TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Mi fa piacere prendere le mosse da Vincenzino Scalisi, un amico che ieri Carlo Pisani ha menzionato e che ci ha lasciato troppo presto. Scalisi in un recente convegno, organizzato dalla civilistica italiana all’Università di Roma Tre in onore di Savino Mazzamuto, ha svolto una relazione in cui effettivamente ha teorizzato la tecnica rimediale, fondata sui “valori”, quale moderna chiave dell’interpretazione della norma, quindi affidata al giudice. Però ha poi aggiunto e, direi, sottolineato: beninteso, occorre che il giudice non dimentichi mai che l’interpretazione deve tuttavia essere compatibile con la lettera della norma e deve essere inseribile nel sistema”.
Scalisi era un civilista provvisto di un metodo robusto. Questa è oggi sempre più la scriminante tra due emisferi, quello dei giuristi, ma anche dei giudici (chiamati eventualmente ad applicare in concreto la tecnica rimediale), i quali si fermano alla prima parte dei suggerimenti di Scalisi e l’emisfero, invece, di quanti ritengono che l’interprete, sebbene debba tener conto del ruolo dei valori, debba tuttavia restare fedele ai canoni della corretta ermeneutica. Ciò anche perché sono l’unica garanzia, nei limiti del possibile, della certezza del diritto, cioè della prevedibilità della sua applicazione, che è essa pure un valore fondante.
Al secondo emisfero, guardando alla dottrina, mi pare ascrivibile la relazione di Carlo Pisani, a prescindere dal merito di questa o quella specifica proposta ermeneutica.
Non volendo, né potendo qui, ovviamente, parlare di specifici orientamenti giurisprudenziali, mi limito ad osservare che la separazione in due emisferi risulta chiaramente quando i giudici accettano di esporre le proprie idee circa la funzione del magistrato del lavoro. Come è accaduto ad alcuni nel rispondere ad un “questionario” meritoriamente loro sottoposto da Pietro Martello per la sua rivista LDE; una rivista che, tra gli altri, ha il merito di essere “aperta” e di ospitare contributi di tutti gli operatori del diritto.
Dalle risposte risulta agevole constatare come su un versante si collochino coloro per i quali è predominante il perseguimento, tramite i valori, della giustizia sostanziale, cioè della giustizia “giusta”, quasi fosse oggettiva; sull’altro versante, coloro che considerano doverosa la fedeltà ai canoni fondamentali dell’ermeneutica giuridica anche a beneficio della certezza del diritto.
Ieri Antonello Zoppoli, nel contesto di una relazione ampia e ben informata, ha centrato l’attenzione sull’ermeneutica rimediale. Mi pare di poter dire che il cuore batte per essa ma che, al tempo stesso, la testa è preoccupata della sua deriva.
Zoppoli ha ravvisato il sintomo di tale deriva nella crisi della fattispecie; correttamente, perché nella fattispecie l’ordinamento positivo radica i presupposti per l’applicazione di una determinata disciplina. La crisi della fattispecie schiude quindi all’interprete l’orizzonte del diritto libero.
Nella recente giurisprudenza lavoristica sono due le tipologie di operazioni ermeneutiche che esprimono detta crisi. Una consiste nella soppressione stessa della fattispecie, cosicché l’autoproduzione degli effetti per il tramite dell’invenzione di una norma (c.d.) di mera disciplina consente all’interprete di delinearne liberamente l’ambito applicativo, con maggiore o minore fedeltà alla grammatica e alla logica. L’esempio paradigmatico è offerto, anche secondo il Relatore, dalle recenti operazioni intorno all’art. 2, comma 1, D.L.vo 15 giugno 2015 n. 81, a proposito dei riders.
L’altra tipologia è quella della creazione di una nuova fattispecie mediante manipolazione degli elementi di quella originaria, a dispetto del suo testo, della sua ratio e della sua collocazione sistematica. Così l’interprete può fare, formalmente, applicazione del metodo sussuntivo, quindi apparentemente alla stregua dei canoni della corretta ermeneutica, per conseguire il proprio predeterminato obiettivo. È noto come frequentemente all’uopo siano invocate la Carta costituzionale e/o le Fonti comunitarie.
