testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa: il carattere valoriale dell’indagine.
L’indagine sulla tutela della disabilità nel pubblico impiego – al di là delle implicazioni giuridiche, politiche e sociali ad essa sottese – non può non tener conto del carattere valoriale che ontologicamente connota l’evoluzione della relativa normativa, interna e sovranazionale. In tal senso, dirimenti appaiono non solo la pervasività del concetto odierno di disabilità che recepisce le istanze esogene provenienti dagli ordinamenti euro-unitario e internazionale, ma anche la specialità della disciplina del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione assistita da precise guarentigie costituzionali. Ben vero, da un lato, è noto come sia stato oramai abbandonato il “modello medico” su cui fondava l’originaria concezione di disabilità, basata sull’enfatizzazione del deficit fisico o mentale della persona disabile rispetto a quella normodotata; optandosi viceversa per un “modello sociale di disabilità” che la configura quale “conseguenza dell’interazione tra condizione di salute e ambiente esterno”, tale per cui essa non costituisce più “un problema della persona derivante da una sua menomazione, ma è il prodotto dell’interazione tra il deficit della persona e l’ambiente sociale non adatto alla diversità dei singoli individui” . Dall’altro, parimenti noto è che permane, quale tratto distintivo del pubblico impiego, la funzionalizzazione dell’azione della P.A. (privatizzata ) al soddisfacimento degli interessi della collettività, in ossequio ai principi prescritti dalla Carta fondamentale , in primis quelli di imparzialità e di buon andamento ex art. 97.
In tal senso, il settore del lavoro pubblico riveste (rectius: dovrebbe rivestire) un ruolo cruciale nell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, sia per la funzione esemplare che l’amministrazione è chiamata a svolgere (anche nell’ottica dell’effettivo superamento delle disuguaglianze), sia per la sua incidenza quantitativa sul mercato del lavoro italiano.
Non è un caso, infatti, che il diritto al lavoro delle persone con disabilità (che – come si vedrà nel prosieguo – si innerva di solidi precipitati costituzionali) conosce peculiari declinazioni nel pubblico impiego rispetto al settore privato, in tutte le fasi del rapporto di lavoro, dall’assunzione (art. 97, co. 3 Cost.) all’estinzione, passando per la gestione dello stesso durante la sua pendenza. In definitiva, lo Stato sociale costituzionale non può non riconoscere “dietro il velo giuridico dell’eguaglianza formale” l’inevitabile “evidenza di ostacoli che di fatto limitano l’uguaglianza del pieno diritto della persona umana” .
Orbene, pur a fronte di un quadro normativo articolato - che si è via via evoluto nel corso del tempo anche sotto la spinta propulsiva dell’ordinamento comunitario - la concreta attuazione dei relativi principi e regole di dettaglio si scontra frequentemente con lacune applicative, rigidità procedurali e, in generale, con una cultura organizzativa dell’inclusione che appare per certi versi ancora deficitaria all’interno della P.A. Pertanto, tenuto conto dell’importanza dei valori in gioco, l’obiettivo dell’indagine è quello di esplorare criticamente taluni tratti salienti della disciplina vigente in materia di assunzioni dei disabili nel pubblico impiego, evidenziando le difficoltà interpretative e operative che emergono in sede attuativa, al fine di poter delineare alcune prospettive evolutive che - anche alla luce degli obblighi derivanti dal diritto internazionale e comunitario - possano garantire l’effettiva attuazione dei principi costituzionali posti a tutela dei lavoratori con disabilità.
