Testo Integrale con note e bibliografia

Testo dell'Ordinanza

Abstract

La nota di approfondimento intende aggiornare il lettore circa i più recenti sviluppi della vicenda processuale relativa alla discriminazione nell’accesso al pubblico impiego con riferimento al requisito della cittadinanza italiana, a partire dalla decisione di merito pronunciata dal giudice fiorentino di primo grado. L’autrice esamina l’aspetto dell’ammissibilità delle azioni collettive in relazione alla discriminazione per nazionalità, della legittimazione attiva da parte delle associazioni e degli enti esponenziali e dei criteri adottati dal Giudice per la determinazione del danno comunitario. Nelle conclusioni vengono individuati alcuni aspetti critici della disciplina antidiscriminatoria sostanziale e processuale per la sussistenza di aporie e di vuoti normativi difficilmente colmabili con l’intervento interpretativo del giudice.

The in-depth note aims to update the reader with the latest developments about the trial case concerning discrimination in access to public employment with reference to the requirement of Italian citizenship, starting from the decision of merit pronounced by the Florentine judge of first instance. The author looks over the aspects about admissibility of collective actions in relation to discrimination by nationality, about the active legitimacy by associations and exponential public authorities, and about the criteria adopted by the Judge for the determination of community damage. The conclusions identify some critical aspects of the substantive and procedural anti-discrimination discipline for the existence of aporias and regulatory voids that are difficult to fill with the interpretative intervention of the judge.

Sommario:
1. La vicenda giudiziaria.
2. L’ammissibilità delle azioni collettive avverso le discriminazioni per nazionalità.
3. Il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei soggetti collettivi e la sua quantificazione.
4. Conclusioni.

 

1. La vicenda giudiziaria.
Con ordinanza del 26 giugno 2018, il Tribunale di Firenze ha deciso nel merito il giudizio promosso con ricorso ex artt. 44 D. Lvo 298/96, 28 D. Lvo n. 150/11 ed art. 702 bis c.p.c., accogliendo la domanda collettiva proposta dall’Associazione L’Altro Diritto O.n.l.u.s ( di seguito “L’associazione”) e dichiarando la carenza di interesse della domanda individuale proposta dalla ricorrente cittadina albanese in possesso di permesso di soggiorno di lungo periodo. L’articolata vicenda ha già avuto ospitalità nelle pagine di questa rivista (con la pubblicazione nel n. 1/2018 della ampia ed esaustiva nota redatta dalle avvocate Ventura e Surace, difensori dei ricorrenti nell’ambito del processo ). Il presente approfondimento si ripromette pertanto di aggiornare il lettore circa i più recenti sviluppi dell’appassionante vicenda processuale, focalizzando l’attenzione solo su alcuni dei molteplici aspetti che il Giudicante ha vagliato per giungere alla pronuncia, diffusamente motivata e ricca di richiami, rinviando per il resto ai precedenti contributi. Per comodità di chi legge, richiamiamo in estrema sintesi la fattispecie oggetto del giudizio. Il caso prende le mosse dalla pubblicazione da parte del Ministero Della Giustizia di un bando per l’inserimento a tempo indeterminato nei ruoli dell’amministrazione della giustizia di 800 assistenti giudiziari. Una cittadina albanese lungo soggiornante ed un’Associazione proponevano ricorso ai sensi dell’art. 44 d.lvo n. 298/96, art. 28 d.lvo n. 150/2011 e 702 bis c.p.c. convenendo in giudizio dinanzi al Giudice del Lavoro di Firenze il Ministero per ottenere: a) la declaratoria della natura discriminatoria di tale bando di concorso, nel punto in cui prevedeva il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso alla selezione