TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
L’Italia è l’unico grande Paese europeo in cui, a distanza di oltre trent’anni, i salari reali sono rimasti sostanzialmente fermi. Questo è il dato che meglio racconta la parabola della nostra economia e della nostra società. A partire dall’inizio degli anni Novanta, quando il nostro sistema industriale e le nostre istituzioni furono messe di fronte a cambiamenti epocali – dalla fine della Guerra fredda all’avvio della globalizzazione, dalla crisi del debito sovrano all’ingresso nell’euro – l’Italia non è stata più in grado di garantire crescita salariale ai suoi lavoratori. L’anomalia è ancora più evidente se paragonata a quanto accaduto in Francia, Germania e Spagna: mentre questi paesi hanno visto crescere i salari reali tra il 20 e il 30% negli ultimi tre decenni, da noi si è verificato l’opposto, con una riduzione secca di circa il 3-4%.
 
 Se allarghiamo lo sguardo agli ultimi cinque anni, il quadro è ancora più cupo. Dopo la pandemia e il successivo shock inflazionistico, i salari reali italiani sono crollati di circa l’8%, con un calo medio del 5% nell’industria e addirittura del 10% nei servizi. È una perdita che non è stata ancora recuperata, a differenza di quanto accaduto nei paesi vicini: Francia e Germania hanno riportato i salari reali attorno ai livelli pre-Covid, mentre in Spagna si è registrato un leggero incremento.
Tabella – Variazione salari reali in Europa (%)
| Paese | 1991-2023 | 2019-2024 | 
| Italia | –3,4% | –8% | 
| Francia | +30,9% | +0,5% | 
| Germania | +30,4% | +0,2% | 
| Spagna | +9,1% | +1,2% | 
| Media OCSE | +25% | 0% | 
| Fonte Oecd, indice dei salari contrattuali | ||
Il confronto storico è impietoso. In Italia, a differenza che altrove, non solo la crescita della produttività si è fermata a metà anni Novanta, ma i salari non hanno neppure beneficiato delle dinamiche di redistribuzione viste in altri paesi. Lì dove Germania e Francia hanno saputo combinare contenimento dell’inflazione e meccanismi redistributivi capaci di garantire crescita delle retribuzioni, l’Italia è rimasta bloccata in un modello che non ha garantito crescita del reddito reale. Mentre il ritardo dei salari nel trentennio può essere spiegato con la scarsa produttività dei servizi, la mancanza di capitale umano istruito, il fatto che le nostre imprese sono molto piccole, la mancanza di tecnologie d’avanguardia e le scarse spese in ricerca e sviluppo, il recente quinquennio deve avere altre spiegazioni. L’Italia degli ultimi anni ha infatti avuto performance migliori dei suoi vicini per quanto riguarda il PIL e l’occupazione, la produttività è rimasta pressoché stabile, come ha potuto subire un calo così vistoso dei salari reali?
 La radice del problema va cercata nella nostra architettura contrattuale. Il Protocollo del luglio 1992 e il successivo accordo del luglio 1993 furono fondamentali per salvare il Paese dal baratro della crisi valutaria e dalla spirale inflazionistica. Con essi si abbandonò definitivamente la scala mobile, si introdusse un sistema a due livelli di contrattazione – nazionale e decentrata – e si scommise sulla concertazione tra governo, imprese e sindacati. Quell’accordo fu un punto di svolta: assicurò pace sociale, tenuta dei conti pubblici e ingresso dell’Italia nell’euro. Per quasi trent’anni la formula funzionò, garantendo che i salari seguissero l’inflazione e contenendo le spinte alla conflittualità industriale.
 
 Ma i limiti si sono presto manifestati. In primo luogo, il legame con l’inflazione programmata e, più tardi, con l’indice IPCA al netto dei prezzi energetici non ha mai garantito pieno recupero del costo della vita. In secondo luogo, la contrattazione di secondo livello è rimasta circoscritta a meno di un quinto delle imprese medio-grandi ed è quasi del tutto assente nelle piccole imprese dei servizi. Infine, la proliferazione dei contratti collettivi ha reso sempre più fragile la tenuta del sistema: oggi al CNEL risultano depositati oltre mille contratti nazionali, molti dei quali firmati da sigle minoritarie.
 