2. Lo statuto costituzionale delle persone con disabilità e la correlativa ambientazione giuridica sovranazionale.
La Costituzione, come di consueto, costituisce l’asse portante dell’intera normativa lavoristica che regola la materia in questione , dando attuazione a una serie di disposizioni di primaria importanza, tra le altre: artt. 1, 2, 3, 4, 29, 30, 31, 32, 34, 35, 38 Cost., cui si aggiungono gli articoli 51, 97 e 98 Cost. con specifico riferimento al lavoro pubblico, nonché – a livello sovranazionale – gli articoli 21 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e i principi di cui alla direttiva 2000/78/CE e alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006 . Le finalità perseguite dalle surriferite fonti sovranazionali sono, infatti, corroborate da quanto dispone la nostra Carta fondamentale e hanno dato avvio ad un indirizzo regolativo – inaugurato, come si dirà a breve, dalla l. n. 68 del 1999 – che mette al centro il già ricordato “modello sociale” di disabilità, il quale – come riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale – impone, tra l’altro, di “conformare i vari ordinamenti interni in chiave non già meramente protettiva delle persone con disabilità, ma piuttosto in una prospettiva dinamica e promozionale […] attraverso il pieno e integrale riconoscimento di diritti e di tutele che, in quanto fondamentali, non possono non essere adeguate alla dignità di qualsiasi persona in quanto tale, ma anche attraverso la predisposizione di misure idonee a compensare, per quanto possibile, e nelle forme più compatibili, la condizione di chi si trovi così particolarmente svantaggiato” .
Da questa angolazione, è possibile affermare che esiste un vero e proprio statuto costituzionale delle persone con disabilità , che è d’uopo “rivitalizzare” – anche alla luce dell’interpretazione che ne offre la Consulta – collocandolo nella ambientazione giuridica sovranazionale che si è delineata nel corso di questi ultimi decenni. Ciò risulterà utile anche per denotare il tasso di effettività della normativa vigente in materia di inserimento lavorativo dei disabili nella P.A., che si esaminerà nel prosieguo.
Invero, anzitutto, i principi personalista e solidaristico prescritti dall’art. 2 Cost. presuppongono, per un verso, la funzionalizzazione delle istituzioni pubbliche al riconoscimento dell’anteriorità della tutela della persona e della dignità umana rispetto a qualsivoglia altra esigenza protetta dall’ordinamento e, per altro verso, l’imposizione di inderogabili doveri di solidarietà che, anche in ambito lavorativo , risultano ineludibili per assicurare la piena uguaglianza delle persone con disabilità, rivelandosi insufficiente il mero riconoscimento formale dei relativi diritti . Uguaglianza quest’ultima che, com’è noto, viene consacrata dall’art. 3 Cost., nella sua duplice dimensione formale e sostanziale, che non solo impone di trattare situazioni uguali in modo uguale, ma anche situazioni diverse in modo diverso , riconoscendo dunque piena cittadinanza costituzionale, ad uno statuto giuridico, appunto, “differenziato” per i soggetti che necessitano di un livello maggiore di protezione .
Ciò risulta vieppiù corroborato dall’impegno cui è chiamata la Repubblica non solo di riconoscere a tutti i cittadini il diritto al lavoro (che ne costituisce la dimensione fondante ex art 1 Cost.), ma anche di promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art. 4 Cost.) anche per le persone con disabilità ; agevolando quindi la formazione delle famiglie (artt. 29, 30, 31 Cost.) , tutelando il valore dell’inserimento della donna (anche nel lavoro pubblico a parità di condizioni con l’uomo ex art. 51 Cost. ) e garantendo il benessere della persona (art. 32 Cost.). Il diritto alla salute, infatti, è un “diritto sociale di primaria importanza” e non interessa soltanto l’individuo, bensì la collettività a cui i pubblici uffici – posti a servizio esclusivo della Nazione (art. 98 Cost.) e in ossequio ai già ricordati principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.) – erogano i relativi servizi. Inoltre, sul combinato disposto dell’art. 34 con gli artt. 35 e 38 Cost. fonda il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale che considera di fondamentale importanza, anzitutto, l’inserimento e l’integrazione nella scuola e, successivamente, la formazione, l’avviamento e l’elevazione professionale nel lavoro della persona con disabilità, anche al fine di “stimolare le potenzialità dello svantaggio” e di ridurre progressivamente “i condizionamenti indotti dalla minorazione ”.
Siffatti diritti – il cui suesposto catalogo non è certamente esaustivo – non possono, dunque, essere relegati al limbo dei principii per quanto attiene al relativo tasso di effettività giuridica che sovente, in sede di applicazione pratica, man mano si diluisce (rovesciando appunto, la “piramide”): dagli atti amministrativi fino alla Costituzione.