pubblica, escludendo i cittadini comunitari, i cittadini stranieri in possesso dei requisiti di cui all’art. 38 d.lvo n. 165/2001, i titolari di carta blu ed i familiari non comunitari di cittadini italiani; b) l’ordine di cessazione del comportamento discriminatorio e la rimozione degli effetti, con conseguente eliminazione della clausola contestata, ammissione alla procedura concorsuale della ricorrente e degli altri candidati stranieri non individuabili in modo diretto e riapertura dei termini, c) la condanna del Ministero al risarcimento del danno non patrimoniale. Nella fase cautelare instauratasi a seguito di proposizione di domanda ex art. 700 c.p.c. in corso di causa, il Tribunale di Firenze aveva emesso ordinanza di accoglimento totale, dichiarando illegittima la richiesta del requisito della cittadinanza italiana per la partecipazione alla selezione ed ordinando al Ministero la rimozione del criterio discriminatorio. In sede di reclamo cautelare, per contro, il Collegio dichiarava il difetto di legittimazione attiva dell’Associazione, stabilendo che l’azione collettiva fosse ammissibile solo per le discriminazioni per razza ed origine etnica e non in relazione al fattore nazionalità e, in accoglimento del reclamo proposto dal Ministero, revocava l’ordinanza del Tribunale di Firenze del 27.05.2017 respingendo il ricorso cautelare proposto dai due ricorrenti. Ora il giudizio di merito è stato deciso dal Tribunale con ordinanza di accoglimento parziale della domanda, che da un lato ha dichiarato la natura discriminatoria della condotta ministeriale in relazione al concorso, condannando il convenuto al pagamento di un risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell’Associazione, dall’altro ha dichiarato inammissibile l’azione individuale proposta dalla ricorrente cittadina albanese, per sopravvenuta carenza di interesse ad agire ( la medesima aveva infatti partecipato con riserva alle selezioni concorsuali, risultando non idonea). Il Tribunale pertanto ha confermato la titolarità dell’azione collettiva in capo all’Associazione, la sua piena legittimazione attiva nel procedimento di specie ed ha accolto la domanda nel merito. Con tale decisione le ragioni del contendere risultano ormai circoscritte ai seguenti punti controversi: 1) l’ammissibilità in generale di un’azione collettiva per il fattore di rischio “nazionalità”; 2) la specifica legittimazione attiva dell’Associazione e pertanto i requisiti necessari per tale riconoscimento; 3) il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei soggetti collettivi e la sua quantificazione. La pronuncia risulta ancora sub iudice, in quanto è stato già radicato il giudizio d’appello. Sarà sicuramente interessante verificare la “tenuta” in tale sede della pronuncia di primo grado, alla luce delle varie questioni in diritto che essa sviluppa. Infatti la vicenda degli effetti concreti della clausola discriminatoria si è ormai esaurita, con l’approvazione della graduatoria definitiva del concorso pubblico e l’immissione in possesso delle funzioni dei vincitori presso le sedi di servizio . Ed a seguito del compimento della procedura concorsuale, l’unico rimedio residuato è quello risarcitorio, a fronte del consolidamento del danno patito dai soggetti, anche non individuabili, privi del requisito della cittadinanza italiana ma cittadini comunitari o stranieri rientranti nelle categorie previste dall’art. 38 D.lvo 165/2001, che non hanno presentato domanda e partecipato alla selezione a causa della clausola riconosciuta come discriminatoria. Un danno non patrimoniale che il Giudice di prima istanza ha liquidato in favore dell’Associazione, quale ente portatore degli interessi lesi dalla censurata condotta ministeriale.
2.L’ammissibilità delle azioni collettive avverso le discriminazioni per nazionalità.
