testo integrale con note e bibliografia

1. Introduzione
La breve riflessione di seguito prospettata prende le mosse dalla consolidata acquisizione, tanto in sede dottrinale quanto nella prassi istituzionale e aziendale, secondo cui la sostenibilità assurge a categoria assiale dell’ordinamento economico contemporaneo, innestandosi al crocevia tra interessi economici, istanze sociali e imperativi ambientali. È superata, sul piano teorico prima ancora che su quello operativo, una concezione dell’impresa quale mera organizzazione produttiva orientata alla massimizzazione del profitto (profit-oriented), isolata dal contesto sociale e ambientale in cui opera; al contrario, essa si configura sempre più come attore responsabile nei confronti della collettività e delle generazioni future , chiamato a perseguire un modello di sviluppo capace di coniugare crescita economica, equità sociale, giustizia sostanziale e tutela del bene comune. Come osservato in dottrina, tale mutamento segna il passaggio “da una concezione dell’impresa come luogo di produzione di ricchezza a una visione dell’impresa come istituzione della collettività” . In tale prospettiva, il concetto di agire responsabile diviene il fulcro attorno al quale si articola la strategia per uno sviluppo sostenibile ed integrale: in un contesto in cui ogni fenomeno è intimamente connesso e correlato all’altro, la sostenibilità si afferma come principio ordinante e trasversale, destinato a permeare l’intero spettro delle relazioni economico-sociali, generando una nuova forma di “coscienza giuridica” dell’agire economico, una vera e propria “bussola assiologica” per l’operatore d’impresa.
Il concetto di sostenibilità, in ragione dell’etimologia latina, richiama l’idea di sostenere, conservare, proteggere evocando immediatamente l’idea di tutela, di cura e di responsabilità. In chiave giuridico-economica, può dirsi sostenibile ciò che, valutato secondo il criterio del costo-opportunità, realizza i propri obiettivi senza trasferire su soggetti terzi – e in particolare sulle generazioni future – esternalità negative, in coerenza con il principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., letto in combinato disposto con l’art. 41 Cost. Come rilevato dalla dottrina , tale principio impone un dovere di cooperazione e di mutuo sostegno, traducendosi in obblighi concreti nella gestione d’impresa.
Ne discende una qualificazione della sostenibilità quale concetto intrinsecamente polisemico e multidimensionale capace di attraversare ambiti eterogenei – dall’economia al diritto, dalla politica all’ecologia – e di porre in evidenza la difficoltà di una disciplina unitaria, sia sul piano normativo che su quello operativo. Tale complessità emerge con particolare chiarezza nell’ambito del diritto del lavoro, ove la sostenibilità si intreccia con complicati equilibri come coniugare libertà d’impresa e tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori; ma anche il delicato bilanciamento fra esigenze di competitività e benessere organizzativo, nonché di coesione sociale.
Nell’attuale scenario globale, l’impresa sostenibile si pone dunque quale novum paradigmatico, espressione di un’evoluzione tanto strutturale quanto sostanziale delle pratiche aziendali, forgiata dalle urgenze poste dalle crisi ambientali, dall’acuirsi delle disuguaglianze e dalle trasformazioni sistemiche dell’economia. Originariamente ancorato alla dimensione ecologica (Rapporto Brundtland, 1987), il concetto di sostenibilità ha progressivamente ampliato il proprio raggio d’azione, inglobando le dimensioni economica e sociale e imponendo all’impresa obblighi che si qualificano non solo come economici, ma altresì come etici e giuridici.
Già la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’unione europea ha riconosciuto, in più occasioni, la necessità di bilanciare la libertà economica con obiettivi di tutela ambientale e sociale (v., tra le altre, CGUE, 10 dicembre 2009, causa C-205/08, Umweltanwalt von Kärnten), mentre in ambito interno la Corte costituzionale ha ribadito che la liberta d’iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. non è assoluta, ma incontra limiti e vincoli derivanti dalla tutela di interessi di rango costituzionale, quali la salute, l’ambiente e la dignità della persona (Corte cost., sent. n. 85/2013; n. 14/2019).