A tal fine, giova anzitutto collocare le ricordate prescrizioni di rango costituzionale nel più ampio contesto internazionale ed euro-unitario, nel quale un tassello fondamentale viene aggiunto alla tutela antidiscriminatoria per ragioni di disabilità. Quest’ultima, ben vero, non si basa soltanto sulla mera elencazione delle discriminazioni vietate , ma introduce azioni positive volte a garantire forme di uguaglianza sostanziale attraverso la rimozione delle condizioni di disparità effettivamente esistenti .
Ulteriore novità derivante dalla normativa sovranazionale riguarda, com’è noto, le “soluzioni ragionevoli” , che il datore di lavoro pubblico (e privato) deve adottare, ossia tutte quelle misure che – in funzione delle situazioni concrete e nei limiti della sostenibilità organizzativa e finanziaria dell’ufficio – possano garantire il diritto al lavoro del disabile nelle sue diverse estrinsecazioni: svolgimento della prestazione, formazione, progressione di carriera, ma anche (e soprattutto) accesso al lavoro. Siffatte misure rispondono, quindi, alle specifiche esigenze del singolo lavoratore disabile a conferma del particolare rilievo assunto nel diritto comunitario e internazionale dall’effettività della relativa tutela, con riferimento alla quale l’Italia – pur a seguito dell’introduzione del d.lgs. n. 216 del 2003, che aveva previsto il divieto di discriminazione fondato, tra l’altro, sull’handicap e assistito da una tutela giudiziaria rafforzata – è stata condannata dalla Corte di Giustizia a causa della non corretta e incompleta trasposizione dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE in ordine, appunto, alla previsione che impone ai datori di lavoro l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli per ogni puntuale aspetto delle condizioni di lavoro dei disabili. Tale condanna ha rappresentato – in qualche modo – un ideale spartiacque tra una tutela meramente declamatoria e una tutela effettiva (o presunta tale), nell’ambito dei numerosi interventi normativi che si sono susseguiti in subiecta materia per il settore del lavoro pubblico.
3. Il regime delle assunzioni del lavoratore disabile nel pubblico impiego: le ragioni di una differenziazione con il lavoro privato
L’accesso delle persone con disabilità al pubblico impiego rappresenta il primo banco di prova per la concreta attuazione degli enumerati principi costituzionali e vincoli internazionali di parità e inclusione. In tal senso, già prima della ricordata condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia per mancata conformità della normativa interna alla direttiva 2000/78/CE, il legislatore domestico aveva abbandonato la logica assistenzialistica su cui fondava il regime previgente di cui alla l. n. 482 del 1962 in materia di assunzione dei disabili, attraverso la menzionata l. n. 68 del 1999 che ha introdotto il collocamento mirato delle persone con disabilità . Pertanto, queste ultime non vengono più collocate in qualsiasi posto compatibile con il proprio stato di salute, bensì in quella posizione lavorativa, appunto, “mirata” che – tenendo conto delle relative qualità professionali e soggettive – possa favorirne l’inserimento in un contesto lavorativo adeguato . Al fine di accrescere l’effettività di siffatto sistema di accesso all’impiego – anche alla luce della condanna della Corte che, nel frattempo, era intervenuta nel 2013 e che aveva portato all’inserimento dell’obbligo dei datori di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli di cui al nuovo comma 3 bis del menzionato d.lgs. n. 216 del 2003 – si sono susseguiti diversi interventi normativi successivi che hanno inciso direttamente sul settore del lavoro pubblico. Segnatamente si allude, dapprima, ai decreti legislativi attuativi del c.d. Jobs Act (d.lgs. nn. 150 e 151 del 2015) e, in seguito, al decreto legislativo n. 75 del 2017 attuativo della c.d. Legge Madia (L. n. 124 del 2015), i quali hanno introdotto disposizioni ad hoc per il pubblico impiego che – pur rafforzando il concetto di “personalizzazione” della tutela del disabile fin dalla fase genetica dell’accesso al lavoro (a tal fine responsabilizzando, tra l’altro , nuove figure quali il c.d. “disability manager” ) – hanno reso nel complesso più rigoroso, rispetto al lavoro privato, sia il collocamento (che avviene, in via ordinaria, sulla base dei criteri di chiamata numerica, e non nominativa ) sia la tipologia di convenzioni che la P.A. può stipulare . Pertanto, non si può disconoscere – come già si è accennato in premessa – che la specialità della disciplina del lavoro pubblico emerge in modo dirompente anche nella materia che ne occupa. D’altronde, è la stessa legge n. 68 del 1999 a stabilire espressamente che i datori di lavoro pubblici effettuano le assunzioni in conformità con quanto previsto dal TUPI ; dato che – come noto – l’accesso al pubblico impiego soggiace a precipui vincoli, non solo di rango costituzionale (art. 97, co. 3 Cost) , ma anche derivanti dalla normativa contenuta nel d.lgs. n. 165 del 2001, nonché da una serie di altre fonti amministrative di normazione secondaria che non sempre rendono agevole il coordinamento con le disposizioni specifiche che regolano il collocamento mirato.
