testo integrale con note e bibliografia

1. La specialità del regime probatorio
Tra gli argomenti che il presente forum si propone di approfondire, non poteva certo mancare il regime speciale dell’onere della prova, uno dei profili più peculiari e discussi della disciplina antidiscriminatoria del lavoratore con disabilità.
Proprio il profilo probatorio è stato infatti destinatario di un importante sforzo volto a consolidare e rafforzare l’effettività della disciplina , culminato con l’adozione di una significativa deviazione dalle ordinarie regole di riparto dell’onere della prova .
In materia di contrasto alle discriminazioni per disabilità, il principio trova espressione nell’art. 10 dir. 2000/78/CE, significativamente formulato in termini di ridimensionamento del carico probatorio dell’attore: «Gli Stati membri prendono le misure necessarie […] per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento» (art. 10 dir. 2000/78/CE).
Il recepimento del principio nell’ordinamento nazionale (ora all’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150/2011) si è rilevato però tutt’altro che semplice , e forse privo della necessaria ponderazione che avrebbe meritato.
È allora alle pronunce della giurisprudenza e alle riflessioni della dottrina che occorre rifarsi per ricostruire il funzionamento del modello, legislativamente descritto nei suoi soli aspetti essenziali .
2. Ex latere prestatoris
Ai sensi dell’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150/2011, spetta a chi si dichiari vittima di una discriminazione introdurre in giudizio «elementi di fatto […] dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori».
È pertanto pur sempre il ricorrente a dover assolvere a un preventivo onere di allegazione e prova (CGUE C-531/15 “Otero Ramos”), in difetto del quale il giudice è tenuto al rigetto della domanda; sicché, oggi, non si ravvisano più i presupposti per ritenere integrata una e propria inversione dell’onere della prova , preferendosi una qualificazione in termini di “alleggerimento” dell’onere della prova (Cass. S.U. 21 luglio 2021, n. 20819) o, al più, di “inversione parziale” (Cass. 2 febbraio 2025, n. 2494).
Quest’onere del lavoratore si articola nella allegazione e dimostrazione: i) del fattore protetto di cui sia titolare, ii) del trattamento differenziale subìto, e iii) del nesso di causalità sufficiente, ma non esclusivo, fra l’uno e l’altro elemento (così Cass. 2 gennaio 2020, n. 1) .
Restano fuori dal thema probandum la consapevolezza/intenzionalità della condotta discriminatoria (cfr. Cass. 5 aprile 2016, n. 6575) e l’infondatezza della motivazione eventualmente assunta dal datore di lavoro a sua giustificazione.
2.1 Il fattore protetto: la condizione di disabilità
Al lavoratore spetta in primo luogo dimostrare, tramite la deduzione e l’assunzione di comuni prove storiche, la riconducibilità della limitazione sofferta alla nozione di disabilità accolta nell’alveo del diritto antidiscriminatorio .
Si tratta di una prova che, chiaramente, sarà tanto più semplice da fornire quanto più troverà riscontri in evidenze documentali (su tutte, la certificazione acquisita tramite procedimento valutativo ex d.lgs. n. 62/2024).
Si delinea in forma diversa qualora ad essere dedotta in giudizio è una discriminazione c.d. per associazione (anch’essa assoggettata alla tutela speciale antidiscriminatoria e al corrispondente regime probatorio: C-303/06 “Coleman”) ; a rilevare, infatti, sarà non la condizione di disabilità del ricorrente, ma la riferibilità del trattamento deteriore da egli subìto al fattore disabilità (§ 2.3); tipico l’esempio del lavoratore caregiver.
2.2 Il trattamento deteriore e il termine di comparazione
Nel passaggio logico successivo, il lavoratore deve aver cura di allegare, e in alcuni casi dimostrare, il titolo dell’obbligazione che asserisce inadempiuta.
