testo integrale con note e bibliografia
Il progetto mi sembra complessivamente equilibrato e ben strutturato: esso riprende sostanzialmente le indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale e intervenute negli ultimi 7 anni, oltre agli orientamenti di legittimità registrati sulle riforme 2012-2015, rappresentando una codificazione del diritto giurisprudenziale attuale sulle riforme parzialmente fallite degli ultimi anni, con superamento del dualismo temporale tra Statuto e Jobs.
Apprezzabile l’idea di normare la sorte del trattamento rimediale spettante per vizi “a cavallo” tra il formale e il sostanziale, che in passato hanno avuto anche notevoli vicissitudini interpretative ed in particolare la mancanza di motivazione (Cass. n. 9544/2025) e l’omissione della procedura disciplinare; è tuttavia rimasta fuori dal rimedio reintegratorio la fattispecie della contestazione sostanzialmente tardiva, rispetto alla quale chi scrive aveva evocato la figura dell’insussistenza giuridica sopravvenuta del fatto perdonato (Trib. Ravenna n. 115/2022), che pare vieppiù preferibile rispetto alla sola sanzione indennitaria, soluzione quest’ultima frutto di un approccio ormai privo di quella fragilissima base interpretativa rappresentata dall’ “indennizzo è la regola e la reintegra è l’eccezione” quale unico criterio di risoluzione di casi controversi.
Circa le ipotesi di nullità, la formula di chiusura adottata “licenziamento nullo nei casi diversi da quelli espressamente disciplinati dalla presente legge” (se quello che si voleva era l’applicazione del regime della nullità virtuali) appare migliorabile con la dicitura contenuta nel 1° comma dell’art. 18, ossia negli “altri casi di nullità previsti dalla legge”, al fine di non tornare alla querelle già vissuta per il jobs.
Nel caso dei piccoli datori l’articolato ha in qualche modo anticipato la sentenza costituzionale n. 118/2025, aumentando l’importo risarcitorio, ma l’estensione tra 14 e 18 mensilità è possibile solo per motivi di anzianità (rilevante), ciò che può limitare la responsabilità proprio di quei soggetti con dimensione organizzativa-occupazionale sotto-soglia ma con dimensioni economiche-finanziarie “sopra-soglia” (anche se tale soglia ancora non esiste). Pertanto, mi convince di più la forbice attuale dell’art. 9 del jobs act, tra 3 (eventualmente 4 come indica il progetto) e 18 con ampia possibilità di valutazione giudiziale all’interno della stessa ma senza elementi predefiniti come decisivi (al contrario l’innalzamento tra 14 e 18 per la sola anzianità può esasperare il vulnus residuo, bene evidenziato dalla sentenza n. 118/2025). 
Per gli stessi motivi apprezzo il 2° comma dell’art. 4 che riprende la formulazione dell’art. 8, L. 604/1966.
Molto apprezzabile, evitando un probabile incidente di costituzionalità, anche l’idea di elevare (significativamente) il risarcimento abbinato alla reintegra attenuata in caso di lungaggini processuali, non potendo evidentemente queste ultime danneggiare esclusivamente il lavoratore.
Qui il discorso dovrebbe tornare all’abrogazione di un rito, quello c.d. Fornero, che aveva dato ottima prova di sé a livello di tempi decisionali, soprattutto beneficiando di un meccanismo – che avrebbe potuto essere conservato – che sgravava quei processi dalle enormi lungaggini istruttorie di cause di tipo meramente economico quali le differenze retributive, ora proponibili unitamente alle cause di licenziamento ma separabili successivamente per decisione giudiziale ex art. 441-bis c.p.c., con un meccanismo quindi che incentiva la proliferazione di cause (e, dunque, con dispendio di energie processuali, di parte e giudiziali: mentre ora nell’ambito di una causa di licenziamento una domanda connessa per differenze retributive non la si nega a nessuno – nell’ottica da bazar di farla poi “pesare” in ipotesi transattiva – raramente, nell’esperienza di chi scrive, all’esito di un Fornero, seguiva una causa di natura economica).
In punto a illecito mancato ripescaggio nel GMO, chi scrive ritiene trattarsi di una violazione del nesso di causalità, in quanto la ragione organizzativa alla base della soppressione delle mansioni degrada a occasione del licenziamento se la ricollocazione è possibile; tanto più in un sistema ormai completamente sganciato dalla necessità di una crisi aziendale.
Ritengo quindi maggiormente equilibrato il disposto dell’art. 18, 7° comma Statuto.
Piuttosto, se il problema è l’accertamento del GMO, io sarei per normarlo, seguendo quelle che ormai sono le regole date dalla giurisprudenza e che valgono a connotare lo stesso di un’esigibilità improntata a criteri di ragionevolezza.
L’altro punto delicato è quello del licenziamento per MS: la sentenza costituzionale n. 129/2025 pare dirci che il limite di costituzionalità riguarda solo le previsioni “secche”, precise, tipizzate dalla contrattazione collettiva, ma questo ovviamente non limita (non avendo la Consulta ritenuto di pronunciare una sentenza di accoglimento imponendo una regola specifica) l’interpretazione del giudice ordinario che a questo punto potrebbe leggere l’art. 3, 2° comma anche in parallelo con l’art. 18, 4° comma Statuto, rimanendo esclusa dalla reintegra esclusivamente l’ipotesi in cui la valutazione giudiziale di sproporzione della sanzione espulsiva rispetto alla condotta avvenga senza alcuna mediazione, nemmeno elastica, delle clausole dei CCNL.
Si è tuttavia consci anche delle esigenze imprenditoriali in materia ed in primis la reale necessità di maggiore certezza del diritto (che però – a differenza di quanto sembra ricavarsi dalla vulgata comune – non significa certezza dell’impunità), ma anche la libertà di impresa (nel senso della difficoltà di proseguire un rapporto con un lavoratore con il quale il rapporto di fiducia è venuto meno in un range di oggettiva opinabilità soggettiva) e quindi, nel caso in cui la reintegra fosse disciplinata come nell’articolato Frecciarossa, riterrei necessario comunque garantire la stessa ai casi di condotte bagatellari, nelle quali ancorare il ritorno in azienda esclusivamente alla sussistenza di una clausola contrattuale collettiva tipizzata può non eliminare il grave vulnus subito dal lavoratore (situazione che non si sanerebbe nemmeno con la forzatura di ampliare il concetto di giuridicità del fatto). 
Da questo punto di vista, pur nella difficoltà ideativa e applicativa di un meccanismo normativo in grado di setacciare tali forme di abuso datoriale per assicurare lì la reintegrazione, ritengo che un tentativo in questo senso andrebbe fatto. Si tratterebbe di una clausola generale di diritto sostanziale relativa a condotte disciplinarmente rilevanti ma con un grado obiettivamente minimo di offensività e che imporrebbe in tali casi (rimessi all’individuazione giudiziale, come avviene per tutte le clausole generali) la reintegrazione.
Se poi l’idea – qui solo abbozzata – fosse ritenuta peggiore del problema che vuole risolvere, potrebbe tornarsi senza problemi alla disputa fra fautori della reintegra e della certezza del diritto.