 Il risultato è un sistema che ha perso credibilità ed efficacia. Nei settori pubblici e nei servizi, i ritardi nei rinnovi sono la norma. Molto spesso la contrattazione avviene sotto la minaccia di concorrenti che promettono condizioni salariali più convenienti. È così che, mentre in Francia e Germania i salari hanno recuperato, da noi il calo resta strutturale.
I diversi settori sono molto diversi tra loro, l’industria tipicamente regge molto meglio il passo dell’inflazione mentre i servizi e soprattutto il pubblico, per motivi legati ai risparmi di bilancio, rimangono spesso indietro.
Tabella 2 – Variazione percentuale retribuzioni contrattuali reali (settori privati)
| Settore | 2000-2014 | 2014-2019 | 2019-2025 | 2021-2023 | 2023-2025 | 
| Commercio | -0,6 | +2,1 | -10,2 | -12,8 | +3,5 | 
| Metalmeccanici | +4,1 | +1,3 | -2,8 | -6,7 | +3,9 | 
| Turismo (Alberghi e pubblici esercizi) | -2,0 | -0,5 | -11,6 | -13,9 | +1,0 | 
| Multiservizi (pulizie locali) | -6,9 | -3,2 | -9,2 | -8,0 | -0,9 | 
| IPCA (prezzi al consumo) | +2,1 | +0,6 | +3,5 | +5,8 | +1,8 | 
| Fonte ISTAT indice retribuzioni contrattuali | |||||
Tra il 2019 e il 2025 i metalmeccanici hanno retto meglio grazie a clausole di adeguamento, mentre turismo e multiservizi hanno perso oltre il 10% di potere d’acquisto. Il commercio ha avuto un recupero parziale dopo l’ultimo rinnovo, ma resta molto indietro rispetto ai prezzi. Il risultato è che, se confrontiamo tre lavoratori, uno del settore metalmeccanico, uno del commercio e un dipendente pubblico che partono tutti con una retribuzione contrattuale lorda di circa 22mila euro nel 2019, il primo arriverebbe nel 2025 a circa 26.600 euro, quasi in pari con l’inflazione cumulata del periodo, che sta attorno al 20%, il secondo arriverebbe a 24.700 euro quindi 9 punti meno dell’inflazione e il terzo a 23000 euro quindi ben 15 punti meno dell’inflazione.
 Tre sono i fronti su cui si concentra oggi il dibattito: la legge sulla rappresentanza, il salario minimo legale e la revisione complessiva del sistema di contrattazione nato nel 1992 con norme più severe che impediscano i ritardi nei rinnovi e aumentino la loro frequenza. Il nodo salariale non riguarda però soltanto i lavoratori attuali, ma soprattutto le nuove generazioni. In Italia i giovani entrano nel mercato del lavoro con retribuzioni molto più basse rispetto ai loro coetanei europei. Secondo Eurostat, lo stipendio lordo di ingresso per un laureato si aggira attorno ai 25.000 euro annui, contro i 32.000 in Francia, i 35.000 in Germania e i 28.000 in Spagna.
 
 Questa differenza iniziale ha conseguenze enormi: incentiva l’emigrazione qualificata, riduce la mobilità sociale interna, indebolisce la fiducia dei giovani nella possibilità di costruire una vita autonoma in Italia. Con salari bassi e prospettive di carriera incerte, i giovani tendono a posticipare la formazione di una famiglia, a ridurre le scelte di investimento a lungo termine e a limitare i progetti di vita. Chi ha la possibilità di trasferirsi all’estero lo fa, trovando condizioni salariali più favorevoli e percorsi di carriera più rapidi.
 
 Il combinato disposto di questi fenomeni mette a rischio la sostenibilità stessa del nostro modello sociale. Senza una classe media solida e senza giovani motivati a rimanere, l’Italia rischia di scivolare in una trappola di stagnazione permanente: bassi salari, bassa produttività, bassa crescita.
 
 La conclusione è chiara: o l’Italia affronta di petto la questione salariale, introducendo una legge sulla rappresentanza, un salario minimo legale ben disegnato e una revisione profonda del modello di contrattazione collettiva, oppure resterà l’unico grande paese europeo in cui avere un lavoro non basta più per garantire una vita dignitosa. Restituire centralità al lavoro e al suo valore non è solo una questione di equità: è l’unica via per dare all’Italia un futuro di crescita sostenibile.