Titolo che può sostanziarsi sia in un comportamento, prassi, atto o accordo attribuibile alla sfera dell’organizzazione datoriale, sia in una norma di legge, clausola negoziata con le rappresentanze sindacali o altro atto avente portata generale.
Sta poi allo stesso lavoratore individuare il termine di comparazione che la natura eminentemente relazionale della discriminazione presuppone , di modo che possa emergere il trattamento deteriore subìto.
Più esattamente, il lavoratore che si assume discriminato è onerato ad allegare e dimostrare un trattamento differenziato (o un «particolare svantaggio») a suo danno rispetto ad un tertium comparationis, rappresentato da un soggetto (o da un gruppo di soggetti) ritenuto comparabile, rispetto al quale non si dia il fattore di protezione (o si dia in forma diversa: C-16/19 “Szpital”) .
Si pensi ai casi in cui le scelte datoriali siano idonee a coinvolgere astrattamente più posizioni lavorative (come può essere il licenziamento o il trasferimento): il lavoratore con disabilità sarà onerato a dimostrare l’esistenza in azienda di altre situazioni lavorative comparabili (ma non fattoriali) invece lasciate inalterate.
Ai fini del corretto funzionamento del giudizio di comparazione si deve aver riguardo a un soggetto che si trovi in una situazione analoga in specifico riferimento alla prestazione di cui trattasi (C-127/07 “Arcelor”). Se ad esempio il trattamento di cui si discute risulta essere connesso alle mansioni svolte (come può essere la retribuzione o altre indennità di posizione), il termine di paragone dovrebbe aver riguardo agli altri lavoratori che svolgono – effettivamente e non solo formalmente: C-400/93 “Royal Copenhagen” – quella mansione; se invece il titolo inadempiuto prescinde dalla natura delle prestazioni svolte (es. atti o prassi di portata generale) anche il relativo parametro di comparazione dovrà tenerne conto (C-267/12 “Hay”).
Muovendo da questo, il comparator potrebbe anche non più esistere (C-129/79 “Macarthys”) o essere meramente “ipotetico” (C-177/88 “Dekker”), e potrebbero pure profilarsi prassi probatorie volte a ricreare artificiosamente una situazione identica a quella in cui versa il ricorrente (il c.d. situation testing) .
Il giudizio di relazione rivela così la sua attitudine ad impedire concrete disparità di trattamento o di effetti, assicurando anche l’applicazione ex se di alcuni trattamenti protettivi.
Molte, però, sono le criticità che lo circondano (in particolar modo quelle che attengono alla discriminazione indiretta e alla dimensione collettiva che essa assume , su tutte l’individuazione dell’esatta composizione dei gruppi da confrontare e la determinazione della soglia di tolleranza della sproporzione ) che, se non governate, potrebbero compromettere l’esito del giudizio comparativo.
2.3 Il nesso di causalità
Anche con riferimento alla prova della riferibilità del trattamento deteriore alla condizione di disabilità, l’agevolazione dell’art. 28 comma 4 si rivela quanto mai opportuna, ammesso che, almeno di regola, tale correlazione non è immediatamente percepibile ed è anzi astutamente celata dietro ragioni oggettive.
L’agevolazione si concretizza nella facoltà riconosciuta al ricorrente di dedurre «elementi di fatto» (in realtà anche uno solo) che rendono solo “plausibile” (Cass. 2 maggio 2024, n. 11731) o “verosimile” (CdA Milano 11 novembre 2022, n. 857) una discriminazione o che – per utilizzare la terminologia della Corte di Giustizia – siano idonei soltanto a “prefigurare” (C-226/98 “Jørgensen”) o far “presumere” (C-104/2010 “Kelly”) una discriminazione.
Tramite questo approccio, il regime speciale si pone “in un punto del ragionamento presuntivo anteriore rispetto alla sua completa realizzazione secondo i canoni di cui all’art. 2729 c.c.” (Cass. 2 gennaio 2020, n. 1), perché privo dei classici requisiti della gravità, precisione e concordanza .
