testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa
La prima cosa che viene in mente, leggendo il progetto di riforma, è “magari”.
Magari il legislatore procedesse a una riforma organica della disciplina del licenziamento, senza bisogno di provvedimenti realizzati tra l’oggi e il domani, tecnicamente maldestri e di dubbia costituzionalità .
È indiscutibilmente apprezzabile la visione dei promotori del progetto e dei suoi principi ispiratori: una sintesi che sia una razionalizzazione, mettendo (per quanto possibile) da parte le proprie convinzioni su come sarebbe giusto sanzionare i licenziamenti illegittimi, preferendo prendere le mosse dal buono che contiene la legislazione vigente e dalle osservazioni della Corte Costituzionale.
L’unico contributo sensato che può offrire lo scrivente è quello di mettere a disposizione la propria esperienza concreta al fine di svolgere alcune osservazioni sulla disciplina proposta, articolo per articolo, e anche in merito a quanto non è confluito nel testo normativo, in quanto non condiviso dalla maggioranza del gruppo.
Per una trattazione ordinata, si procede a un esame articolo per articolo.

Art. 1
Doverosa è la specificazione contenuta nel comma 2; le Pubbliche Amministrazioni hanno una disciplina loro propria del licenziamento, contenuta nell’art. 63 d.lgs. n. 165/2001], che non avrebbe senso sostituire.
La scelta di escludere i dirigenti dalla nuova disciplina, invece, desta alcune perplessità; si tratterebbe, infatti, di una scelta di rottura rispetto alla disciplina dell’art. 18, comma 1, legge 300/1970. Si ritiene che la formulazione dell’art. 1, primo comma, possa indurre in confusione, con il suo regime di “doppia eccezione”.
L’articolo recita: “Per gli operai, impiegati o quadri con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il regime di tutela applicabile al licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui alla presente legge salvo i casi in cui il recesso è regolato esclusivamente dall’art. 2118 c.c. o da norme speciali, nei quali trova comunque applicazione l’art. 2 della presente legge”; allo scrivente sembra che i dirigenti siano in ogni caso esclusi dalla possibilità della reintegra, perché la nuova legge:
- si applica solo a operai, quadri e impiegati a tempo indeterminato;
- tra costoro, sono esclusi coloro per i quali è prevista una regolamentazione del recesso particolare, ai sensi dell’art. 2118 c.c. o per effetto di leggi speciali;
- anche per costoro, però, vale l’art. 2, sulla nullità del licenziamento.
Se questa è la proposta normativa, è evidente che i dirigenti sono fuori dal campo di applicazione, perché la prima deroga (“salvo i casi…”) riguarda, comunque, operai, impiegati e quadri.
Chiarirei espressamente se la norma sulla nullità del recesso (ossia l’art. 2) si applichi o meno ai dirigenti.

Art. 2
L’elenco del primo comma, anche se potrebbe essere considerato ridondante, ha il pregio di raccogliere tutte le ipotesi di nullità, nessuna esclusa, emendandosi dai vizi dell’art. 2 d.lgs. 23/2015, già cassato dalla Corte Costituzionale .
In merito al secondo comma, non si comprende perché, in quest’ottica di riforma e razionalizzazione, sia stato considerato l’aliunde perceptum ma non l’aliunde percipiendum, come invece previsto dall’art. 3 della proposta di legge, in caso di licenziamento annullabile.
Vi sono due elementi che convincono lo scrivente dell’inopportunità di tale esclusione:
- in primo luogo, il licenziamento o ha effetti, o non li ha; di conseguenza, il licenziamento dichiarato nullo è privo di efficacia ex tunc esattamente come il licenziamento annullabile e quindi le conseguenze giuridiche dovrebbero essere le stesse;
- in secondo luogo, non prendere in considerazione la diligenza del lavoratore licenziato, seppur con un licenziamento nullo, al fine di porre un limite al risarcimento stride con la mancanza di un tetto all’indennità risarcitoria. In altri termini: nel licenziamento annullabile vi è un limite all’indennità risarcitoria e si tiene conto del rifiuto di un’offerta lavorativa adeguata; nel licenziamento nullo non c’è limite e, nel contempo, il lavoratore può rifiutare ogni tipo di offerta (in spregio alla norma generale dell’art.1227 c.c.).
Forse la ratio della norma è quella di punire severamente i licenziamenti considerati più “odiosi”; ma chi scrive ritiene, da un lato, sufficiente che non vi sia limite massimo all’indennità risarcitoria, e, dall’altro lato, invece, che l’assenza della previsione dell’aliunde percipiendum rischia di essere eccessivamente penalizzante, ingiustificato dal punto giuridico e, altresì foriero di comportamenti fraudolenti.