Eguaglianza, nelle diversità, sembra essere dunque il canone ispiratore dello statuto del pubblico impiego privatizzato, dato che – a differenza del settore privato in cui il bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco va valutato rispetto all’art. 41, co. 1, Cost. – in materia di lavoro pubblico, questi ultimi devono essere coniugati con il buon andamento della P.A.
Se ne inferiscono, come corollario, una serie di peculiarità che connotano il collocamento mirato nel settore pubblico e che lo distinguono dal regime vigente nell’impiego privato , tra gli altri: le quote di riserva, “la composizione soggettiva dei destinatari della disciplina, i criteri di chiamata all’impiego, i vincoli di assunzione nel caso delle eccedenze di organico, le modalità di selezione dei candidati” e la progressione di carriera dei lavoratori disabili .
3.1. Un focus sulla disciplina delle quote di riserva, del requisito dello stato di disoccupazione e dei criteri di chiamata all’impiego: luci e ombre.
L’intento di favorire l’accesso dei disabili al pubblico impiego sottende, anzitutto, le previsioni sulle quote di riserva che vengono individuate sulla base della consistenza complessiva dell’organico della P.A. E’, infatti, stabilito, da un lato, che “i lavoratori disabili iscritti nell’apposito elenco tenuto presso gli uffici competenti hanno diritto alla riserva dei posti nei limiti della complessiva quota d’obbligo e fino al cinquanta per cento dei posti messi a concorso” e, dall’altro, che – salvo determinate mansioni e posizioni professionali specificamente individuate – “i disabili possono partecipare a tutti i concorsi per il pubblico impiego, da qualsiasi amministrazione pubblica siano banditi. A tal fine i bandi di concorso prevedono speciali modalità di svolgimento delle prove di esame per consentire ai soggetti suddetti di concorrere in effettive condizioni di parità con gli altri” .
Si è già detto, inoltre, che i datori di lavoro pubblici effettuano le assunzioni in conformità a quanto previsto dal TUPI, derivando da siffatta previsione uno dei maggiori profili di differenziazione con il lavoro privato cui si è già fatto cenno in ordine alla composizione soggettiva dei beneficiari della tutela, dato che il principio di assunzione obbligatoria trova amplia applicazione nel pubblico impiego, anche in relazione a quelle categorie di disabili che viceversa, nel settore privato, ne rimangono escluse .
Un’ulteriore dissonanza tra lavoro pubblico e privato riguarda i criteri di chiamata all’impiego del lavoratore disabile posto che, mentre i datori di lavoro privati possono liberamente scegliere almeno una parte dei disabili da assumere tramite chiamata diretta nominativa, invece le amministrazioni, quale criterio di selezione nell’ambito delle procedure di assunzioni obbligatorie ex art. 35, co 2, TUPI, ricorrono – salvo poche eccezioni – al diverso strumento della chiamata numerica dei soggetti appartenenti alle categorie protette di cui alla l. n. 68 del 1999.