Intendiamoci, su questo terreno la dottrina si è sbizzarrita. Per fare solo un esempio, si è arrivati, con riguardo al testo originario dell’art. 2, comma 1, a prospettare la sostituzione dell’avverbio (aggiuntivo) “anche” con la locuzione avverbiale (riduttiva) “quantomeno” al fine di dotare la norma “di contenuto minimo sufficiente” che ne consenta l’applicazione “senza necessità che si perfezioni la tradizionale riqualificazione del rapporto”.
Tornando alla giurisprudenza, l’esempio paradigmatico di questa tecnica ermeneutica è offerto dalle recenti sentenze della Suprema Corte riguardanti l’art. 18, comma 4, L. 20 maggio 1970 n. 300, laddove prevede la reintegra, oltre che nel caso di “insussistenza del fatto contestato”, se “il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
Si era formato un orientamento consolidato della Sezione lavoro della Corte di cassazione nel senso che la reintegra presupponesse la sussumibilità del fatto contestato in specifiche condotte cui le declaratorie contrattuali riconducessero mere sanzioni conservative. Tanto che ormai le cause incentrate sull’interpretazione di quel comma erano correntemente trattate nella Sezione VI civile.
Nell’ambito di una di tali cause la Corte ha emesso un’ordinanza (27 maggio 2021, n. 1477, Pres. Doronzo, rel. Ponterio) in cui, invocando la sentenza della Corte costituzionale 1° aprile 2021, n. 59 (Pres. Coraggio, Red. Sciarra), ha esposto gli argomenti a favore di un revirement dell’orientamento consolidato.
Trattandosi di un caso “paradigmatico”, quindi di rilievo nomofilattico, l’ordinanza ha ritenuto di dover rimettere la causa per la decisione alla Sezione Lavoro e non al Presidente per la rimessione alle Sezioni Unite, Organo primariamente deputato, nel nostro ordinamento processuale, ad esercitare la funzione nomofilattica. Tanto più in un caso come questo, di cui era riconosciuta la particolare delicatezza, essendo la sua soluzione suscettibile di condurre ad un sovvertimento degli equilibri tra tutela reale e tutela obbligatoria. Non può pertanto sorprendere che la sentenza emessa dalla Sezione IV ((11 aprile 2022 n. 11665, Pres. Raimondi, rel. Garri) abbia fatto propri i suggerimenti versati nell’ordinanza di rimessione.
Il nuovo orientamento si sostanzia nella elevazione delle clausole generiche o di chiusura, ricorrenti nelle declaratorie contrattuali, al rango di “clausole generali” dell’ordinamento giuridico, come tali idonee ad integrare, volta a volta, la fattispecie legale cui ricondurre, in formale applicazione dello schema sussuntivo, il fatto non rientrante in causali specificamente tipizzate. Ciò, sulla base della valutazione di contiguità o assimilabilità del fatto stesso, quanto al suo disvalore disciplinare, ad una od altra di quelle causali.
Così, all’evidenza, il giudice recupera piena discrezionalità nello stabilire se la condotta contestata sia o meno tanto grave da precludere la reintegrazione; il tutto, con conseguente incremento della imprevedibilità dell’esito del giudizio allorché il datore di lavoro decide se adottare o meno il licenziamento ed altresì allorché il lavoratore decide se impugnarlo o meno.
Va detto che ben a proposito la Suprema Corte si è collocata sotto l’ombrello autorevole della Corte costituzionale giacché è andata a completare, sul versante del licenziamento disciplinare, la restaurazione del vecchio art. 18 realizzata da quest’ultima sul versante del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Tornando alla prima delle due relazioni, dalla puntuale analisi di Pisani è emerso assai più del dubbio che la Corte delle leggi, in qualche sentenza relativa all’art. 18 L. n. 300/1970, abbia valicato il confine della non ingerenza nelle scelte legislative considerandole, non a ragione, collidenti con il principio generale di ragionevolezza.
Così, nella sentenza 16 luglio 2020 n. 150 (Pres. Cartabia, Red. Sciarra) appare non ragionevole la comparazione stessa del licenziamento affetto solo da vizi formali e del licenziamento ingiustificato. Infatti, a differenza del secondo caso, nel primo caso il licenziamento è in re ipsa provvisto di giusta causa o giustificato motivo in quanto lo ammette il lavoratore stesso, limitando l’impugnazione ai vizi formali, ovvero lo accerta il giudice, respingendo quella per vizi sostanziali, ove proposta. Nel primo caso, altresì, l’automaticità, nella prospettiva della certezza del diritto, della quantificazione della sanzione non si presta alle medesime censure, richiamate dalla Corte, da essa precedentemente svolte, con riguardo al secondo caso, come disciplinato dal Jobs Act, nella sentenza 8 novembre 2018, n.194 (Pres. Lattanzi, Red. Sciarra).