Art. 3
Nell’elencazione delle ipotesi per le quali vi è la reintegrazione c.d. debole ve ne sono due interessanti, a parere di chi scrive, ossia le lettere c) ed e).
La prima ipotesi riguarda la violazione dell’art. 2110 c.c. che però prevede l’eccezione per cui si applica l’art. 3 “salvo che ricorra l’ipotesi di cui all’art. 2, comma 1, lett. a)”, ossia la nullità del licenziamento in quanto discriminatorio. Nonostante si comprenda che la previsione sia stata introdotta a seguito delle recenti sentenze di legittimità che hanno ritenuto discriminatoria l’applicazione del normale periodo di comporto ai lavoratori con disabilità, chi scrive riterrebbe più lineare applicare sempre un unico tipo di tutela nell’ipotesi di violazione dell’art. 2110 c.c., per evitare difficoltà applicative.
Del tutto apprezzabile, invece, è la previsione contenuta nella lettera e), che servirebbe a far chiarezza rispetto alle confuse disposizioni attuali che hanno portato ad applicazioni giurisprudenziali spesso criticabili. In particolare, l’introduzione di una specifica ipotesi di annullabilità servirebbe a fornire sostegno normativo al filone giurisprudenziale che, per ragioni di valore ma in assenza di un valido fondamento logico – giuridico, ritiene insussistente il fatto su cui il licenziamento si fonda nel caso di omessa contestazione disciplinare. Con questa modifica normativa, invece, vi sarebbe una diretta sanzione dell’omessa attivazione della procedura di cui all’art. 7 legge 300/1970, ribadita anche dall’art. 5, comma 2.
Si comprende la ragione per cui è stato introdotto il comma 4, che permette al giudice di elevare l’indennità risarcitoria massima da 12 a 24 mensilità. Si osserva, però, che sarebbe preferibile subordinare tale potere all’istanza della parte e prevedere, quindi, l’obbligatorietà di sottoporre tale richiesta a un apposito contraddittorio, da realizzarsi o tramite lo scambio di note o invitando le parti a prendere posizione sul punto oralmente. Probabilmente sarebbe necessario, in tale ipotesi, prevedere la possibilità di depositare un’apposita memoria in cui vengano allegati e dimostrati i presupposti indicati dalla norma, in quanto fatti successivi all’inizio del processo.

