testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione
Le recenti riforme sui diritti delle persone con disabilità introdotte dalla legge delega 22 dicembre 2021 n. 227 e dai decreti legislativi attuativi hanno modificato alcuni aspetti chiave della normativa in tema di disabilità.
La riforma recepisce concetti ed istituti (la nozione biopsicosociale di disabilità; l’obbligo di accomodamenti ragionevoli; la tutela del caregiver), con cui gli interpreti si sono già misurati nell’ambito del diritto del lavoro, in ragione di specifiche previsioni della disciplina di settore e, soprattutto, per effetto del recepimento della normativa antidiscriminatoria di matrice sovranazionale ed eurounitaria .
Gli approdi della giurisprudenza in argomento possono, dunque, offrire alcune coordinate per accostarsi all’interpretazione delle nuove norme.
Queste ultime, a loro volta, forniscono una chiave di lettura dei percorsi tracciati dalla giurisprudenza, così da coglierne consonanze e dissonanze rispetto all’obiettivo – sotteso alla riforma - di garantire alla persona con disabilità “il pieno esercizio dei suoi diritti civili e sociali, compresi il diritto alla vita indipendente e alla piena inclusione sociale e lavorativa […] e di promuovere l'autonomia della persona con disabilità e il suo vivere su base di pari opportunità con gli altri, nel rispetto dei principi di autodeterminazione e di non discriminazione” .
In questa prospettiva il presente contributo si propone di offrire (senza pretesa di esaustività) un sintetico quadro degli approdi giurisprudenziali e delle questioni in discussione che appaiono di maggior interesse alla luce delle novità introdotte dalla riforma.
L’esposizione seguirà la successione delle fasi fondamentali in cui si articola il rapporto di lavoro: costituzione, esecuzione ed estinzione.
2. Costituzione del rapporto di lavoro e collocamento mirato
La disciplina dell’accesso al lavoro delle persone con disabilità trova il suo fulcro nella legge n. 68/1999, che ha segnato il superamento dell’impostazione burocratico-assistenziale della legge n. 482/1968, introducendo un sistema fondato su politiche attive di inserimento e sul principio del collocamento mirato.
Tale sistema è stato rafforzato dal d.lgs. n. 151/2015 che, nel modificare la legge originaria, ha ridefinito l’apparato degli incentivi e le relative modalità di finanziamento e ha generalizzato la chiamata nominativa, rendendola modalità ordinaria di adempimento dell’obbligo di assunzione .
Con il d.lgs. n. 151/2015 hanno fatto capolino, nella disciplina delle assunzioni obbligatorie, nozioni quali la valutazione biopsicosociale di disabilità e gli accomodamenti ragionevoli, richiamate nell’ambito dei principi dettati per la definizione delle linee guida in materia di collocamento mirato .
Nonostante tali linee evolutive, l’impianto della legge n. 68/1999 continua a fondarsi su un sistema rigido di classificazione dei soggetti con disabilità beneficiari delle misure di promozione e sostegno in essa previste.
L’art. 1, infatti, delinea il perimetro di applicazione della legge in relazione a categorie di soggetti in possesso di requisiti correlati a predefiniti gradi di invalidità lavorativa, accertati da specifici organismi pubblici.
Ne discende un sistema chiuso di tutele, condizionate dalla presenza di livelli minimi di invalidità, da accertarsi essenzialmente in base a valutazioni di carattere biomedico .
Il d.lgs. n. 62/2024, adottato sulla base della legge delega 22 dicembre 2021 n. 227, ha accolto, invece, una nozione ampia di disabilità, mutuata quasi integralmente da quella espressa dalla Convenzione ONU del 2006 , che tratteggia la disabilità come un concetto in evoluzione, quale risultato dell'interazione tra persone con menomazioni durature e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri .
Tale nozione biopsicosociale di disabilità è riferita non esclusivamente alla capacità lavorativa; non prevede soglie minime di rilevanza delle menomazioni e dipende non da queste ultime isolatamente considerate, ma dalla loro interazione con l’ambiente sociale circostante, ossia dalle modalità con cui la società organizza l’accesso a diritti, beni e servizi.
Il disallineamento tra detta nozione di disabilità e il più circoscritto perimetro applicativo della legge n. 68/1999 rappresenta una criticità che si manifesta con maggior evidenza sul terreno dell’inserimento lavorativo, ma che ha riflessi anche su altri profili del rapporto .
