testo integrale con note e bibliografia
1. Consentitemi anzitutto di rivolgere un ringraziamento non formale agli organizzatori di questo incontro di presentazione del volume in onore del Presidente De Matteis per l’invito che mi hanno rivolto, ma soprattutto per avermi dato l’occasione di confrontarmi con una opera che rappresenterà, ne sono sicuro, una pietra miliare nell’ambito degli studi sugli infortuni. Peraltro, consentitemi anche di esprimere un vero apprezzamento per gli ideatori di un opera che supera in modo inusuale il tradizionale modello degli scritti in onore, consistente in genere in una raccolta di saggi tra loro sostanzialmente autonomi, con un’opera collettiva che alla fine si presenta al lettore come un manuale in cui la riflessione e la ricostruzione teorica si affiancano ad una attenta considerazione della giurisprudenza, ma più ancora appaiono animate dalla sensibilità civile di chi non si rifugia nel mero dato formale ma il dato formale rilegge nella quotidianità, sofferta e sofferente, dell’esperienza.
2. A ben vedere, il volume messo oggi al centro della nostra discussione incarna veramente l’invito di Mengoni, e ancor prima di Hartmann, di mantenersi sistematicamente a contatto con i problemi, così suggerendosi che ogni soluzione del caso concreto non può che darsi all’interno di un sistema più ampio in grado di assicurare e garantire che la decisione assunta sia coerente con il sistema ordinamentale e non si presenti invece occasionale, estemporanea o sovraccaricata di personali valutazioni o precomprensioni dell’interprete (rischio sempre presente, quando il lavoro diventa mortale e la responsabilità si radica spesso in comportamenti ignobili che trovano origine soltanto nell’avidità di guadagno).
D’altronde, se è vero in generale che il carattere originario del diritto del lavoro è dato dalla sua formazione alluvionale e stratificata, secondo la fortunata sintesi di Gino Giugni, è del pari vero che qui, nella materia specifica che ci riguarda, vi è stato uno sviluppo pretorio della disciplina e che il ruolo della giurisprudenza è stato e continua ad essere essenziale per adeguare al dettato costituzionale previsioni legislative e prassi regolative che lentamente e con difficoltà si adeguano al mutare dei tempi.
Per questo abbiamo bisogno di giudici, come il Presidente De Matteis, che la passione civile sanno integrare con una pari sensibilità istituzionale e costituzionale, consapevoli che il diritto non è una scienza esatta ma, lo ricordava sempre Salvatore Pugliatti, un sapere e che l’interpretazione è un’arte, più che un algoritmo.
In questa prospettiva, proprio la questione degli infortuni rende evidente la necessità di un salto metodologico capace di assumere la dimensione ecosistemica come quella più idonea a rappresentare la complessità del mondo vitale di cui ci occupiamo. Non si tratta di rendere omaggio allo spirito del tempo che l’ambiente pone come valore cardine, ma piuttosto di comprendere le relazioni reciproche tra gli attori di un sistema in quanto capaci di definire la stessa identità degli elementi considerati nella loro singolarità. Nella prospettiva ecosistemica, infatti, è la relazione tra le parti l’oggetto privilegiato di studio, in guisa tale che non è sufficiente rifugiarsi nella formalità delle norme dimenticando l’ambiente in cui quelle norme sono chiamate realmente a vivere.
D’altronde, non è certo lezione recente, questa: basti pensare agli “organi respiratori” dell’ordinamento la cui importanza centrale era sottolineata, ormai un secolo fa, da Vittorio Polacco o anche alla prospettiva offerta da Otto Kahn-Freund che rivendicava di essersi arrampicato sul muro che divide il proprio campo da quello del vicino. Si tratta di indirizzi metodologici essenziali per comprendere e governare la complessità, considerando sempre che il contratto di lavoro opera, alla fine, come una sorta di termine medio tra prestazione individuale e organizzazione di impresa, in guisa tale cioè che non si può comprendere l’uno senza considerare l’altro.
3. Anche per questo motivo, ragionare oggi di lavoro e di infortuni sul lavoro significa ragionare sull’impresa e sul senso stesso dell’agire economico, troppo spesso confuso con lo scopo e, in definitiva, con l’incremento dei profitti nel breve termine. Proprio oggi, tuttavia, e proprio parlando di infortuni, occorre ricordare che la stessa scienza economica, prima ancora di essere formalizzata in una matematica a misura di un uomo economico autoreferenziale che non conosce altro che la massimizzazione del proprio guadagno, nasce come costola della filosofia morale, e qui destinata a studiare le condizioni necessarie per costruire una buona società. Ma la storia e le crisi, soprattutto le più recenti, stanno li a confermare che il senso di fare impresa non è da individuare nei decimali delle trimestrali di cassa ma nella capacità di creare ricchezza, di generare bellezza, di promuovere la qualità della vita e perciò stesso essere capace di durare nel tempo.
Qui si colloca, a me pare, il discrimine cruciale tra due modi diversi e antitetici di intendere l’agir imprenditoriale e, in esso, di riconoscere il valore del lavoro. Per esemplificarli, mi limito a rinviare alla ben nota contrapposizione tra shareholders e stakeholders.