Nel novero delle fonti che regolamentano le azioni collettive contro le discriminazioni ricordiamo innanzi tutto i considerando 16 della Direttiva 2000/43/CE (razza ed origine etnica) e 6 della gemella 2000/78/CE (età, handicap, orientamento sessuale, religione, convinzioni personali in ambito lavorativo), che vincolano gli Stati Membri all’adozione di misure minime di tutela contro le disparità di trattamento e di “azioni appropriate” per la loro rimozione. Al fine di garantire un livello di protezione adeguato ed effettivo, le Direttive di ultima generazione invitano gli Stati a conferire alle associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche aventi il legittimo interesse a garantire l’attuazione delle disposizioni delle Direttive stesse, il potere di avviare procedure “per conto o a sostegno delle persone che si ritengono lese e con il loro consenso”, finalizzate all’esecuzione degli obblighi ivi contenuti. Non vi è dubbio che un’azione di contrasto verso comportamenti lesivi dei diritti dei singoli è tanto più efficace ove la vittima (particolarmente vulnerabile proprio per i fattori di discriminazione cui è portatrice), possa contare su un apparato di sostegno offerto da soggetti collettivi organizzati, che le garantiscano risorse, competenza ed autorevolezza. Il sistema di protezione antidiscriminatoria così approntato dall’ordinamento euro unitario sarebbe però fallace, se l’ente esponenziale portatore degli interessi lesi dovesse limitare il proprio intervento alla difesa di soggetti ben determinati che rilasciano specifica delega, come suggerirebbe il tenore letterale della previsione sovranazionale. Le direttive sopra citate infatti non sembrano prevedere ( anche se non lo escludono) che il legislatore nazionale possa disciplinare l’intervento di tali soggetti collettivi nel caso in cui le vittime non siano immediatamente individuabili, come nel caso di atti a portata generale (norme, contratti collettivi, bandi di concorso) da cui scaturiscano discriminazioni che colpiscono un numero imprecisato di persone. A tale lacuna ha posto rimedio la Corte di Giustizia del Lussemburgo grazie ad alcuni fondamentali approdi ( principalmente le sentenze. Feryn e Accept ) che hanno confermato l’assenza di ostacoli insiti nelle direttive alla previsione da parte del legislatore nazionale della legittimazione attiva delle Associazioni, anche qualora le vittime non siano identificabili in modo immediato e diretto. Nel nostro ordinamento interno l’istituto dell’azione collettiva antidiscriminatoria non ha carattere di novità, dal momento che fin dal lontano 1991, con la legge n. 125/91 ( Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) era stata prevista la legittimazione attiva della Consigliera di Parità (Regionale o Nazionale, per i casi della rispettiva rilevanza territoriale) per le azioni antidiscriminatorie relative al sesso, anche nel caso in cui i soggetti lesi non fossero individuabili in maniera immediata e diretta . Il legislatore nazionale, nell’introdurre tale rito innovativo, partiva dalla considerazione che uno dei principali punti di debolezza del precedente regime di tutela giurisdizionale dalle disparità di trattamento illegittime, centrato sull’alternativa fra azione ordinaria di nullità con effetti caducatori ed eventualmente risarcitori e l’azione speciale d’urgenza con effetti restitutori/ripristinatori, fosse il carattere esclusivamente individuale del procedimento . Mediante il riconoscimento in capo ad un organismo pubblico come la Consigliera regionale (e Nazionale) di Parità di un’autonoma legittimazione attiva contro le discriminazioni a valenza collettiva ( pur in assenza di una definizione “sostanziale “ della relativa nozione), venivano riposte le maggiori aspettative di un effettivo cambiamento di rotta rispetto alla deludente performance della precedente disciplina. Appare tutt’ora evidente infatti il vantaggio di un’azione pubblica a valenza superindividuale, di iniziativa istituzionale, che alleggerisce la vittima della discriminazione dall’onere di assumere l’iniziativa di intraprendere un percorso processuale in prima persona, non necessita di una preventiva individuazione dei soggetti lesi e si conclude con un provvedimento con effetti inibitori, ripristinatori e sanzionatori destinato a ripercuotersi beneficamente nei confronti dell’intero gruppo penalizzato. Il paradigma preso in considerazione dal legislatore nel 1991 veniva offerto dall’esperienza nordamericana: in tale sistema le controversie aventi ad oggetto condotte plurioffensive si inseriscono in un modello di litigation che correla la dimensione collettiva della discriminazione alla legittimazione ad agire ed alla tipologia dei rimedi. Lo schema processuale è basato su un’ azione pubblica (public law litigation) ed una class action volte non solo alla riparazione del vulnus, ma altresì alla modifica della situazione lesiva attraverso structural charges ed il coinvolgimento delle parti, del giudice e delle agencies per la parità di trattamento. Il provvedimento giudiziale appare in tale contesto particolarmente incisivo, poiché dotato di tecniche di esecuzione idonee a garantirne l’effettività attraverso affermative actions, concordate in giudizio e recepite in un consent decree . Ben poco di tale sofisticato meccanismo è rinvenibile nel nostro ordinamento, ove non è prevista neppure una definizione sostanziale di discriminazione collettiva. Il che, detto per inciso, è il male