Il transito dalla Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) al paradigma dell’impresa sostenibile segna, pertanto, una cesura rilevante, non solo sul piano delle condotte, ma anche su quello dell’architettura giuridica che presidia l’attività economica. La sostenibilità assurge così a principio trasversale che informa la governance, la gestione delle risorse umane, la tutela dei diritti dei lavoratori, la responsabilità verso le comunità territoriali e la conduzione etica delle catene di fornitura; e ciò sotto l’egida di una giurisprudenza e di una normativa che, lungi dal restare inerti, si pongono quali fattori di indirizzo e regolazione. In tale quadro, la giurisprudenza giuslavoristica recente ha posto in rilievo come la qualità del lavoro e il benessere organizzativo siano componenti essenziali della sostenibilità aziendale (Cass., sez. lav., 4 dicembre 2020, n.27913) , rafforzando l’idea di un’impresa chiamata a realizzare un bilanciamento dinamico tra competitività e tutela dei diritti fondamentali.
Al riguardo l’utilizzo di un approccio economico, volto a indagare i paradigmi teorici e le dinamiche operative che guidano le imprese verso modelli sostenibili; e l’approccio giuridico, orientato a ricostruire l’evoluzione normativa e giurisprudenziale, con particolare attenzione alla correlazione tra sostenibilità e principio di solidarietà, nonché ai principi costituzionali sanciti dagli artt. 2 e 41 della Costituzione, possono condurre ad un dibattito accademico e professionale capace di dimostrare il ruolo della sostenibilità quale imperativo giuridico ed economico, radicato nei valori supremi dell’ordinamento costituzionale, capace di coniugare libertà economica e finalità sociali, verso la realizzazione di un modello di sviluppo durevole, inclusivo e socialmente giusto.

2. Dalla responsabilità sociale d’impresa all’impresa sostenibile: un approccio economico
L’itinerario concettuale che conduce dalla Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) al paradigma dell’Impresa Sostenibile si sviluppa lungo una linea di continuità che riflette, al tempo stesso, l’evoluzione delle teorie economiche e il consolidarsi di istanze etico-giuridiche. Nelle sue prime formulazioni, la RSI si presentava come un costrutto prevalentemente volontario, figlio di una stagione in cui l’impresa, pur non rinunciando alla massimizzazione del profitto, iniziava a riconoscere l’esistenza di obblighi morali e sociali nei confronti della collettività. Tali obblighi, tuttavia, si collocavano in una dimensione ancillare rispetto al core business, assumendo spesso le sembianze di interventi filantropici.
Il concetto de quo affonda le proprie radici nei primi decenni del Novecento, quando si iniziò a discutere della necessità che proprietà e management rispondessero non soltanto agli azionisti, ma anche ai lavoratori, ai consumatori e, in senso più ampio, alla collettività. Il dibattito si intensificò nella seconda metà del secolo, quando la trasformazione della struttura proprietaria — dal controllo familiare all’azionariato diffuso — rese centrale la questione dell’individuazione degli interessi da perseguire: il solo profitto degli azionisti o anche la tutela di valori sociali e ambientali.
Accanto alla visione riduttiva, sostenuta da parte della dottrina economica, che individuava nella RSI esclusivamente uno strumento di massimizzazione della ricchezza per i soci, si sviluppò una prospettiva più ampia. Secondo quest’ultima, pur restando soggetto economico, l’impresa è tenuta a considerare l’impatto delle proprie decisioni sull’occupazione, sul benessere sociale e sull’ambiente. In quest’ottica, la RSI si configura come un impegno volontario a integrare nelle strategie aziendali profili sociali, ambientali ed etici, oltre gli obblighi imposti dall’ordinamento.
Nel tempo, diversi modelli teorici hanno contribuito ad arricchire il dibattito, influenzando anche la riflessione giuridica. La Stakeholder Theory di Freeman ha messo in luce la necessità di bilanciare gli interessi di tutti i portatori di interesse — compresi quelli “silenziosi” come l’ambiente e le comunità locali — riconoscendo che la soddisfazione degli azionisti non può prescindere dal rispetto dei diritti degli altri soggetti coinvolti. La logica della Triple Bottom Line di Elkington ha proposto un sistema di misurazione delle performance basato su tre dimensioni integrate — economica (profit), sociale (people) e ambientale (planet) — concetto ripreso dalla Commissione Europea nel Libro Verde del 2001. Il modello del “valore condiviso” di Porter e Kramer ha, infine, evidenziato come le politiche aziendali possano e debbano generare, contemporaneamente, competitività e benefici socio-economici per il territorio.