La prima visione è ben rappresentata dal titolo del noto articolo di Friedman del 1970 secondo cui “The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits”, e non oltre di più. La seconda, invece, chiede di prendere positivamente in considerazione tutti i soggetti che operano e cooperano con l’impresa non più considerata come una monade sovrana ma, appunto, come elemento di un ecosistema. Un passo avanti, insomma, rispetto alla tradizionale impostazione dell’economia sociale di mercato di origine europea, che inizia a farsi strada anche in ambienti culturalmente diversi. Penso ad esempio alla dichiarazione della Business Roundtable americana del 2019, alla Direttiva comunitaria sulla due diligence che chiede di farsi carico dell’intera catena del valore come parte della compliance aziendale (e basta fare mente locale sul mondo delle imprese produttrici di beni di lusso per capirne l’importanza), o ancora alle regole sulla reportistica di sostenibilità integrata con indicazioni a carattere non finanziario.
Per non sottrarre tempo prezioso alla discussione, non intendo andare oltre con la descrizione dei documenti citati né affrontare la questione degli impatti ESG. Peraltro, si tratta di questioni ben note all’uditorio e che porterebbero molto lontano. Mi limito qui solo a richiamare l’attenzione sul fatto che se i primi stakeholder di una azienda sono proprio i lavoratori, allora non sembra più sufficiente continuare a considerare il contratto di lavoro come un contratto di mero scambio, dal momento che in esso si innerva una comune condizione di solidarietà e di responsabilità dalla quale né il datore né il lavoratore possono sottrarsi, impegnati entrambi a riscoprire una etica del lavoro costituzionalmente orientata: il lavoro è funzionale ad assicurare il progresso materiale e spirituale della società (art. 4) e l’impresa è chiamata a trasformare i vincoli negativi dell’art. 41 in caratteri positivi della propria azione. La conferma di ciò è data dalla attuale particolare attenzione dei finanziatori istituzionali alla valutazione degli impatti di sostenibilità economica, sociale e di governance al momento dell’erogazione dei flussi finanziari.
Insomma, imprese di qualità richiedono lavoro di qualità e rispetto della dignità di chi lavora. Per questo ogni incidente sul lavoro, ogni abbattimento dei livelli di sicurezza è una lesione non solo dell’interesse individuale o collettivo, ma semmai e proprio dell’interesse generale del paese.
4. Ripensare il senso dell’impresa e del lavoro nell’impresa è compito urgente anche in considerazione della transizione digitale in cui siamo immersi. Transizione, dico, non semplice innovazione tecnologica. Se fosse solo innovazione, non ci sarebbero poi tanti problemi; d’altronde, il diritto del lavoro convive da sempre con le innovazioni. Ma quella che stiamo vivendo è un cambiamento d’epoca che coinvolge la nostra stessa visione del mondo e in esso dell’umanità. Non sono tanto riders e food delivery i modelli paradigmatici della transizione, quanto piuttosto i sistemi di intelligenza artificiale, di deep learning, di LLM, di IoT, di co/bot o robot cooperativi. Insomma, il diritto del lavoro è nato per dividere la mano dalla pressa, ma oggi mano e pressa lavorano insieme; il modello non è più uomo verso macchina ma human plus machine. Ciò comporta, per quanto qui interessa, almeno due conseguenze: la necessità di cambiare il mind-set, per non correre il rischio di pensare di risolvere i problemi riportando l’ignoto digitale al noto materiale del secolo scorso; la necessità di disegnare nuove forme e tecniche di legiferazione o regolazione, perché i ritmi ed i tempi dei sistemi in atto sono incoerenti rispetto ai ritmi ed ai tempi dell’innovazione digitale.
Ed è proprio in relazione alla tutela della persona che lavora che il mutamento di paradigma imposto dalla transizione digitale manifesta gli effetti più significativi. Anche a tal proposito mi limiterò a brevissimi cenni, confidando nella benevolenza dell’uditorio. L’impatto della transizione digitale pone delle sfide ben note quali la tutela della privacy o i bias discriminatori degli algoritmi. Si tratta di questioni ben note. A mio avviso, tuttavia, ancora non adeguata attenzione è stata data alla modificazione delle condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavori ed alla enfatizzazione, negli ambienti ad alta innovazione digitale, dei rischi c.d. psicosociali. Penso, ad esempio, alla perdita di autonomia, al sovraccarico cognitivo, alla sorveglianza costante, alle situazioni di burnout, alle contraddizioni tra richieste elevate e risorse scarse. Forse è su questo versante che dovremmo rivolgere l’attenzione promuovendo un approfondimento inter- anzi transdisciplinare. Si tratta di rischi che dovranno essere affrontati by design e che impongono, a mio avviso, di focalizzare l’attenzione sull’organizzazione prima ancora che sul contratto, anche perché non avrà certo gioco facile chi vorrà dimostrare l’origine professionale di alcuni di questi rischi. Ma proprio la rilevanza dell’organizzazione impone di ripensare il valore dei protocolli condivisi sul benessere organizzativo, perché un’organizzazione malata crea essa stessa ulteriore malattia.
A ben vedere, e concludo, si tratta di prendere sul serio la centralità della persona umana nei nuovi contesti organizzativi e professionali, nella consapevolezza che vecchie strategie e strumenti consolidati potrebbero risultare non adeguati ai nuovi contesti. E qui si ripropone all’attenzione l’esperienza professionale di Aldo de Matteis, che ha insegnato a tutti noi che il benessere delle persone che lavorano è una risorsa per l’azienda, perché la sicurezza non è un costo ma un investimento per una impresa che intenda stare sul mercato e vincere la sfida competitiva puntando sulla qualità e non sulla riduzione dei costi.
Ma questa sfida non si gioca solo tra imprese e lavoratoti, ma semmai tra imprese, tra le imprese che guardano al passato e le imprese che guardano al futuro. Nell’interesse generale del sistema Paese, è compito dei policy makers sostenere queste e contrastare quelle.