamente avanzato, si scontra quindi, oggi, con criticità pratiche e rischia di restare una mera aspirazione se non sarà accompagnato da una vera armonizzazione fra i due corpus normativi, dalla valorizzazione di strumenti partecipativi e di dialogo tra gli attori del mondo del lavoro e dal superamento delle barriere procedurali e culturali che ancora ostacolano l’effettiva inclusione professionale delle persone con disabilità. È fondamentale fissare meccanismi trasparenti per la definizione, l’eventuale contestazione, la revisione e il monitoraggio degli accomodamenti decisi dall’UVM stabilendo criteri univoci per rendere “immediatamente spendibile” la Valutazione Multidimensionale nello specifico ambito lavorativo, prevedendo fondi specifici per finanziare i costi degli accomodamenti ragionevoli, compresi quelli tecnologici e digitali, garantendo così uniformità nazionale e accesso equo a tutte le imprese, comprese le PMI.
Solo così la disciplina normativa potrà esprimere appieno le sue finalità di giustizia sostanziale, di pari opportunità e di valorizzazione delle persone con disabilità cui si ispira il PNRR da cui il d. lgs. 62/2024 discende . perché «la persistenza di disuguaglianze […], così come l’assenza di pari opportunità a prescindere dalla […] disabilità, non è infatti solo un problema individuale, ma è un ostacolo significativo alla crescita economica» .

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