Il modello di risulta su cui fonda il regime appena descritto presenta – anche dal raffronto con la disciplina speculare vigente nel settore del lavoro privato – luci e ombre (soprattutto sul piano della relativa applicazione pratica). Per un verso, infatti, il superamento della chiamata diretta nominativa si spiega in regione della volontà del legislatore di porre fine a quelle pratiche clientelari che spesso si celavano – in modo neppure troppo mascherato – dietro al generale principio di discrezionalità amministrativa. Per altro verso, tuttavia, la chiamata numerica potrebbe contrastare la ratio su cui fonda l’intero sistema del collocamento mirato che consiste, sostanzialmente, nella personalizzazione dell’obbligo di assunzione, in quanto tale meccanismo “lascia limitata la discrezionalità ai soggetti coinvolti in ordine alla possibilità di matching tra status del soggetto da avviare e posto effettivamente da rivestire” .
Quanto poi al sistema di accesso che consente al disabile di partecipare a tutti i concorsi banditi dalla P.A., la quale, a tal fine, provvede a stabilire speciali modalità di svolgimento delle prove di esame , esso si lascia apprezzare perché costituisce diretta attuazione del principio di uguaglianza , anche in senso sostanziale, dato che siffatta previsione è finalizzata, fra l’altro, a “rendere possibile alla pubblica amministrazione interessata, debitamente resa edotta delle limitazioni del candidato, di attrezzare le sedi dove si svolgono le prove dell’esame nella logica dell’art. 3, c. 2, Cost.” ; nonché ad attribuire tempo aggiuntivo per sostenere le prove o modalità alternative di svolgimento delle stesse, ad esempio, tramite l’uso di supporti informatici o con il sostegno di assistenti o interpreti LIS. Molti bandi pubblici, tuttavia, prevedono formule generiche e lasciano all’interessato l’onere di dimostrare il bisogno di misure specifiche in un contesto spesso burocratizzato, poco flessibile e in cui scarseggia un’adeguata formazione sui temi della disabilità anche tra gli stessi membri delle commissioni esaminatrici.
Un altro aspetto controverso relativo all’adeguato contemperamento tra i diversi interessi in gioco di rilievo costituzionale e all’applicazione pratica della disciplina in materia di inserimento dei disabili nella P.A. riguarda il possesso dello stato di disoccupazione , che costituisce la condizione sia per l’iscrizione all’elenco tenuto presso i servizi di collocamento mirato, sia per beneficiare della riserva di posti nelle procedure di reclutamento tramite concorso . Al riguardo, infatti, era originariamente previsto che le PP.AA. potessero assumere i disabili risultati idonei all’esito delle procedure concorsuali, oltre il limite dei posti riservati, anche ove non presentassero il requisito dello stato di disoccupazione . Inciso quest’ultimo successivamente espunto , derivandone – anche alla luce delle ulteriori modifiche introdotte sul punto – che “non costituisce pratica discriminatoria l’inserimento nel bando di concorso riservato ai disabili di una clausola che richieda il possesso di siffatto requisito, sia al momento della presentazione della domanda, che in fase di assunzione” , dato che la ratio su cui fonda la relativa normativa è teleologicamente orientata a garantire prioritariamente il disabile privo di occupazione rispetto al disabile che intenda migliorare la propria condizione lavorativa per mezzo di una progressione di carriera .
L’altalenante giurisprudenza in materia , tuttavia, dimostra che – sul piano pratico – sembrano rimanere aperte le annose questioni sia della precarietà del lavoro svolto al momento della assunzione , sia della restrizione delle occasioni lavorative dei disabili , ai quali non si ritiene di poter imporre la permanenza dello stato di disoccupazione fino alla conclusione (difficilmente prevedibile) della procedura concorsuale, falcidiandone nelle more le prospettive concrete di ricerca di un’occupazione, anche temporanea o a basso salario, in attesa di una migliore collocazione.