Quali siano questi «elementi di fatto» è valutazione che, naturalmente, è strettamente connessa alle specificità del caso concreto, potendosi qui riportare solo alcune indicazioni di massima che si desumono dai repertori giurisprudenziali.
Tra esse: le “sospette” circostanze di tempo che accompagnano l’adozione dell’atto lesivo , il rifiuto dell’azienda di ostentare dati e informazioni (C-415/2010 “Meister”) , le esternazioni discriminatorie rese in pubblico (C-54/07 “Feryn”) o in privato (Trib. Torino 28 dicembre 2016, n. 25780) dal datore di lavoro, il carattere “coatto, generalizzato e duraturo della prassi controversa” (C-83/14 “Chez”), i “concomitanti atti indesiderati” (Cass. 9 gennaio 2025, n. 460) , la mancanza di valide giustificazioni che accompagnano l’atto discriminatorio (Cass. 27 settembre 2018, n. 23338).
Altre indicazioni provengono dalla Commissione europea .
È invece lo stesso art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150/2011 a ritenere idonei «anche» dati di carattere statistico , relativi «anche» alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata.
L’approccio statistico si rivela uno strumento utile di agevolazione, per la sua capacità di svelare casi nascosti ma diffusi di discriminazione, soprattutto indiretta . Sono molte però le criticità che gli fanno strada (che qui possono essere solo sommariamente accennate).
A partire dalla corretta individuazione della base di campionamento, profilo spesso attenzionato dalla Corte di Giustizia, la quale, al riguardo, ha prima marcato la necessità di far riferimento a un campione sufficientemente ampio di soggetti e a fenomeni non di breve periodo ma rilevanti (C-127/92 “Enderby”) , e poi specificato l’opportunità di farla coincidere con l’ambito in cui opera la scelta del datore di lavoro (C-161/18 Villar Láiz) . Non può escludersi però che, per alcune situazioni, la comunità di confronto possa essere più vasta, fino a coincidere con il mercato del lavoro .
Sul fronte nazionale, la Cassazione ha invece sottolineato l’importanza dell’attendibilità del dato e, nello specifico, della fonte di provenienza, del metodo di rilevazione e della chiarezza nella presentazione delle informazioni (Cass. 5 giugno 2013, n. 14206) .
Da parte sua, la dottrina ha mostrato particolare interesse sul grado di conferma probatoria del dato statistico: come tendente al rigorismo scientifico o nel senso più comune di “probabilità”, e come tale oggetto di libera valutazione da parte del giudice , che evidentemente sarà tanto più agevole quanto più l’impatto differenziato sarà significativo.
Sotto quest’ultimo profilo, a un passato ricco di pronunce improntate su parametri prettamente quantitativi , si è opposta la più recente tendenza a valorizzare l’aspetto qualitativo (cfr. C-167/07 “Seymour Smith e Perez”).
Sta di fatto che, una volta forniti tali «elementi», la palla “passa” al datore di lavoro, al quale viene addossato il “rischio dell’incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria” (Cass. 28 marzo 2022, n. 9870) .
3. Ex latere datoris
Integratasi, nei termini descritti, la “presunzione di discriminazione”, «spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione» (art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150/2011).
Quest’onere si estrinseca nella allegazione e dimostrazione: o i) di fatti contrari idonei provare o il diverso significato degli elementi forniti dal ricorrente, o ii) dell’esistenza di una ragione lecita alternativa, oppure iii) della sussistenza di una scriminante.
In mancanza, sarà la stessa regola ordinamentale di giudizio a determinare il giudice a ritenere pienamente provata la discriminazione.
3.1 Il fatto contrario
Ove intenda contestare la fattorialità o il trattamento deteriore assunti dal ricorrente, il convenuto potrà allegare fatti diversi e contrari (che ovviamente si distingueranno a seconda della fattispecie discriminatoria di cui si controverte).