L’introduzione, ad opera delle recenti riforme, della valutazione di base unitaria anche ai fini dell’inserimento lavorativo potrebbe, almeno indirettamente, agevolare il riallineamento dei due piani.
Ulteriore profilo critico della disciplina del collocamento obbligatorio è quello della sua effettività.
Al riguardo la giurisprudenza di legittimità sottolinea la necessità di collaborazione da parte del lavoratore per giungere alla stipulazione del contratto di lavoro , mentre non sembra esprimere una posizione unitaria circa l’obbligo datoriale di procedere ad adattamenti dell’organizzazione aziendale, riconducibili al novero degli accomodamenti ragionevoli, al fine di dar corso all’assunzione del personale avviato obbligatoriamente .
2. Esecuzione del rapporto di lavoro: accomodamenti ragionevoli e tutela del c.d. caregiver
L’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, cui si è fatto cenno da ultimo, rappresenta un punto cruciale della disciplina a tutela delle persone con disabilità.
La nozione di accomodamento ragionevole, già presente nell’ordinamento europeo ed internazionale e recepita nell’ordinamento italiano nel settore del lavoro , è ora declinata dall’art. 17 d.lgs. n. 62/2024 che, al dichiarato fine di “riconoscere l'accomodamento ragionevole e predisporre misure idonee per il suo effettivo esercizio”, ha integrato la legge n. 104/1992 con l’inserimento di una specifica norma (art. 5 bis ) che ne estende l’applicazione ad ambiti di vita diversi dal lavoro.
La nuova norma procedimentalizza la facoltà della persona con disabilità di richiedere l'adozione di un accomodamento ragionevole ed il diritto di partecipare alla sua individuazione, valorizzando l’interlocuzione ed il confronto tra le parti quali presupposti per attivare tali misure.
Come chiarito dalla Corte di Cassazione, pronunciatasi nella materia del lavoro, quella di ragionevoli accomodamenti è “una nozione a contenuto variabile [...] che ha come caratteristica strutturale proprio l'indeterminatezza: consapevole dell'impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, il legislatore ha conferito all'interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell'obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto” .
Si tratta, in estrema sintesi, di adeguamenti lato sensu organizzativi, che il datore di lavoro deve adottare al fine di garantire il principio della parità di trattamento delle persone con disabilità e che si caratterizzano per la loro appropriatezza, ossia per l’idoneità a consentire al lavoratore con disabilità di svolgere l'attività lavorativa su base di uguaglianza con gli altri lavoratori .
L’obbligo di accomodamenti ragionevoli (che opera in ogni fase del rapporto di lavoro, da quella genetica a quella della sua risoluzione) si declina, soprattutto nel momento esecutivo, in una pluralità di misure diversificate in funzione delle peculiarità dei casi concreti.
La casistica in materia è amplissima e spazia dall’adattamento degli arredi e delle attrezzature di lavoro all’adozione di misure organizzative quali modifiche dei turni e degli orari di lavoro, diversa ripartizione dei compiti tra il personale, adozione di tecnologie che riducano la gravosità di compiti manuali.
Una misura organizzativa che di recente la giurisprudenza si è trovata ad esaminare è quella del ricorso al lavoro agile, che può rivelarsi strumento prezioso ai fini della conciliazione delle esigenze di vita e di lavoro della persona con disabilità, purché si evitino i rischi di emarginazione ed isolamento.
E’ stato così ravvisato un inadempimento all’obbligo di accomodamenti ragionevoli in un caso in cui il datore di lavoro aveva respinto la richiesta di prestare attività lavorativa in modalità di lavoro agile, avanzata da una dipendente le cui condizioni di salute rendevano molto difficoltoso l’accesso alla sede di lavoro. I giudici hanno verificato l’effettiva praticabilità della prestazione di attività lavorativa con modalità di lavoro agile, con oneri finanziari per il datore di lavoro (quali la fornitura di idonea strumentazione) ritenuti non eccessivi e dunque non irragionevoli, così da contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse della lavoratrice al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore di lavoro a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa .
L’inadempimento dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli configura una discriminazione per ragioni di disabilità .
La discriminazione può configurarsi anche quando il soggetto che subisce la disparità di trattamento non è portatore in prima persona del fattore sensibile, ma questo è posseduto da qualcuno che è in stretto rapporto con la vittima della discriminazione (discriminazione per associazione).