minore, nell’ottica di un’interpretazione il più possibile allargata delle ipotesi di esperibilità dell’azione collettiva. Ma da tale definizione è necessario partire, per tratteggiare almeno qualche rapido accenno dell’assetto sistematico, nei limiti della presente nota, delle azioni collettive antidiscriminatorie nel nostro ordinamento. A fronte di una giurisprudenza abbastanza rarefatta, soccorre la riflessione dottrinale maturata in relazione a tale nozione, che tiene conto della volontà del legislatore di colpire la discriminazione quando le regole dalle quali scaturiscono le disparità di trattamento vengono immesse nell’ordinamento e non solo quando vengono applicate . Vero è che nella nozione di discriminazione diretta appare insito il principio dell’attualità della lesione (l’”effetto pregiudizievole” di cui all’art. 25 D.Lgs. 198/2006), anche a prescindere dalla necessità di individuare i soggetti portatori dell’interesse ad agire perché vulnerati dalla disparità di trattamento. Il che sembrerebbe escludere le lesioni non attuali, ma meramente potenziali. Molto più chiara la connessione tra azione collettiva e discriminazione indiretta, quando la disposizione, il criterio, la prassi, l’atto, il patto o il comportamento apparentemente neutri “mettono o possono mettere” i lavoratori appartenenti ad un determinato genere in posizione di particolare svantaggio rispetto a quelli dell’altro. Ciò implica che l’attualità della lesione ad una sfera soggettiva (ancorchè non direttamente identificabile) non sia necessariamente richiesta: può essere solo potenziale ed ipotetica, come può essere futura. La comparazione fra gruppi identificati sulla base della loro appartenenza ( nel caso del Codice delle Pari Opportunità ad un genere, ma il ragionamento vale anche per gli altri fattori di rischio disciplinati dai D. Lgs. n. 215 e 216 del 2003), potrà produrre quale risultato l’accertamento di effetti ingiustamente diversificati, ma anche la sola ipotetica incidenza pregiudizievole su una sola delle due sfere poste a confronto. Nel primo caso si avrà una valutazione ex post dell’efficacia discriminatoria della regola solo apparentemente neutra, al cui fine sarà particolarmente utile l’impiego dell’evidenza statistica, come metodologia di indagine a carattere quantitativo. Nel secondo, invece, la valutazione avverrà ex ante, attraverso una prognosi della valenza qualitativamente discriminatoria di un’azione, o di una disciplina generale o negoziale, con criteri valutativi diversi da quelli quantitativi. In altre parole, nel caso delle discriminazioni in ragione del sesso, la Consigliera potrà avvalersi dell’azione collettiva “pubblica” sia qualora vi sia una discriminazione diretta perpetrata attraverso un comportamento con effetto plurioffensivo (a prescindere dal fatto che i soggetti lesi siano concretamente individuati o individuabili), sia in caso di discriminazione indiretta, anche ove non sia possibile né quantificare né individuare i soggetti concretamente o potenzialmente lesi .
Per quanto concerne le discriminazioni per fattori diversi dal genere, la disciplina di diritto interno dell’azione collettiva è frutto di una stratificazione di norme di fonte nazionale e di recepimenti più o meno corretti di fonti europee e si presenta complessivamente disorganica ed inutilmente complicata. Per le discriminazioni basate su razza/origine etnica, ai sensi dell’art. 5 comma 1 del D. Lgs. 215/03 l’azione collettiva è prevista in favore di “le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le Pari Opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione”.
Mentre per i fattori di rischio età, handicap, convinzioni personali, religione, orientamento sessuale in ambito lavorativo, sono legittimate alla tutela collettiva “le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso” . Le sole organizzazioni sindacali, sub specie delle rappresentanze locali delle OO. SS. maggiormente rappresentative a livello locale, sono altresì titolari dell’azione collettiva nelle discriminazioni in base alla nazionalità in ambito occupazionale, secondo quanto previsto dall’art. 44 comma 10 del T.U. Immigrazione. E’ vero che, come sopra anticipato, le fonti sovranazionali hanno voluto affidare al legislatore del singolo Stato Membro la facoltà di dotarsi o meno di strumenti di tutela antidiscriminatoria che comprendano anche il conferimento a enti o associazioni del potere di avviare procedure amministrative o giurisdizionali a carattere collettivo. E non vi è dubbio che vi sia stata una lodevole tempestività e sensibilità nel recepimento di questa sollecitazione da parte del nostro ordinamento . Ma non è agevole comprendere fino in fondo la logica che sottende l’attribuzione della legittimazione attiva a ad alcuni soggetti per determinati fattori di rischio e non per altri. Non si può che arrendersi all’assenza di una logica ed alla modalità disordinata ed asistematica che caratterizza la regolamentazione nazionale della specifica materia. Per non parlare del requisito dell’iscrizione in appositi registri da parte della associazioni, regolato con prescrizioni quanto mai farraginose. Tanto è vero che in materia il principale contenzioso in sede giudiziaria si manifesta proprio sulla questione della legittimazione attiva delle associazioni e degli enti, che devono avviarsi lungo un percorso ad ostacoli fino all’inevitabile eccezione processuale da parte del convenuto, come peraltro è accaduto nel caso di specie.
