testo integrale con note e bibliografia
Nella newsletter n. 47 di LDE è stata pubblicata la proposta di riforma del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi elaborata dal Gruppo Freccia Rossa.
I numerosi interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione ci hanno consegnato un’architettura del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi che non è più quella disegnata dalle riforme del 2012 e soprattutto del 2015. Ne è disceso un sistema che – già complesso ab origine non foss’altro che per la pluralità di rimedi e per la diversa operatività degli stessi in ragione della data di assunzione dei lavoratori, anteriore o successiva al 7 marzo 2015, e dei requisiti dimensionali del datore di lavoro – è risultato sempre più caratterizzato da incertezze. È dunque particolarmente pregevole un’iniziativa di riforma dei regimi sanzionatori dei licenziamenti illegittimi nell’impiego privato (e si condivide la scelta di mantenere differenziato il pubblico impiego: art. 1, c. 2), quale quella che proviene dal Gruppo Freccia Rossa, che dà rilievo “(al)la certezza (per quanto possibile) del regime sanzionatorio applicabile” e al “superamento della discutibile differenza di discipline oggi applicabili in relazione al mero dato temporale del momento di costituzione del rapporto di lavoro”. Il tutto nell’ottica di razionalizzazione, di bilanciamento degli interessi in gioco, di rispetto dei principi della giurisprudenza costituzionale e di commisurazione del rimedio alla gravità del vizio che affligge l’atto di recesso.
Quest’ultimo aspetto – quello della modularità - risulta di grande importanza, perché consacra il principio secondo cui, a fronte del medesimo evento (l’essere cioè destinatario di un licenziamento illegittimo) e patendo i medesimi danni (la perdita del posto di lavoro e delle retribuzioni), il lavoratore possa godere di tutele più ridotte o più ampie in relazione alle “ragioni” di illegittimità del licenziamento, dandosi così risalto alla maggiore gravità della sanzione in connessione al tipo di illecito.
Nel testo che precede e segue gli articoli della proposta si fa più volte riferimento alla prevedibilità e alla certezza, profili fondamentali, che il legislatore dovrebbe tenere sempre in adeguata considerazione. Fondamentali per il lavoratore perché potrà conoscere in anticipo le possibili tutele, anche – ma non solo - in relazione all’eventuale scelta consapevole di addivenire a una soluzione conciliativa, nelle forme contemplate dall’art. 10 (Tentativo obbligatorio di conciliazione), dall’art. 9 (Offerta di conciliazione) e dalle altre norme previste dall’ordinamento. Fondamentali per il datore di lavoro, e per l’affidabilità in generale del “sistema economico”, consentendo una più chiara valutazione preliminare delle conseguenze di un recesso illegittimo se del caso per scongiurarlo a monte (tema che tuttavia non va confuso con la convenienza dell’illecito, che va evitata con sanzioni adeguate, effettive e dissuasive, ma non certo con sanzioni “imprevedibili”).
Usando quale filo conduttore quello della prevedibilità e della certezza, pare opportuna qualche notazione sparsa su alcuni soltanto - anche per ragioni di spazio - dei punti della proposta di riforma.
Nella proposta di riforma, il tetto massimo di 12 mensilità dell’indennità prevista in caso di reintegrazione attenuata può essere aumentato dal Giudice, in ragione della considerevole durata del processo, fino al limite massimo di 24 mensilità, tenendo conto del comportamento processuale delle parti, dell’impegno del lavoratore nella ricerca di una nuova occupazione, della misura del trattamento di disoccupazione percepito (art. 3, c. 4).
La previsione appare invero indebolire l’esigenza di prevedibilità/certezza per ragioni che nulla hanno a che vedere con la condotta più o meno grave dell’autore dell’illecito, finendo per far ricadere sul datore di lavoro il rischio della lunga durata del processo. In altre parole, una maggiore sanzione non corrisponderebbe alla necessità, in chiave dissuasiva, di punire più severamente un certo tipo di illecito, ma scatterebbe al verificarsi di una condizione – la durata del processo - esterna alle parti (magari dettata da esigenze dell’ufficio, da periodi di congelamento del ruolo, dall’elevato numero di contenziosi in capo al Giudice, dalla mancata presentazione di un testimone con necessità di rinviare l’udienza, etc…) o che addirittura potrebbe essere determinata, sia pure del tutto legittimamente, dal lavoratore stesso (ad esempio, per richieste di rinvio di un’udienza per motivi di salute del lavoratore o del difensore). E se è vero che, ai fini del quantum, il Giudice dovrebbe tenere conto di elementi che riguardano proprio le parti, è pure vero che sarebbe la considerevole durata del processo (oltretutto non ancorata ad alcun parametro temporale) a far scattare nell’an, sia pure non automaticamente, il diritto all’indennità maggiorata. Peraltro il non automatismo anche in presenza di una durata considerevole potrebbe ingenerare una situazione analoga a quella che vi era nel c. 7 dell’art. 18 st. lav. prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 59/2021. Il Giudice “potrebbe” non applicare l’indennità maggiorata anche ricorrendo la lunghezza considerevole del processo e, volendola applicare, finirebbe per utilizzare variabili discrezionali che potrebbero dipendere dall’area geografica o da particolari condizioni di un ufficio giudiziario. In alcuni tribunali una durata potrebbe essere ritenuta considerevole, in altri del tutto normale. Il tutto con il rischio di introdurre un potere difficilmente contestabile e verificabile vuoi dal lavoratore, vuoi dal datore di lavoro, in sede di impugnazione; a tacere delle possibili disparità di trattamento che potrebbero verificarsi.
Sempre muovendosi sui binari della prevedibilità/certezza, molto apprezzabile è l’introduzione di un’espressa disciplina sanzionatoria per il licenziamento intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, c. 2, l. n. 604/1966 (art. 5, c. 1 e art. 3, c. 1, lett. e), benché, nella pratica, sarebbe sempre difficile distinguere la motivazione del tutto omessa dalla motivazione solo formalmente presente, con possibilità in ogni caso di trasmodare nell’insussistenza del fatto.
Sarebbe stata auspicabile una notazione a sé stante sulle conseguenze di un licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova a fronte di patto di prova nullo. La Corte di Cassazione aveva chiarito, ma prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 128/2024, che, nel regime del d.lgs. n. 23/2015, il recesso intimato in assenza di valido patto di prova equivale a un ordinario licenziamento, assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria (Cass., sez. lav., n. 20239/2023). Se il rapporto tutela indennitaria/ripristinatoria non si pone più come regola/eccezione, la fattispecie potrebbe comunque creare ancora incertezze applicative.
Condivisibile risulta infine l’esclusione di un’apposita disciplina per il licenziamento pretestuoso, stante la non autonomia di una fattispecie di “licenziamento pretestuoso”, così come appare corretta la scelta di riordinare le ipotesi di licenziamento nullo (art. 2), pur con la formulazione “aperta” contenuta nell’art. 2, lett. e).
Quanto sopra è solo uno spunto, tra i tanti possibili, per dare un breve contributo al dibattito, evidenziando da ora che una proposta di riforma appare opportuna e persino essenziale.