Nel caso della disabilità, la discriminazione per associazione in corso di rapporto riguarda sovente il c.d. caregiver familiare, ossia il soggetto (lavoratore) che si prende cura e assiste stabilmente il coniuge o un famigliare con disabilità .
Nonostante la centralità di tale figura al fine di garantire l’effettività dei diritti della persona con disabilità e promuoverne l’inclusione sociale, nel nostro ordinamento il caregiver familiare beneficia di specifici istituti ed agevolazioni , ma non gode di un regime generale di tutela contro le discriminazioni in ambito lavorativo.
Negli ultimi anni, peraltro, alcuni interventi normativi hanno valorizzato, quale fattore protetto, le “esigenze di cura personale e familiare” e tenuto in specifica considerazione il rischio di discriminazione cui sono esposti i lavoratori che usufruiscono di benefici connessi alla condizione di disabilità della persona a cui prestano assistenza .
Le recenti riforme, per contro, non hanno introdotto novità di rilievo in questo ambito, né hanno incrementato lo statuto protettivo del caregiver familiare: il d.lgs. n. 62/2024 menziona il caregiver solo quale soggetto che può partecipare all’Unità di valutazione multidimensionale (art. 24) e che dev’essere coinvolto dal referente per l'attuazione del progetto di vita della persona con disabilità nel monitoraggio e nelle successive verifiche (art. 29).
La giurisprudenza di legittimità, recependo gli arresti della CGUE , ha statuito che integra una discriminazione diretta il comportamento del datore di lavoro che tratti un lavoratore in modo sfavorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del famigliare al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest'ultimo ha bisogno .
Il caso su cui si è pronunciata la Corte di Cassazione era quello di una lavoratrice, caregiver del coniuge e titolare dei benefici della legge n. 104/1992, alla quale, nell’ambito di un processo di riorganizzazione aziendale che aveva determinato la chiusura della sede di assegnazione, era stata chiesta la disponibilità al trasferimento ad una sede distante dalla residenza propria e del coniuge; la lavoratrice non aveva accettato il trasferimento - evidenziando che vi erano posti disponibili in sedi più vicine e che altri lavoratori erano stati trasferiti in sedi di loro gradimento – e, a fronte del rifiuto di trasferirsi nella sede offerta, era stata licenziata.
La pronuncia, recependo la prospettazione della lavoratrice, ha evidenziato che quest’ultima aveva assolto l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio (condizione di caregiver), come pure la presenza di sedi più vicine alla residenza rispetto a quella offerta dalla società con la proposta di trasferimento e, con ciò, il trattamento meno favorevole ricevuto rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe.
In tema di discriminazione associata nei confronti del caregiver la Corte di Cassazione ha di recente interpellato la Corte di Giustizia, con ordinanza di rinvio pregiudiziale, chiedendo di pronunciarsi su una serie di questioni tra cui la questione se il caregiver possa azionare la tutela antidiscriminatoria anche in ipotesi di discriminazione indiretta e se abbia diritto anche in tale ipotesi, al pari della persona direttamente portatrice del fattore della disabilità, ad accomodamenti ragionevoli .
Nell’attesa del pronunciamento della Corte di Giustizia, l’Avvocato Generale, nelle conclusioni presentate il 13 marzo 2025, si è espresso nel senso che gli artt. 1, 2 e 5 della Direttiva 2000/78/CE devono essere interpretati come volti a tutelare il caregiver anche contro le discriminazioni indirette e che “il datore di lavoro di tale «caregiver» è tenuto ad adottare, a titolo delle «soluzioni ragionevoli» […] provvedimenti appropriati, in particolare per quanto riguarda l’adattamento dei ritmi di lavoro e la modifica delle mansioni da svolgere, al fine di consentirgli, in funzione delle esigenze della situazione concreta, di prestare l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui il figlio ha bisogno, purché tali provvedimenti non richiedano a tale datore di lavoro un onere sproporzionato”.
3. Estinzione del rapporto di lavoro: sopravvenuta inidoneità fisica e disabilità
La particolare tutela accordata dall’ordinamento al lavoratore con disabilità si esplica anche nella fase estintiva del rapporto.
Soffermandoci in questa sede esclusivamente sul licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica, è opportuno brevemente premettere che, nell’ambito della disciplina generale dei licenziamenti, la prevalente giurisprudenza di legittimità ravvisa nell'impossibilità sopravvenuta della prestazione per inidoneità fisica del lavoratore un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ex art. 3 legge n. 604/1966 .
Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento non può, peraltro, ravvisarsi nella mera ineseguibilità dell’attività assegnata, dovendo il datore di lavoro verificare se il prestatore di lavoro possa essere adibito – compatibilmente con le residue capacità lavorative – ad una differente attività: il tema della ricollocazione del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione rientra, infatti, nel c.d. obbligo di repêchage.
In caso di impossibilità di adibire il lavoratore divenuto fisicamente inidoneo ad altre mansioni equivalenti, il datore di lavoro – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede - ha l’onere di vagliare anche la possibilità di adibirlo a mansioni inferiori, a condizione che vi sia il consenso dell’interessato e sempre che ciò possa avvenire senza alterazione dell’assetto organizzativo e senza pregiudizio per gli altri lavoratori .
I richiamati principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sono stati codificati dall’art. 42 d.lgs. n. 81/2008 secondo cui, in caso di inidoneità alla mansione specifica, il datore di lavoro, “ove possibile”, adibisce il lavoratore “a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
La Corte di Cassazione ha chiarito che detta norma “nell'inciso «ove possibile» […] contempera il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro, da una parte e, dall'altra, al libero esercizio dell'impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l'obbligo di ricercare - anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto - le soluzioni che, nell'ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti e idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore” .
Così brevemente tratteggiate le coordinate della disciplina generale in materia di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica, si osserva che la legge n. 68/1999 detta in tale materia alcune disposizioni speciali per i lavoratori con disabilità compresi nell’ambito applicativo della legge.
L’art. 1, comma 7, pone una norma di principio (che rinviene la propria regola applicativa nell’art. 4, comma 4) a tutela della conservazione del posto di lavoro dei soggetti che non presentino disabilità al momento dell’assunzione (e dunque non assunti nella quota di riserva), ma che la acquisiscano in seguito per infortunio o malattia professionale.
L’art. 4, comma 4, a sua volta dispone che i lavoratori divenuti inabili in conseguenza di infortunio o malattia (anche di natura extraprofessionale) hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro nel caso in cui possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori (con mantenimento del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza); qualora ciò non sia possibile i lavoratori vengono avviati dagli uffici competenti presso altra azienda, in attività compatibili con le residue capacità lavorative.
Infine l’art. 10, comma 3, riferito ai lavoratori assunti nella quota d’obbligo, appronta, per il caso di “aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell'organizzazione del lavoro”, una tutela di carattere procedurale (con effetti anche di carattere sostanziale), consistente nella previsione della possibilità di una sospensione del rapporto, senza retribuzione, con successiva facoltà di licenziamento nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, la Commissione medica integrata accerti la definitiva impossibilità di reintegrare il lavoratore all'interno dell'azienda.
La giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato il carattere di specialità della disciplina dettata dall’art. 10, comma 3, legge n. 68/1999 rispetto alla normativa generale prevista dall’art. 42 d.lgs. n. 81/2008, evidenziando altresì che il percorso vincolato dettato dalla norma speciale – che affida la valutazione sull’impossibilità definitiva di reinserire il lavoratore all’interno dell’azienda al peculiare giudizio tecnico di un soggetto qualificato con carattere di terzietà - non può essere surrogato neanche dal giudizio di inidoneità alla mansione espresso dal medico competente nell'ambito della sorveglianza sanitaria esercitata a mente del d.lgs. n. 81/2008 .
Le esaminate disposizioni della legge n. 68/1999 non esauriscono i tratti di specialità della disciplina del licenziamento per sopravvenuta inidoneità del lavoratore con disabilità.
Anche in tale ambito, infatti, un ruolo di primo piano è svolto dalla normativa antidiscriminatoria di matrice eurounitaria, con le regole, gli istituti ed i rimedi suoi propri, tra cui l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli.
La normativa in parola, come già accennato, si fonda sulla nozione di disabilità formulata dalla Convenzione ONU 2006, alla luce della quale vanno interpretate anche le direttive europee in materia di discriminazione per ragione di disabilità .
Tale nozione di disabilità non coincide con quella di inidoneità fisica alla mansione: quest’ultima si configura laddove vengano meno, in via definitiva e permanente, i requisiti per l’espletamento delle mansioni assegnate, mentre la disabilità comprende anche condizioni di invalidità temporanea (purché durature), come pure menomazioni che non determinano l’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma ne ostacolano soltanto l’esercizio.