La problematica dell’ammissibilità dell’azione collettiva in generale ed in specifico per la discriminazione legata alla nazionalità viene affrontata dal Giudice di merito nella pronuncia annotata nella consapevolezza della sua valenza cruciale per la stessa sopravvivenza della domanda dedotta in giudizio, essendo sopravvenuta la carenza di interesse da parte della ricorrente individuale. Il Tribunale a questo proposito richiama il disposto dell’art. 5 comma 3 del D.Lvo 215/2003, il quale fonda la legittimazione propria dell’ente esponenziale dell’interesse collettivo, in ragione dello scopo che esso si prefigge nella sua attività di contrasto alle discriminazioni, precisando che ciò che caratterizza le azioni discriminatore collettive è “la lesione degli interessi del gruppo cui appartengono i soggetti vittima della condotta discriminatoria, la cui individuabilità soggettiva è irrilevante, essendo la condotta discriminatoria potenzialmente lesiva del diritto del singolo mediante la sua appartenenza al gruppo” . Sottolineando l’irrilevanza della mancata proposizione dell’azione giudiziaria da parte degli individui portatori del concreto e diretto interesse, “in quanto e purchè l’associazione sia portatrice dell’interesse collettivo leso”, la pronuncia si colloca coerentemente nell’alveo della giurisprudenza della CGUE più sopra richiamata. In ordine poi alla specifica ammissibilità delle azioni collettive avverso le discriminazioni per nazionalità, il Tribunale nell’ordinanza di merito afferma di volersi adeguare all’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione con le sentenze 8 maggio 2017 n. 11165 e n. 11166 , la quale ha esteso la possibilità di proporre l’azione collettiva anche al fattore di rischio “nazionalità”. Orientamento dal quale invece il Collegio, decidendo sull’ordinanza cautelare, aveva ritenuto consapevolmente di discostarsi. La Suprema Corte, nei citati arresti, aveva offerto una lettura costituzionalmente orientata delle norme ( artt. 2 e 4 d.lgs. n. 215/2003 e art. 43 T.U. 286/1998), in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., che osterebbero al mancato riconoscimento della legittimazione attiva di un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva in ragione della nazionalità . A differenza del Collegio in sede di reclamo cautelare che, in accoglimento delle eccezioni avanzate dal Ministero, aveva privilegiato un’interpretazione rigorosamente letterale delle norme sopra ricordate: in specifico dell’art. 5 d.lgs. 215/2003 attuativo della Direttiva 2000/43/CE che prevede l’azione collettiva antidiscriminatoria per i fattori razza ed origine etnica, ma la esclude esplicitamente per la nazionalità, e dell’art. 44 d.lvo 286/98, che conferisce la legittimazione processuale attiva alle sole organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. L’argomentazione adottata dal Tribunale, in “consapevole dissenso” con il ragionamento del Collegio espresso in sede di reclamo, parte dal presupposto che la tutela antidiscriminatoria nel nostro ordinamento abbia assunto la dimensione di un vero e proprio corpus articolato di norme sostanziali e processuali in reciproca connessione, frutto di un processo additivo conseguente ad una progressiva stratificazione normativa. Il principale argomento addotto dal Ministero, ovvero l’esclusione esplicita dall’ambito di applicazione del d.lgs. n. 215/03 del fattore nazionalità, secondo il Giudice di primo grado non vale ad escludere l’applicazione dell’azione antidiscriminatoria collettiva alle disparità di trattamento basate sulla nazionalità. Argomento invece fortemente valorizzato dal Collegio. La tutela, secondo il Giudice monocratico del merito, va ampliata e non ristretta, dal momento che la nozione di discriminazione delineata dall’art. 2 d.lgs. 215/03 fa espressamente salve le disposizioni di cui all’art. 43 comma 1 e 2 D. Lvo 286/98 che ricomprendono fra i fattori di rischio la nazionalità, così come la razza, il colore, l’ascendenza nazionale, l’origine etnica, le convinzioni e pratiche religiose. A tale nozione “estesa” di discriminazione sostanziale non può, pertanto, che riconnettersi la tutela processuale, apprestata attraverso un rito unico, previsto dall’art. 28 del d. lvo 151/2011 