Art. 4
La norma si apre con una dichiarazione di residualità (“In tutti i casi di licenziamento illegittimo diversi da quelli indicati agli art. 2, comma 1, e 3, comma 1”); ad avviso di chi scrive, sarebbe meglio integrare la previsione inserendo anche le ipotesi di cui al successivo art. 5, poiché anche tale ultima norma è speciale rispetto all’art. 4.
Sarebbe, inoltre, più chiara una norma di sussidiarietà espressa, rispetto alla previsione dell’ultimo periodo del primo comma (“È fatto salvo quanto specificamente previsto negli articoli seguenti”).
La parte sicuramente interessante è quella in cui si afferma espressamente che la violazione dell’obbligo di repêchage e dei criteri di scelta dei lavoratori porta alla c.d. tutela indennitaria e non a quella reintegratoria. Al di là della condivisione o meno del merito nella scelta, non si può che apprezzare che l’ipotesi sia oggetto di un intervento normativo: anzi, chi scrive ritiene che sarebbe stato auspicabile che fosse il legislatore a chiarire questo punto già dalla riforma del 2012, senza lasciarlo alla variegata interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale.
Si prende atto che il minimo è stato aumentato o diminuito, a seconda che si muova dall’art. 18, comma 5, legge n. 300/1978 o dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, a 8 mensilità. Erano troppe 12? Erano poche 6? Qui si rientra nella discrezionalità più pura.
L’ultimo comma fornisce, in teoria, indicazioni utili sulla liquidazione dell’indennità risarcitoria ma sembra necessario precisare che, nella pratica, sono difficilmente applicabili. Capita molto spesso, infatti, che il lavoratore nulla dica in merito a questi parametri, anche per ragioni di scarsa conoscenza dei medesimi. Sarebbe utile chiarire, anche a livello normativo, chi sia onerato di provare questi elementi e quali siano le conseguenze della mancata prova: è il lavoratore che deve dimostrare il buon andamento economico o è il contrario? Nel caso di dubbio (o di totale assenza di allegazione e prova in tal senso), il giudicante rimane sui valori minimi, deve/può applicare l’indennità massima, oppure pilatescamente non ne tiene conto? Tale profilo, anche nei precedenti giudiziari, è decisamente troppo poco approfondito.

Art. 5
Il comma 2 di quest’articolo è ridondante, ma appare un peccato veniale a fronte delle esigenze di chiarezza in merito alle conseguenze della mancata contestazione disciplinare. Sarebbe invece stato meglio precisare, nell’opinione di chi scrive, che cosa accade quando il licenziamento non è affatto motivato, al punto che non si comprenda nemmeno se sia per motivi oggettivi o soggettivi; sembra paradossale, ma nella pratica capita persino questo.
In tal caso, sarebbe ragionevole prevedere la medesima sanzione del comma 2; in tal senso, si propone una modifica del comma stabilendo “in caso di licenziamento per motivi disciplinari adottato omettendo la procedura di cui all'articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, o nel caso in cui manchi del tutto la motivazione del licenziamento, si applica la disciplina di cui all’art. 3”.
Per quanto riguarda il breve testo del comma 3, si deve rilevarne la dissonanza rispetto all’art. 18, comma 6, legge 300/1970, il quale collega l’indennità alla gravità della violazione formale. A parere dello scrivente, era preferibile la previsione dell’art. 18: nel caso di specie, infatti, siamo dinanzi a un licenziamento sostanzialmente valido (in quanto il lavoratore può sempre contestarne la fondatezza), ma viziato solo dal punto di vista formale o procedurale.
Manca la previsione, e forse sarebbe il caso di inserirla qui, di cosa accada quando il licenziamento sia intimato in violazione non degli articoli di legge richiamati, ma delle previsioni del C.C.N.L. applicato. È ben noto che molti contratti collettivi prevedano termini diversi o procedure particolari in caso di recesso datoriale: ogni volta che le stesse vengono violate si apre un delicato problema interpretativo, in quanto le stesse non sono citate dalle norme di legge che sanzionano le violazioni formali (ossia l’art. 18, comma 6, legge n. 300/1970 e l’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015).
Sarebbe il caso, in questa sede, di dedicare una previsione normativa a questi tipi di vizi, che potrebbe essere la medesima del presente articolo.

Art. 6
L’articolo ripropone la dicotomia piccole/grandi imprese, escludendo la reintegra per le prime, salvo le ipotesi di nullità. Si ritiene pienamente ragionevole tale decisione, tenuto conto che una pronuncia di reintegrazione può essere economicamente insostenibile per le piccole realtà imprenditoriali, le quali, peraltro, sono spesso più soggette a errori nel momento in cui decidono di procedere al recesso.
Il comma 3 è avanti sui tempi e tiene conto dei moniti della Corte Costituzionale; a mio parere, reggerebbe a un nuovo esame della Consulta, anche dopo la recente sentenza di incostituzionalità dell’art. 9 del d.lgs. n. 23/2015, in quanto amplia in modo ragionevole lo spettro di tutela, modellandolo oltretutto sull’anzianità del lavoratore.
In merito al minimo e massimo edittale, di nuovo, è discrezionalità pura.