Più precisamente: che la condizione del lavoratore non integra uno stato di disabilità ; che non è stato posto in essere alcun atto svantaggioso o comportamento indesiderato violativo della dignità della persona; che non sussiste l’effetto svantaggioso per il gruppo cui appartiene il ricorrente o che, pur sussistendo, è “meno che particolare”; che la comparazione effettuata non verte su situazioni analoghe; che il criterio di selezione è realmente e “non apparentemente neutro”.
Nell’assolvimento della prova contraria, il presunto autore della discriminazione non beneficia di alcun alleggerimento, ma è chiamato a fornire la prova piena, dovendo “dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa” (Cass. 31 marzo 2023, n. 9095) .
Peraltro, è evidente che la “presunzione di discriminazione” già emersa sarà “tanto più difficile da superare quanto più gli elementi di fatto allegati dal lavoratore si approssimano al massimo grado di automatismo valutativo” (CdA Trento 23 febbraio 2017).
Così, ad esempio, nelle ipotesi di “discriminazione annunciata” (il caso Feryn già citato) al datore di lavoro non basterà, per integrare una idonea prova contraria, una mera controdichiarazione ma dovrà dimostrare la non corrispondenza delle dichiarazioni rese con il comportamento tenuto in azienda (ma v. C-81-12 “Accept”) . A tal fine, potrà avvalersi anche dello strumento della prova statistica , soprattutto laddove i dati forniti dal ricorrente non siano pienamente rappresentativi della realtà .
3.2 Il nesso causale esclusivo
Diversa è la situazione qualora il trattamento differenziale subìto dal lavoratore con disabilità sia stato provato o, comunque, non sia in discussione.
In casi siffatti, la discriminazione può dirsi esclusa quando ad avere avuto esclusivo rilievo causale sia stata una ragione (obiettiva) alternativa, id est la riferibilità del trattamento deteriore a fattori altri rispetto alla disabilità (C-457/93 “Rinner-Kühn”).
Ciò vuol dire che la prova negativa dell’insussistenza di una correlazione tra l’atto e il fattore di rischio si traduce nella prova positiva della sussistenza di un nesso causale con un fatto diverso , idoneo, di per sé, ad escludere in concreto la sussistenza di una causa o di un effetto discriminatorio (Cass. 27 settembre 2018, n. 23338) .
Senza qui poter dar conto di tutte le implicazioni connesse al tema, merita attenzione il fatto che la prova sulla legittimità della condotta è cosa diversa (per eccesso e per difetto) dalla prova sulla non discriminatorietà della stessa .
Da una parte, infatti, il fallimento della prova datoriale della giustificatezza non conduce necessariamente all’accertamento della discriminatorietà (per quanto la giurisprudenza gli attribuisca un ruolo non secondario nella costruzione del ragionamento presuntivo sull’esistenza di una discriminazione). Oggetto dell’onere datoriale de quo non è infatti la sussistenza dei presupposti che legittimano l’adozione dell’atto, ma quella di un fatto, diverso dal fattore di rischio, che abbia con l’atto di recesso un nesso di causalità esclusivo.
D’altra parte, la raggiunta prova della legittimità e non arbitrarietà di un atto, patto, prassi o comportamento datoriale non vale ad elidere automaticamente un’eventuale fattispecie discriminatoria (seppure potrebbe di certo indebolirla).
È per tale ragione che, in presenza del fattore protetto della disabilità, diviene irrilevante l’individuazione in capo al lavoratore di un diritto soggettivo ovvero di una mera aspettativa (Cass. 26 febbraio 2021, n. 5476).
3.3 La causale scriminante
Una “terza via” si concretizza qualora non sia in discussione nemmeno l’esistenza del nesso causale .
Il convenuto potrà allegare e provare che il trattamento o l’effetto differenziato in ragione della disabilità si spiega alla stregua di una eccezione o di una giustificazione prevista dalla legge .