per ogni forma di discriminazione diversa da quella di genere ( regolata invece dai due riti speciali, individuale e collettivo, previsti dagli artt. 36, 37 e 38 del D. Lgs. 198/2006). Questo sostanzialmente è lo snodo saliente che il Collegio non pare aver sviluppato, mentre costituisce il principale caposaldo della pronuncia di merito. Vero è che l’ermeneusi delle norme secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata era consentita al giudice del merito e preclusa al giudice della fase cautelare. Quindi l’argomento sviluppato dalla Corte di Cassazione, (quando rileva che i fattori di discriminazione razza ed origine etnica si aggiungono ai fattori già vietati, ampliando e non riducendo l’ambito della tutela, che l’azione civile antidiscriminatoria è posta a presidio della definizione sostanziale ed estesa di discriminazione individuale e collettiva e che pertanto l’esclusione dell’azione collettiva per le discriminazioni in base alla nazionalità avrebbe profili di incostituzionalità), non sarebbe stato utilizzabile in sede di reclamo, per sollevare la questione del contrasto con i principi della Carta Costituzionale ( artt. 3 e 24 Cost.) e con i principi di derivazione comunitaria. Infatti la diversificazione delle tutele sul piano dei rimedi processuali, per fattori di rischio aventi pari dignità sotto il profilo sostanziale, in assenza di una ragionevole giustificazione, secondo il giudice di legittimità risulterebbe in contrasto con le norme costituzionali, rivelandosi in definitiva il fattore “nazionalità” l’unico a vedersi preclusa la tutela sul piano collettivo, fatta salva la legittimazione delle organizzazioni sindacali prevista dall’art. 44 comma 10 T.U. immigrazione. La disamina di tale trattamento processualmente differenziato in chiave di illegittimità costituzionale è stata pertanto evitata dal giudicante in sede cautelare, mentre la sfida è stata pienamente colta dal Giudice del merito, che si è attenuto al principio di diritto enucleato dagli Ermellini nelle sentenze sopra ricordate, adottando una lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo che appare ineccepibile.
3.Il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei soggetti collettivi e la sua quantificazione.
Come più sopra accennato, la determinazione quantitativa del danno non patrimoniale è strettamente correlata alla nozione di azione collettiva che si ritiene di adottare: un modello che sottolinei la sua valenza di rimedio per lesioni plurisoggettive e valorizzi l’aspetto di intervento verso una sommatoria di singole posizioni accomunate dall’appartenenza, oppure un intervento a tutela di un interesse generale superindividuale, o ancora un interesse proprio dell’ente esponenziale agente, che viene delegittimato nella sua funzione di contrasto a causa del comportamento discriminatorio? A seconda della scelta, anche il rimedio risarcitorio potrebbe assumere un assetto diverso. Se infatti il bene collettivo tutelato si esaurisse nella somma di più interessi individuali, potrebbe prevalere la sua funzione compensativa e, secondo il principio di proporzionalità, non sarebbe ammissibile la liquidazione di poste ulteriori rispetto a quelle strettamente spettanti ai singoli. Se invece si valorizza il ripristino del principio di parità di trattamento leso e quindi l’interesse superindividuale perseguito dall’Ente agente, sarà la funzione dissuasiva e in qualche misura rieducativa rispetto alla collettività a valere, consentendo al Giudicante un liquidazione con connotazioni meno vincolate. Anche la stessa titolarità del risarcimento si pone come un tema suscettibile di controversia: se i soggetti destinatari fossero identificati nelle singole vittime delle condotte illecite, come la mettiamo nell’ipotesi di una platea non identificata? Ne residuerebbe solo l’ipotesi di risarcimento in favore dell’ente, che difficilmente potrebbe essere quantificato in misura diversa da quella strettamente legata al vulnus rispetto alla funzione di tutela dell’interesse generale perseguito. Nel caso di specie, il Giudice del merito sembra aver voluto tenere conto dei diversi fattori, inquadrando innanzi tutto il pregiudizio non patrimoniale quale “danno comunitario” il cui risarcimento dovesse essere