testo integrale con note e bibliografia
Parto dalla fondamentale – e direi quasi ovvia - notazione che il lavoro svolto dal Gruppo Freccia Rossa sia assolutamente encomiabile. La materia dei licenziamenti, sicuramente il settore più importante del diritto del lavoro, negli ultimi è diventata assolutamente ingovernabile per chiunque. Personalmente, essendo professionalmente impegnato in larga parte in attività di consulenza alle aziende, sento un continuo disagio nel tentare di comunicare ai miei clienti le mille possibilità che caratterizzano ogni possibile scenario.
D’altronde, da alcuni anni avevo maturato l’idea che un testo unico dei licenziamenti fosse diventato una necessità ineludibile. Di qui il mio assoluto apprezzamento per l’impegno dei componenti del Gruppo e per il risultato raggiunto.
Devo però fare una brevissima premessa. Non posso però nascondere che negli ultimi tempi, osservando le prese di posizione della giurisprudenza, soprattutto di legittimità, e della Consulta, che non paiono trovare freno, mi sono convinto che forse sarebbe meglio fermarsi all’esistente. I progetti di riforma del legislatore del 2012 e di quello del 2015 – giusti o sbagliati, condivisibili o meno che fossero: in questa riflessione non importa – sono naufragati di fronte al volere dei giudici ordinari e di quello delle leggi. Questa – senza voler svolgere alcuna riflessione di carattere politico, ma neanche semplicemente di politica del diritto – è la fonte principale del disagio degli operatori, o almeno del mio personale disagio. Quindi confesso che il timore che ad una stagione di riforme segua una nuova stagione di assestamenti – o peggio, di controriforme – giurisprudenziali mi getta nel terrore, facendomi prefigurare le difficoltà che la mia attività incontrerà nel rincorrere le novità, le interpretazioni delle novità ed i cambiamenti delle interpretazioni delle novità. E mi fa pensare che, essendo ormai sotto gli occhi di tutti che in questa materia chi decide davvero non è il decisore politico (mi scuso per quest’espressione che trovo orribile, ma che in questo momento mi pare la più indicata), ma chi decide nei giudizi (ordinari o di costituzionalità), forse bisognerebbe solo prenderne atto.
In questo senso noto che, come era anche normale, il Gruppo Frecciarossa ha deciso di recepire gli approdi giurisprudenziali più recenti.
Fatta questa breve premessa, appunto la mia attenzione su pochi aspetti.
L’aliunde perceptum a mio parere dovrebbe ricevere più attenzione. Il nostro ordinamento in generale vuole che il risarcimento del danno non si trasformi in locupletazione per la parte danneggiata, ma bisogna prendere atto che questo avviene in numerosissimi casi nei licenziamenti, in ragione di motivi semplicemente processuali (per la mancanza di conoscenza del fatto che il lavoratore licenziato abbia reperito un’altra occupazione, o per l’incapacità di provarlo). Andrebbe allora a mio parere previsto uno strumento specifico: si tratti dell’obbligo di dichiarare o comprovare qualcosa da parte del lavoratore, dell’obbligo del giudice di disporre indagini presso gli Enti o del diritto del datore di accedere a queste informazioni. Resterebbe sempre l’area del lavoro nero, ma per ora mi pare urgente risolvere almeno l’aspetto più semplice della questione.
Non condivido l’idea di collegare la tutela reintegratoria all’omissione della procedura disciplinare.
La reintegrazione disposta a fronte di comportamenti gravissimi solamente perché il datore ignorava di dover procedere con preventiva contestazione mi è sempre parsa una tutela sbagliata. Ricordo che uno dei primi casi che ho affrontato all’inizio della mia carriera riguardava un lavoratore che con colpa gravissima aveva effettuato male le saldature di tubi del gas per diversi chilometri. Se l’azienda non se ne fosse accorta ci sarebbero state esplosioni sicuramente mortali. Il datore di lavoro non elevò la contestazione ed il lavoratore avrebbe avuto sicuramente diritto alla reintegrazione. Tuttavia, la questione non fu sollevata in ricorso ed il giudice accertò l’esistenza della giusta causa, proprio perché all’esito dell’istruttoria risultò che il comportamento del lavoratore era stato gravemente colpevole e potenzialmente letale per parecchie persone. Io non credo che sarebbe stato giusto reintegrare nelle mansioni di saldatore – col timore di futuri errori - questo lavoratore solo perché non aveva ricevuto la contestazione.