Art. 7
Il lungo articolo contiene un aggiornamento della disciplina dei licenziamenti collettivi, che recepisce gli orientamenti giurisprudenziali maturati negli ultimi decenni; sicuramente è utile avere delle precisazioni ulteriori nel testo di legge.
È interessante notare che, anche nella proposta, si evita la possibilità di reintegrazione, tranne che nell’ipotesi, del tutto singolare, di licenziamento collettivo orale. Da questo punto di vista, si sottolinea che vi è un arretramento deciso di tutela nei confronti dei lavoratori che, attualmente, sono sotto il regime dell’art. 18 legge 300/1970; poiché tale norma verrebbe abrogata, anche costoro non avrebbero accesso al rimedio reintegratorio dal momento dell’entrata in vigore di questa proposta di legge. Ad opinione di chi scrive, questo creerebbe una certa opposizione in sede di approvazione del testo di legge.

Art. 8
La possibilità di una revoca del licenziamento, già presente nell’attuale legislazione, è da salutare con favore. L’esperienza, peraltro, ne offre pochi esempi pratici.

Art. 9
Questo articolo replica la previsione già contenuta nel d.lgs. n. 23/2015, con alcuni miglioramenti; il problema, però, è che rimane un modello troppo rigido.
La previsione di un quantum prefissato come offerta può avere senso solo come tetto massimo per la somma non imponibile; ma tralascia del tutto la valutazione concreta della vicenda. È vero che, laddove le parti intendano accordarsi per una somma maggiore, sarà possibile e il surplus verrà assoggettato, come statuisce l’ultimo periodo, al regime fiscale ordinario; ma che cosa accade laddove le parti vogliano conciliare per una somma inferiore? Può ben capitare che la domanda del lavoratore sia chiaramente infondata e il datore di lavoro decida di fare un’offerta solo per evitare i costi di un giudizio.
Così com’è formulata, si rischia di ritenere che solo l’offerta minima prevista dalla legge possa comportare una valida rinuncia al licenziamento.
In sintesi, si suggerisce di modificare il testo inserendo, semplicemente, la previsione di un limite massimo di mensilità che possa essere escluso dall’imposizione fiscale.
Anacronistico è il riferimento all’assegno circolare; intanto, vi sono altri modi di pagamento istantanei e, del resto, non si comprende per quale ragione non vi possa essere una rateazione. Il necessario pagamento immediato dell’intero importo, che può essere anche decisamente elevato, può ostacolare, se non impedire, un accordo tra le parti.

Art. 10
Dato che chi scrive vede i licenziamenti quando le cose ormai sono andate male, è ovvio che la mia prospettiva sia viziata dal fatto che non ho mai visto funzionare un tentativo preventivo di conciliazione (altrimenti, è ovvio, il fascicolo non sarebbe arrivato sulla mia scrivania).
L’art. 10 è animato da ottime intenzioni e, sulla carta, appare essere un modo per deflazionare il contenzioso – che, peraltro e con tutta onestà, non è così drammatico come qualche anno or sono.
Lascio a chi si occupa di consulenza e difesa stragiudiziale ogni valutazione sull’opportunità di inserire questa previsione che, introdotta dalla legge n. 92/2012, era già stata ritenuta inutile tre anni dopo.