determinato in conformità ai principi di adeguatezza, effettività, proporzionalità, dissuasività, quale “danno presunto e con valenza sanzionatoria”. Il destinatario della rifusione viene identificato giocoforza nell’Associazione ricorrente ed i canoni adottati rispecchiano effettivamente i più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità . Si sottolinea come nella quantificazione effettuata in via equitativa, per quanto il soggetto beneficiario della tutela risarcitoria sia l’ente esponenziale, il Giudicante abbia dichiaratamente tenuto conto “dell’ampia platea dei potenziali discriminati, del profilo professionale e del numero dei posti oggetto del bando”, con ciò valorizzando l’aspetto di lesione plurisoggettiva della condotta. Senza però potersi addentrare più a fondo nell’iter motivazionale, in assenza di ulteriori elementi su cui fondare una diversa determinazione delle conseguenze patrimoniali del vulnus. Nell’ambito del procedimento infatti non risulta fossero stati introdotti ed allegati elementi di fatto (ad esempio dati anche statistici sul presumibile numero dei soggetti che avrebbero avuto potenzialmente i requisiti per partecipare alla selezione concorsuale e non lo avevano fatto a cagione della clausola limitativa riconosciuta come discriminatoria, la perdita delle chances economiche legate al profilo professionale messo a bando e così via), dai quali desumere ulteriori criteri sui quali fondare una quantificazione del risarcimento in misura diversa da quella concretamente individuata .
4.Conclusioni.
La complessa vicenda processuale ci offre, in chiusura del presente contributo, l’occasione di alcune prime riflessioni. Innanzi tutto la insoddisfacente regolamentazione sul versante processuale della tutela antidiscriminatoria, che non appare ancora pienamente assolvere alla prescrizione minima di tutela imposta agli Stati membri dalla direttive UE sotto il profilo dell’effettività e della appropriatezza delle azioni. Inoltre la disarmonia e le aporie che caratterizzano la disciplina antidiscriminatoria, anche sostanziale, considerata nel suo insieme. E’ inevitabile che lo spazio attualmente riservato all’attività ermeneutica del giudice rischia di essere molto dilatato, a fronte di un apparato normativo antidiscriminatorio così complicato, lacunoso e disorganico. Con tutte le conseguenze negative che una amplificazione eccessiva dell’attività di supplenza da parte della magistratura comporta, rispetto alla perimetrazione delle norme, attività riservata al legislatore e non adeguatamente da questi esercitata in materia . E le incertezze interpretative in relazione alla ammissibilità delle azioni collettive avverso le discriminazioni per nazionalità costituisce solo uno dei casi nei quali l’interprete è chiamato rimediare alle carenze del legislatore. In effetti la stratificazione normativa in materia antidiscriminatoria verificatasi nel tempo nel nostro ordinamento appare una sorta di “fusione fredda” non del tutto riuscita fra le norme preesistenti ( il T.U. immigrazione ) ed i due decreti “gemelli” di (imperfetto) recepimento delle Direttive del 2000 ( D. Lgs 215 e 2016 del 2003). Tanto è vero che l’Italia ha subito in sede comunitaria un procedimento di infrazione, cui solo parzialmente si è posto rimedio . La riduzione dei riti effettuata mediante l’art. 28 del D. Lgs. 150/2011 ha sicuramente prodotto un effetto di semplificazione processuale, ma non ha risolto completamente le discrasie legate ai fattori già in precedenza introdotti dal Testo unico Immigrazione del 1998, conservando nell’insieme una certa disarmonicità. Una scelta evidentemente di politica legislativa, di non voler risolvere in maniera tranchant le ambiguità e lasciando all’interprete l’ingrato compito di uniformare il trattamento processuale della variegata casistica delle discriminazioni legate all’immigrazione ed al trattamento dello straniero appartenente a paesi terzi, a razza od origine etnica ( nella quale con grande frequenza si intrecciano fattori misti od incrociati, dando luogo a discriminazioni multiple). Il caso oggetto delle nostre riflessioni dimostra i limiti dell’intervento di semplificazione processuale effettuato nel 2011 con il D. Lgs. 150 , che ha convogliato le