E questo perché, in presenza di una discriminazione diretta, la normativa europea (art. 4 § 1 dir. 2000/78/CE), recepita da quella nazionale (art. 3, comma 3, d.lgs. n. 216/2003), ammette un’eccezione specifica nei casi in cui, «per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata», una caratteristica legata alla disabilità – e non il motivo stesso della disabilità (cfr. C-447/09 “Prigge”) – costituisce un requisito «essenziale e determinante» per lo svolgimento dell’attività lavorativa .
Per le discriminazioni indirette è invece prevista una giustificazione di carattere generale – che si riferisce alle diseguaglianze «giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari» (art. 2 § 2 lett. b), i) dir. 2000/78/CE; art. 3, comma 6, d.lgs. n. 216/2003) – e una specifica, che scrimina quelle differenze da “accomodamenti ragionevoli” (art. 2 § 2 lett. b), ii) dir. 2000/78/CE; art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216/2003).
Sono fatte salve, inoltre, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del richiamato d.lgs. n. 216, le disposizioni che attengono alla sicurezza e protezione sociale, alla sicurezza pubblica e prevenzione dei reati, a questioni di stato civile e di prestazioni che ne derivano, di accesso alle forze armate.
Dal sistema descritto deriva che una differenza di trattamento nei confronti di un lavoratore disabile e in ragione del suo stato di disabilità potrà considerarsi legittima solo qualora sia assistita da una scriminante, tenuto conto dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli . L’area delle eccezioni e delle giustificazioni ammesse è dunque anch’essa cruciale nel delimitare o ampliare la tutela antidiscriminatoria.
Di qui l’importanza di intenderle in modo restrittivo, e quindi in termini di ineliminabilità e insuperabilità definitiva delle richieste condizioni psico fisiche , da dimostrarsi allegando di non aver potuto ragionevolmente adottare soluzioni meno discriminatorie (C-170/84 “Bilka”).
Ma anche secondo canoni oggettivi , motivo per cui si è esclusa con nettezza la possibilità di dare rilievo ai gusti soggettivi discriminatori della clientela (C-188/15 “Boungaoui”), anche se ne possa risultare un pregiudizio per gli interessi economici dell’impresa (Corte Cost. 22 gennaio 1987, n. 17) , per il mercato in generale o per il bilancio dello Stato (C-187/00 “Kutz-Bauer”).
E si coglie in questo carattere la differenza di peso specifico della tutela antidiscriminatoria rispetto quella accordata mediante la generica imposizione di una giustificazione necessaria per l’esercizio di alcuni poteri datoriali .
4. Profili applicativi
Il ricostruito regime speciale di distribuzione dell’onere della prova deve ritenersi applicabile a tutte le controversie in cui è dedotta una discriminazione correlata al fattore disabilità, a prescindere dal tipo di azione proposta e dal rito.
Nell’imporre il favor probatorio, la giurisprudenza della CGUE, prima, e il legislatore europeo, poi, hanno fatto valere l’esigenza di garantire l’effettività della disciplina antidiscriminatoria, in considerazione di una vera e propria mancanza di disponibilità della fonte di prova in capo al lavoratore. La ratio della norma, dunque, si radica nel principio dell’effetto utile dei divieti di discriminazioni europei , vincolando il giudice nazionale in sede di interpretazione conforme .
Nonostante il silenzio del legislatore sul punto, non può quindi dubitarsi che il descritto regime speciale trovi applicazione, oltre che alle ipotesi previste dall’art. 28 d.lgs. n. 150/2011 , anche all’azione a cognizione piena (art. 409 ss. c.p.c.) o all’impugnativa di licenziamento ex art. 441-quater c.p.c. .
È allora corretto riferirsi a un “principio di unitarietà della tutela discriminatoria con particolare riferimento alla prova” .

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