Secondo un altro ordine di considerazioni, positivamente si valuta l’espunzione del requisito della “sana e robusta costituzione” originariamente previsto per l’accesso al pubblico impiego , seppure rimangano fermi i criteri di idoneità specifica per singole funzioni che i bandi possono prevedere per i lavoratori (disabili e non). Dunque, anche l’obbligo di riserva nei concorsi pubblici, pur consentendo di favorire l’inclusione delle persone con disabilità nel settore del lavoro alle dipendenze della P.A., si accompagna tuttavia all’esigenza di accertamento dell’idoneità alle funzioni proprie del profilo messo a bando, con il rischio che le amministrazioni interpretino in modo restrittivo la compatibilità tra disabilità e mansioni da svolgere. A tal proposito, è appena il caso di ricordare quell’indirizzo (minoritario) della giurisprudenza amministrativa, che – ancor prima dell’entrata in vigore della legge 68 del 1999 e dell’affermarsi del “paradigma antidiscriminatorio quale fonte autonoma di diritti di derivazione euro-unitaria” – aveva considerato illegittimo il diniego di assunzione del soggetto che, utilmente collocato nella graduatoria di conferimento, venisse poi escluso dall’assunzione in base alla generica motivazione dell’incompatibilità tra l’invalidità certificata e le mansioni da assegnare, “senza che l’amministrazione si fosse impegnata in verifiche ulteriori” . Orientamento giurisprudenziale quest’ultimo che, inopinatamente, avrebbe costituito il preludio della già ricordata normativa – di matrice euro-unitaria – sugli accomodamenti ragionevoli e dunque sull’obbligo giuridico a contenuto positivo, introdotto anche in capo alla PA, di contrastare qualsivoglia forma di indebita esclusione sociale dall’acceso al pubblico impiego in spregio dell’attuazione, sul piano sostanziale, del principio di cui all’art. 3 Cost. Al riguardo, tuttavia, si ricorda nuovamente che la stessa norma con la quale il legislatore italiano ha ottemperato alla sentenza di condanna della Corte di Giustizia prevede che i datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente” . Siffatta previsione – reiterata, peraltro, nei successivi ambiti di intervento inerenti alla subiecta materia – segna un’ulteriore, marcata differenziazione con il settore del lavoro privato in relazione ad un aspetto chiave per l’inclusione dei disabili nel pubblico impiego, quasi a voler “precostituire un alibi” per la P. A. in relazione all’adozione di soluzioni ragionevoli che possano apparire “depotenziate” rispetto al fine perseguito. Per converso, si ritiene che sia quantomeno utopistico – sotto il profilo dell’applicazione pratica – considerare possibile il conseguimento dell’obiettivo della piena inclusione del lavoratore disabile rispettando l’invarianza dei costi per l’amministrazione; limite quest’ultimo, peraltro, che si aggiunge e non si sostituisce alle ulteriori rigidità strutturali, funzionali e organizzative proprie della P.A. In proposito, si precisa, inoltre, che siffatto obiettivo – anche alla luce dei vincoli internazionali di cui alla ricordata Convenzione ONU del 2006 e alla Strategia dei diritti delle persone con disabilità 2021-2030 – deve essere perseguito fin dalla fase dell’accesso al pubblico impiego, dovendo l’amministrazione considerare non solo la compatibilità delle mansioni con lo stato di salute e la capacità lavorativa della persona con disabilità, ma anche l’applicazione pratica – per mezzo di appositi accomodamenti ragionevoli – delle condizioni che rendano effettivo il suo inserimento nel posto di lavoro in ossequio al principio di pari opportunità con gli altri lavoratori.