Sulle proposte non trasfuse nel testo
1. Si è già preso posizione commentando l’articolo.
2. La proposta del prof. Marazza appare decisamente fuori tempo massimo e poteva essere forse accolta una decina di anni fa quando, con il d.lgs. n. 23/2015, si era in pieno fervore anti – reintegrazione; oggi è del tutto contrastata dalle numerose sentenze sia della Consulta, sia della Cassazione che, come noto, hanno nuovamente ampliato la tutela reintegratoria (al punto da chiedersi che senso abbia il coevo orientamento in merito alla sospensione della prescrizione in corso di rapporto; ma qui si andrebbe fuori tema).
3. L’introduzione della categoria del licenziamento pretestuoso appare essere del tutto superflua. Chi si occupa della materia sa bene che il licenziamento è sempre motivato, anche se spesso il motivo non è quello scritto nella lettera di licenziamento; ma creare una figura apposita avrebbe ingenerato, a mio avviso, una certa confusione senza, comunque, alzare il livello di tutela.
Infatti, perché un licenziamento sia pretestuoso è necessario, prima di tutto, che il motivo addotto non sussista; e già questo porta alla reintegrazione. Oppure, il recesso potrebbe essere del tutto sproporzionato; ma, a questo punto, soccorre il concetto di motivo illecito; non si ritiene che il lavoratore sia del tutto disarmato in questo caso perché il fatto stesso che vi sia una evidente sproporzione è già un indizio di motivo illecito.
4. L’idea di unificare le figure di licenziamento individuale e collettivo nella categoria del licenziamento economico è sicuramente interessante, ma forse eccede l’idea sottesa al presente progetto di riforma che tende a semplificare e organizzare la disciplina, emendandola dagli errori. Si dovrebbe aprire un dibattito politico su tale scelta legislativa, in quanto essa non implica soltanto prospettive giuridiche, ma si traduce nel fissare un diverso livello di controllo del giudice sull’iniziativa economica del privato imprenditore.
5. Lo scrivente concorda, invece, sulla proposta dei proff. Perulli, Scarpelli e Speziale in merito alla reintegrazione nel caso di violazione dei criteri di scelta. Proprio ricollegandosi a quanto appena detto, in tal caso non vi è una valutazione nel merito delle scelte imprenditoriali, perché il giudice non entra nel merito della decisione aziendale; ma sicuramente è possibile controllare se vi sia un collegamento tra l’individuazione dei criteri di scelta (espressione, nei limiti della legge, della libertà imprenditoriale) e l’applicazione concreta degli stessi
In altri termini, la reintegrazione potrebbe essere giustificata dal fatto che si tratta di un errato uso dei poteri imprenditoriali che attiene solo alla persona del lavoratore e, più in generale, non presuppone la generale invalidità della procedura.
6. In merito alla proposta di escludere dalla disciplina limitativa alla reintegrazione le c.d. imprese minori ma assoggettate a un gruppo societario, lo scrivente, pur riconoscendo le ragioni che hanno portato i proff. Perulli, Scarpelli, Speziale e Zoli a sostenerla, ritiene che inserire una previsione di questo tipo avrebbe comportato rilevanti difficoltà processuali in merito alla prova di tale circostanza e difficili questioni in merito a che cosa si intenda per direzione o controllo.
7. Non si comprende a che cosa potrebbe servire una previsione come quella dell’art. 614 bis c.p.c., posto che l’ordine di reintegrazione è già coperto da un suo proprio astreinte, ossia il pagamento delle retribuzioni fino all’effettivo ripristino del rapporto di lavoro. È vero che l’indennità risarcitoria, nel caso di reintegrazione c.d. debole ha un tetto, ma nel momento in cui, seguendo l’orientamento più recente della Cassazione in merito in tema di cessione di azienda e somministrazione, gli importi dovuti al lavoratore sono da considerare retribuzione e non risarcimento del danno, non sarebbe applicabile l’art.1227 c.c.
In altri termini, la previsione di una forma di coercizione indiretta sarebbe, secondo me, un inutile doppione di quanto già c’è: prima della sentenza, c’è l’indennità risarcitoria e la possibilità di chiedere l’opzione; dopo la sentenza di reintegrazione, anche se il rapporto di lavoro viene ripristinato, al lavoratore spetteranno le retribuzioni che si andranno a cumulare con quelle che, eventualmente, percepirebbe da un altro rapporto di lavoro.

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