La contestazione ed il diritto di difesa sono sacrosanti, ma penso che la loro violazione non necessiti della tutela reintegratoria. Il diritto di difesa si potrà recuperare in giudizio e se emergerà l’insussistenza delle ragioni del licenziamento sarà giusto applicare anche la tutela massima; se il vizio resterà di carattere meramente procedurale, una sanzione economica sarà a mio parere più adeguata.
Concludo poi con una semplice notazione: è vero – e lo ribadisco – che il diritto di difendersi in sede stragiudiziale va tutelato e non dev’essere conculcato. Ma ci siamo mai chiesti quanto spesso le giustificazioni del lavoratore a fronte di contestazioni potenzialmente sfocianti nel licenziamento siano veramente dirimenti? È chiaro che il lavoratore normalmente porta la propria tesi, solitamente negando gli addebiti; è altrettanto chiaro che nella maggior parte dei casi al momento della contestazione il datore di lavoro ha già fatto le proprie valutazioni. Ferma quindi la tutela del diritto di difesa, non vedo ragioni per enfatizzarlo.
D’altronde, se questo momento è davvero così fondamentale che la sua violazione deve essere sanzionata con la misura più severa – come attualmente fa la giurisprudenza – non è per certi versi incoerente accettare (come non si può fare a meno di accettare!) che le difese svolte in giudizio possano essere diverse da quelle svolte in sede disciplinare?
Non ho apprezzato particolarmente l’esperienza del tentativo obbligatorio di conciliazione per i licenziamenti economici e, pertanto non condivido l’idea di riproporlo. Quanto alla possibilità di sanzionarne la mancanza in misura più lieve rispetto alla mancanza del procedimento disciplinare sono d’accordo, ma mi chiedo: non verrà in mente a qualcuno di sospettare l’incostituzionalità della differenza di trattamento nel rispetto delle procedure? Con questa domanda, torno un po’ alla mia sfiducia iniziale per i cambiamenti …
Per motivi di spazio, chiudo con due brevi notazioni sui licenziamenti collettivi.
Io ritengo che quando si applicano i criteri dei carichi di famiglia e dell’anzianità di servizio il legislatore dovrebbe fissarne il peso. L’attribuzione di un punto, mezzo punto, due punti per anno di servizio o per familiare a carico, o la differenziazione tra coniuge e figlio tra figli maggiorenni o minorenni è solitamente lo strumento per decidere quale lavoratore debba essere licenziato. Se il legislatore prevede un criterio, che ne dia anche il valore!
Credo poi che se si intervenisse legislativamente, bisognerebbe risolvere quella che è stata storicamente una grande difficoltà per il datore di lavoro, che attualmente ha assunto i contorni dell’impossibilità: conoscere i carichi di famiglia dei dipendenti. In quest’ottica, si dovrebbero onerare i dipendenti, nel proprio interesse, di dimostrare i propri carichi di famiglia.
L’ultima parola va su un argomento non affrontato, quello del ticket sui licenziamenti collettivi. Attualmente esso può arrivare sino a sei volte il valore massimo del ticket NASpI e può quini raggiungere all’incirca i dodicimila euro per ciascun licenziamento. Un’impresa in difficoltà che dovesse ridurre l’organico di venti unità potrebbe trovarsi a dover pagare circa duecentoquarantamila euro di contributo. Mi sembra davvero troppo, soprattutto considerando che non si tratta di somme di cui beneficiano i lavoratori che perdono il posto.