Se, dunque, il concetto di disabilità è per un verso più ampio di quello di inidoneità fisica, dall’altro ne restano escluse le ipotesi (invero piuttosto marginali) in cui un certo requisito fisico risponda a mere finalità di efficienza nello svolgimento della prestazione o sia richiesto per lo svolgimento di prestazioni lavorative peculiari, senza che la sua carenza si ricolleghi alla sussistenza di una menomazione che, in interazione con barriere di altra natura, ostacoli la partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza .
Fatta questa precisazione, nella pratica accade sovente che menomazioni che cagionano inidoneità permanente alla mansione determinino anche una condizione patologica duratura tale da ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e ricadano, dunque, nella nozione di disabilità rilevante per l'applicazione della normativa antidiscriminatoria.
In tal caso il datore di lavoro è tenuto non solo ad adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori “ove possibile” ai sensi dell’art. 42 d.lgs. n. 81/2008 (ossia senza alterazione dell’assetto organizzativo prescelto), ma anche ad adottare gli accomodamenti ragionevoli a mente dell’art. 5 Direttiva 2000/78/CE e dell’art. 3, comma 3 bis, d.lgs. 9 luglio 2003 n. 216, ossia a modificare, se necessario, l’organizzazione aziendale per renderla compatibile con le mutate condizioni fisiche del prestatore di lavoro, con l’unico limite che tali modifiche non impongano un onere finanziario eccessivo e sproporzionato.
Ove ricorra una condizione di disabilità del lavoratore, la prova di aver adempiuto l’obbligo di accomodamenti ragionevoli è condizione di legittimità del licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica ed il relativo onere probatorio – come rimarcato dalla Corte di Cassazione - grava sul datore di lavoro, “né spetta al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro” .
L’inadempimento dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli determina tanto il difetto di giustificazione del recesso, quanto la natura discriminatoria del medesimo: da qui alcune criticità di sistema in ordine al regime di tutela applicabile.
In caso di licenziamento discriminatorio, infatti, tanto l’art. 18, commi 1 e 2, Statuto lav., quanto l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 dispongono l’applicazione della tutela reintegratoria c.d. “piena”, indipendentemente dalle dimensioni del datore di lavoro.
In caso di difetto di giustificazione del licenziamento “intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore”, invece, l’art. 18, comma 7, Statuto lav. prevede che trovi applicazione la tutela reintegratoria c.d. “attenuata”, a condizione che il datore di lavoro presenti i requisiti dimensionali previsti dai commi 8 e 9 .
A fronte di tale tutela differenziata la Cassazione ha chiarito che, ove ricorra violazione dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli, il licenziamento va qualificato come discriminatorio e ciò “impone di applicare la tutela di cui ai primi due commi dell'art. 18 S.d.L.”, mentre la tutela stabilita dal combinato disposto dei commi 4 e 7 dell'art. 18 Statuto lav. va confinata alle ipotesi residuali, cui si è fatto cenno in precedenza, “di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, in presenza di una inidoneità non riconducibile ad una condizione di disabilità, perché, ad esempio, avente natura temporanea (e quindi non "duratura" secondo il diritto dell'Unione), o perché non qualificabile come menomazione, per il venir meno di qualità rispondenti a finalità di efficienza o utilità di prestazioni lavorative peculiari” .
L’opzione ermeneutica accolta dalla Suprema Corte, nell’accordare al lavoratore la più ampia tutela in caso di discriminazione per disabilità, risponde a criteri esegetici di coerenza sistematica e di ragionevolezza ed appare conforme ai principi di inclusione sociale e lavorativa delle persone con disabilità, che ispirano anche le recenti riforme.
4. Conclusioni
Questa breve analisi della giurisprudenza in materia di disabilità nel rapporto di lavoro evidenzia un’evoluzione significativa del sistema di tutele, sempre più orientato verso un modello inclusivo e partecipativo, che ha trovato nella normativa antidiscriminatoria lo strumento essenziale per declinare la tutela della persona con disabilità in chiave di affermazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Permangono, nondimeno, non poche criticità di sistema (tra queste la coesistenza di tutele differenziate; la rigidità dei criteri di accesso alle misure di sostegno all’inserimento lavorativo; la frammentazione delle tutele per i caregiver) a cui le recenti riforme non sembrano fornire esauriente risposta e con cui gli interpreti saranno plausibilmente chiamati a misurarsi anche in futuro.