varie azioni antidiscriminatorie per fattori di rischio diversi dal genere verso il rito sommario di cognizione previsto dall’art. 702 bis e ss. c.p.c. Ciò ha determinato la mancata previsione per le azioni previste dai D. Lgs. 2015 e 2016 del 2003, del cd. “doppio binario”, ovvero la possibilità di avvalersi sia di un’azione ordinaria che di un’azione sommaria urgente, molto utile al contrasto tempestivo delle discriminazioni, opportunità che invece è sopravvissuta per le sole discriminazioni di genere in ambito lavorativo (artt. 37 e 38 D.Lgs. n. 198/2006). Tale scelta legislativa è stata ritenuta poco congruente con le finalità di efficacia ed efficienza perseguite in modo conclamato dallo stesso intervento, in quanto faceva sopravvivere, anche se in minore misura, riti speciali, stabilendo una sorta di graduatoria fra discriminazioni, e garantendo a quelle sessuali un canale di maggiore speditezza. E più in generale vi è a dire che l’assorbimento dei riti effettivamente connotati in passato da celerità nell’alveo della procedura sommaria “comune” di cui all’art. 702 bis c.p.c., pur apprezzandone il lodevole intento di semplificare, non garantisce tempi certi nel giudizio. Infatti, a differenza degli altri riti preesistenti (ad alle sopravvissute azioni individuale e collettiva sommaria e sommaria urgente per la repressione della discriminazione sessuale), le disposizioni codicistiche non pongono termini per le attività processuali, ad esempio per i termini di fissazione dell’udienza di comparizione. Anche se il procedimento sommario di cognizione è sicuramente concepito come un processo più spedito di quello ordinario, esso non può essere considerato un procedimento d’urgenza. Tale scelta legislativa rischia di tradursi in un vulnus alla tutela tempestiva dei diritti, in una materia nella quale è fondamentale un rapido intervento inibitorio, restitutorio e ripristinatorio, ancor più che risarcitorio. Infatti la rimozione di un comportamento antidiscriminatorio è tanto più efficace quanto è tempestiva, per garantire non solo effettiva tutela per le vittime ma altresì certezza del diritto per i convenuti. Tanto è vero che nella fattispecie oggetto del giudizio i ricorrenti, per ottenere una pronuncia in tempo utile al fine di sterilizzare gli effetti di un’esclusione dei soggetti discriminati dalla partecipazione al concorso, hanno dovuto intraprendere un’azione d’urgenza in corso di causa, la quale ha dato luogo ad una pronuncia cautelare ed al conseguente reclamo, con esiti peraltro contrastanti e con inevitabile appesantimento dell’iter processuale. L’andamento della vicenda in questione comprova pertanto il rischio che il procedimento sommario ordinario scelto dal legislatore come via processuale tipica per l’azione antidiscriminatoria in realtà finisca per non soddisfare le esigenze di celerità che la peculiare materia impone. A differenza del preesistente rito di cui all’art. 44 del D.lgs. n. 286/1998, che quantomeno consentiva di pervenire in termini ragionevolmente rapidi ad una condanna dell’agente alla cessazione del comportamento discriminatorio ed alla rimozione dei relativi effetti attraverso la prima fase sommaria con rito camerale ( cui seguiva una solo eventuale fase di merito a cognizione piena). Ed a differenza altresì dell’attuale rito sommario urgente previsto dall’art. 37 del D.Lgs. n. 198/06 per le discriminazioni fondate sul sesso. In definitiva, se la garanzia dell’effettività del diritto a non essere discriminati è rimessa essenzialmente all’attività interpretativa del giudice, la soluzione processuale è comunque strumentale alla situazione sostanziale e non può pretendere di riempirne sempre e comunque i vuoti normativi. A fronte di una sensibile crescita nell’utilizzo dei rimedi apprestati dall’ordinamento per le disparità di trattamento connesse ai fattori riconosciuti come a rischio discriminazione a livello comunitario, è giunto il momento di una soluzione normativa che rimuova le principali criticità evidenziatesi in fase applicativa e conduca a realizzare quell’obiettivo di effettività dei mezzi di protezione che le Direttive di ultima generazione invitano gli Stati Membri a perseguire.

 

 

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