4. Verso l’effettività della tutela e dei ragionevoli accomodamenti: quali prospettive?
Le difficoltà applicative che sono emerse dall’analisi di taluni profili di specialità della disciplina del lavoro pubblico in materia di assunzione dei disabili non derivano soltanto da carenze tecniche o amministrative, ma rivelano una tensione irrisolta tra logiche formalistiche di adempimento ed effettiva promozione di percorsi inclusivi personalizzati. Il requisito dello stato di disoccupazione, ad esempio, tradisce un’impostazione statica del bisogno lavorativo, legata a categorie rigide e non più coerenti con il variegato mosaico del mercato del lavoro e la pluralità delle situazioni occupazionali (che spesso si intersecano tra loro) oggi esistenti. In quest’ottica, e tenuto conto di siffatta ambientazione, prevedere espressamente la possibilità per i disabili di iscriversi alle liste anche se occupati in modo precario consentirebbe di garantire loro l’effettivo godimento del diritto a un lavoro dignitoso, e di sciogliere il relativo nodo gordiano che puntualmente si presenta in sede di interpretazione giudiziale. Peraltro, la gestione delle quote di riserva e dei criteri di chiamata all’impiego appare più orientata alla mera compensazione burocratica dell’obbligo legale imposto alle PP.AA., che alla valorizzazione delle competenze e del potenziale professionale delle persone con disabilità. Si è in presenza quasi di una “ricezione passiva”, che si subisce in termini angustamente statistici. Per di più, molte amministrazioni non rispettano pienamente le quote previste e il correlativo apparato sanzionatorio appare ancora deficitario e debole; laddove l’introduzione di sanzioni effettive – e, per converso, di incentivi per le amministrazioni virtuose – unitamente al rafforzamento dei controlli anche da parte dei nuovi organismi chiamati al relativo monitoraggio , consentirebbe di evitare dinamiche come quelle appena descritte che, in ultima istanza, producono un paradosso: strumenti pensati a monte per includere finiscono, a valle, per riprodurre diseguaglianze. E ciò è chiaramente inaccettabile, perché un’amministrazione vitale e sanamente burocratica – che fonda il suo operato su principi costituzionali di responsabilità, indipendenza e professionalità – dovrebbe essere antesignana di un’impostazione che crea nuovi modelli idonei a rilevare una più ampia e/o innovativa organizzazione del lavoro . Ciò si ravvisa anche con riferimento alle procedure concorsuali dato che – come si è visto – la legge 68 del 1999, pur prevedendo l’istituto del collocamento mirato e l’obbligo di riserva, non fornisce indicazioni dettagliate sulle modalità di attuazione dei concorsi pubblici, lasciando ampio margine di discrezionalità alle amministrazioni. Tale lacuna normativa può tradursi in una disparità di trattamento, poiché le persone con disabilità sono spesso costrette a sostenere prove selettive standardizzate, prive di adattamenti adeguati, che non tengono conto delle specifiche esigenze derivanti dalla loro condizione. Inoltre, l’applicazione sistematica degli accomodamenti ragionevoli fin dalla fase di acceso al lavoro (predisponendo, ad esempio, l’uso di ausili o l’estensione dei tempi di prova per il candidato) risulta fortemente limitata dall’obbligo di invarianza di spesa per la P.A. Da questa angolazione, la piena attuazione dei principi costituzionali, così come dei vincoli internazionali sul diritto al lavoro delle persone con disabilità, richiede un cambio di paradigma, non solo giuridico, ma anche organizzativo e culturale. Si ravvisa, cioè, l’opportunità di superare la logica della mera “riserva” per approdare a un modello di “inclusione trasformativa”, in cui l’amministrazione non si limiti a tollerare la diversità ma si ripensi attivamente come ambiente lavorativo accessibile, adattabile e inclusivo per tutti. Ciò implica la riscrittura dei criteri di accesso al pubblico impiego, anche attraverso l’adozione sistematica degli accomodamenti ragionevoli, che devono però poter attingere a fondi dedicati ed essere sorretti da un supporto tecnico centralizzato , il quale presuppone anche, da un lato, che i dipendenti pubblici ricevano una formazione ad hoc nella costruzione di percorsi di inclusione mirata e qualificata, e dall’altro, che si implementino modelli autentici di gestione dirigenziale del personale che puntino alla valorizzazione delle differenze anche al fine di migliorare la produttività del lavoro, non attribuendo al diversity manager un ruolo meramente amministrativo , né circoscrivendone la nomina soltanto alle amministrazioni che superino una certa soglia dimensionale. In questa direzione sembra essersi mossa, da ultimo, anche la l. n. 227 del 2021 che, con specifico riferimento ai datori di lavoro pubblici, ribadisce l’obiettivo di “riqualificazione dei servizi pubblici in materia di inclusione e accessibilità”, prevedendo la nomina del disability manager “anche al fine di garantire l’accomodamento ragionevole” , e dunque lasciando intendere l’estensione del relativo campo soggettivo di applicazione anche alle PP.AA. con meno di 200 dipendenti .
L’auspicio è, dunque, che l’effettività del diritto al lavoro per le persone con disabilità non sia più affidata a strumenti evanescenti e residuali, ma assuma concretezza applicativa e divenga parte integrante della mission istituzionale della pubblica amministrazione, attraverso una “rivitalizzazione” ad horas del relativo statuto costituzionale.
