testo integrale con note e bibliografia
La proposta di riforma degli Accademici del “Gruppo Freccia Rossa” (la “Proposta”), formulata con la finalità di superare la attuale frammentarietà del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi vigente, presenta dei profili interessanti che meriterebbero ampia discussione.
Con la presente nota si intendono fornire solo brevi osservazioni di natura operativa – originate dall’applicazione pratica nell’ambito della professione forense delle norme succedutisi nel corso degli ultimi anni in tema di recesso – in relazione all’art. 6 comma 1 e comma 2 della Proposta con riferimento all’introduzione, per la prima volta, dell’elemento dell’internazionalità.
Dette norme (relative al tema del c.d. “requisito dimensionale”), rimangono cruciali per la determinazione del tipo di tutela applicabile ai lavoratori interessati (quella per la piccola impresa o meno, con conseguenti differenti tutele).
L’art. 6 comma 1 della Proposta prevede che, ai fini della qualificazione delle imprese come “minori” o “maggiori” sotto il profilo dimensionale e della conseguente applicazione della relativa disciplina sanzionatoria, continui ad applicarsi il tradizionale criterio numerico sino qui applicato.
Tuttavia, la disposizione introduce un elemento ulteriore per l’identificazione della dimensione occupazionale, includendo, altresì, l’aspetto dell’internazionalità: si tratta di un punto rilevante della Proposta che, sotto il profilo pratico, potrebbe rivestire un ruolo di grande importanza per gli operatori del diritto.
La norma nel testo di cui alla Proposta stabilisce, infatti, con riguardo al suddetto elemento di novità, che si applichi la disciplina prevista per le imprese di maggiori dimensioni “al datore di lavoro nazionale o estero” e “in ogni caso, al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, nazionale o estero, che occupi complessivamente più di sessanta dipendenti, anche se occupati al di fuori del territorio nazionale”,
Nell’art. 6 comma 2, viene ulteriormente precisato che “Ai fini del computo dei dipendenti di cui al comma 1” si intendono i “lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato” e vengono introdotte altre categorie di dipendenti, tra cui i “i dipendenti occupati all’estero dallo stesso datore di lavoro”.
Una delle questioni interessanti e molto attuali della Proposta, oggetto delle presenti osservazioni, è rappresentata dalla scelta di introdurre l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 3, 4 e 5 al datore di lavoro “nazionale o estero” nonché di revisionare il criterio dei sessanta dipendenti “complessivi” (già adoperato dall’art. 18 della L. 300/1970) ai fini dell’identificazione delle aziende maggiori a cui applicare la relativa tutela.
Con riguardo al primo aspetto, limitatamente con riferimento al datore “nazionale o estero”, si osserva che si tratta di un’aggiunta potenzialmente utile alla luce del verificarsi di casi sempre più frequenti nel contesto pratico, che ribadisce il principio della lex loci laboris, già consolidato nella disciplina del diritto internazionale privato.
In merito al secondo aspetto, concernente il criterio dell’occupazione “complessiva” di più di 60 dipendenti, la norma precisa espressamente che, all’interno di tale numero rientrino anche i lavoratori occupati al di fuori del territorio nazionale, superando - in tal modo - l’orientamento costante della Cassazione che, in assenza di indicazioni precise da parte della norma in oggetto, ha ritenuto che il requisito occupazionale debba essere considerato con riferimento al solo territorio nazionale (Cass. n. 19557/2016).
Nel merito, la Proposta potrebbe essere condivisibile a livello di principio, anche se la norma, riferendosi genericamente al “datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, nazionale o estero” potrebbe non rendere con chiarezza la portata applicativa della stessa al di fuori del territorio nazionale.
In proposito, potrebbe essere utile che venga fornito dalla Proposta un criterio per definire la nozione del datore di lavoro estero: l’interpretazione che pare preferibile è che la portata della stessa risulti limitata alle sole stabili organizzazioni di società estere e/o ai dipendenti residenti in Italia assunti direttamente dalle società estere.
Da altro punto di vista si osserva come, allo stato dell’arte, si fatichi a ravvisare una definizione internazionale di lavoratore subordinato univoca e priva di contraddizioni; potrebbero emergere, infatti, difficoltà a livello di coordinamento tra i vari ordinamenti giudici degli Stati membri dell’Unione europea e degli Stati terzi, tenuto conto non solo delle differenze storiche e politico-sociali che hanno plasmato le normative nazionali di ogni Stato, ma anche delle inevitabili divergenze tra i sistemi di Civil law e di Common law.
Sul punto si segnala, infatti, come a livello eurounitario non vi sia alcuna definizione normativa generale di “lavoro subordinato” che possa essere quindi richiamata. Occorre infatti osservare come alcune direttive UE forniscano definizioni unicamente settoriali di lavoro subordinato o, in taluni casi, contengano presunzioni di subordinazione e di rinvio alla disciplina nazionale dei singoli Stati membri .
La dottrina, tuttavia, partendo dagli orientamenti giurisprudenziali della CGUE che attribuiscono particolare peso all’assoggettamento della prestazione alle direttive del creditore e al carattere oneroso del rapporto di lavoro, ha elaborato alcuni elementi utili per l’individuazione della figura di “lavoratore”, seppure unicamente funzionali all’applicazione delle garanzie in materia di libera circolazione di cui all’art.45 TFUE.
Inoltre, una definizione comune di lavoratore risulta complessa non solo a livello comunitario, ma anche a livello internazionale a causa dell’assenza di organismi sovranazionali in grado di offrire definizioni che possiedano carattere vincolante per gli Stati.
Gli unici spunti, in tal senso, provengono da atti di soft law (privi, pertanto, di efficacia vincolante) di organismi internazionali, tra i quali si segnala la Raccomandazione ILO sul rapporto di lavoro n. 198/2006, che all’art. 13 asserisce che gli Stati membri dovrebbero attenersi, ai fini della determinazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro, a criteri quali la soggezione al potere direttivo e di controllo, l’integrazione nell’organizzazione, la periodicità della retribuzione etc.).
Si rilevano, infine, possibili criticità in materia di prova e accertamento giudiziale del numero dei dipendenti, a causa delle possibili difficoltà riscontrabili nell’acquisizione di specifica documentazione al di fuori del territorio italiano, a cui nemmeno l’inversione dell’onere della prova previsto in materia di requisito dimensionale potrebbe so