Dalla critica di non ragionevolezza non va esente neppure la sentenza 19 maggio 2022 n. 125 (Pres. Amato, Red. Sciarra). Se infatti poteva apparire irragionevole, nella sentenza n. 59/2021, la scelta legislativa di rimettere alla discrezionalità del giudice la scelta della tipologia di sanzione a fronte di un licenziamento manifestamente privo del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro, non così è per la scelta, in una prospettiva di residualità della reintegra, di limitarla al caso in cui tale motivo risulti prima facie insussistente. Non a caso la sentenza n. 125 è argomentata come proiezione consequenziale, quasi necessitata, della n. 59 quasi si trattasse, nei due casi, davvero di scelte omogenee del legislatore.
La Corte di cassazione del resto aveva ben colto, alla luce della ratio normativa, il senso della apposizione dell’aggettivo “manifesta” all’insussistenza del motivo addotto interpretandola quale evidente strumentalità dello stesso e fornendo, al riguardo, una puntuale e congrua motivazione. Mentre, secondo la Corte delle leggi, “la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto un’alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”.
In questa prospettazione è rinvenibile una eco di quella dottrina secondo cui il motivo addotto (al pari del fatto contestato) sussiste o non sussiste, con la conseguenza che l’aggettivo “manifesta” appare inidoneo (e per ciò stesso irragionevole) a segnare una diversità di trattamento nei riguardi di un motivo (o un fatto) appunto insussistente.
Ma l’insussistenza concerne il motivo (o il fatto) mentre l’aggettivo manifesta concerne la percezione che di esso ha chi lo osserva e può ben apprezzare se dell’insussistenza ha una percezione “palese, chiara, evidente, offerta apertamente all’intelletto” (secondo il vocabolario Treccani).
Del resto è facile replicare che, parimenti, una questione di costituzionalità è fondata o non lo è, ma il nostro ordinamento processuale impone al giudice ordinarlo di accertare, prima di sollevarla, che non sia manifestamente infondata e consente alla Corte, qualora sollevata, di respingerla in limine, con ordinanza, se la ritiene invece manifestamente infondata.
Resto quindi persuaso che la Corte costituzionale con la sentenza n. 125 abbia varcato il limite della “non ingerenza” a fronte di scelte ragionevoli, o comunque non irragionevoli, del Legislatore.
Nessuna sorpresa, tuttavia, se si considera che perfino il Legislatore comunitario sembra avviato a cedere alla tentazione di debordare dai propri poteri.
È ben noto che il Regolamento fondativo dell’Unione Europea preclude agli Organi comunitari di ingerirsi negli ordinamenti degli Stati membri quanto alla materia retributiva. Per questo la Direttiva sul salario minimo può essere solo ottativa e non precettiva.
La Proposta elaborata dalla Commissione Europea sul lavoro tramite piattaforme digitali (9 dicembre 2021 COD 0414) invece presenta un chiaro connotato precettivo quanto alla qualificazione di esso come lavoro subordinato. Impone infatti agli Stati membri di correlarla a criteri (sui quali qui non posso fermare l’attenzione) corredati di una presunzione formalmente iuris tantum ma sostanzialmente iuris et de iure. Né certo modificherebbe la sostanza invasiva dell’intervento la Proposta di Risoluzione legislativa della Commissione Impiego e Affari Sociali 3 maggio 2022 (Gualmini) che contempla la retrocessione dei criteri e della presunzione dal rango di norme vere e proprie ai Considerando che le precedono. È infatti ben noto che la CGUE e di riflesso i giudici nazionali fanno correntemente interagire le due parti delle Direttive.
Ma intervenire coattivamente sui procedimenti di qualificazione del lavoro subordinato significa inevitabilmente incidere sul trattamento retributivo ad esso ricondotto dal nostro ordinamento, anche tramite istituti legislativamente previsti quali il TFR e la 13ª mensilità per i lavoratori dell’industria in forza dell’accordo interconfederale recepito in decreto nel 1960.

 

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