A livello europeo, la RSI è stata inizialmente promossa come prassi volontaria, sostenuta da reti di imprese e organismi associativi, per poi essere progressivamente recepita in strategie pubbliche. Un passaggio importante si è avuto con la Renewed EU Strategy for Corporate Social Responsibility (2011) che ha delineato una visione più strutturata e ha riconosciuto il ruolo delle istituzioni nel creare un contesto regolatorio favorevole alla diffusione di pratiche responsabili. Tale evoluzione è stata in parte determinata dalla globalizzazione delle catene di fornitura, dall’innovazione tecnologica e dalle crisi di fiducia generate da scandali societari e finanziari.
Questo percorso ha condotto a un progressivo avvicinamento fra RSI e sviluppo sostenibile, inteso – secondo la definizione della Commissione Brundtland (1987) – come la capacità di soddisfare i bisogni presenti senza compromettere quelli delle generazioni future. L’ordinamento internazionale e quello europeo hanno fatto propri i principi di equità intergenerazionale e intragenerazionale, richiamandoli in documenti programmatici e standard di soft law, spingendo le imprese a integrarli nei propri modelli di governance. La nascita della Sustainability Science ha ulteriormente rafforzato questa impostazione, promuovendo un approccio transdisciplinare capace di superare la frammentazione delle competenze e di affrontare la complessità dei sistemi socio-ecologici con strumenti integrati.
In tale contesto si inserisce il concetto di impresa sostenibile quale soggetto economico che orienta strategie e operazioni ai principi dello sviluppo sostenibile, integrando obiettivi economici con finalità sociali e ambientali. L’impresa sostenibile adotta modelli organizzativi “ibridi”, in grado di coniugare esigenze di mercato e istanze del contesto territoriale, e di garantire il rispetto di diritti tutelati dall’ordinamento interno sia dalle fonti sovranazionali, come le convenzioni OIL e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Dal punto di vista giuslavoristico, l’impresa sostenibile è chiamata a garantire condizioni di lavoro sicure, inclusive e rispettose della dignità della persona, a promuovere politiche di welfare aziendale e di apprendimento continuo, a favorire la conciliazione vita-lavoro e a coinvolgere attivamente i sindacati nella definizione delle sustainability strategies. In questo quadro, la contrattazione collettiva diventa non solo uno strumento di regolazione delle condizioni di lavoro, ma anche di negoziazione di obiettivi di sostenibilità sotto diversi profili.
Il modello dell’impresa sostenibile si pone quindi in netta discontinuità con la logica dello shareholder value, che riduce la sostenibilità a fattore di efficienza produttiva. L’integrazione sociale dell’impresa valorizza invece il capitale umano e promuove un rapporto virtuoso con l’ambiente, inteso in senso ampio come contesto ecologico, economico e sociale. Ciò implica un diritto del lavoro resiliente ed elastico, capace di adattarsi e ricalibrare istituti e tutele alla luce delle trasformazioni tecnologiche, organizzative e ambientali.
Il paradigma dell’impresa sostenibile evoca in buona sostanza una vera e propria “pedagogia del lavoro”, fondata sull’equilibrio tra esigenze produttive e tutela dei diritti, tra competitività e coesione sociale. Il diritto del lavoro, in questa visione, non appare soltanto quale disciplina regolatrice delle relazioni industriali, ma si traduce in un vero presidio della dignità della persona che lavora e garanzia di uno sviluppo armonico, inclusivo e durevole, capace di coniugare uomo, lavoro e ambiente.

3. Lo sviluppo sostenibile: un approccio giuridico alla luce del principio di solidarietà
La nozione di sviluppo sostenibile – e la sua naturale proiezione nel paradigma dell’impresa sostenibile – si presta ad essere indagata, sul piano giuridico, attraverso la prospettiva offerta dai principi costituzionali. Sebbene i dodici articoli iniziali della Carta fondamentale non contengano un espresso riferimento a tale categoria, un’interpretazione sistematica e teleologica consente di rinvenire nelle disposizioni costituzionali un complesso di valori e di principi idonei a costituire parametro di orientamento per i rapporti economico-sociali. Tra questi, assume rilievo il principio di solidarietà sancito dall’art. 2 Cost., il quale – nella sua intrinseca dimensione antropocentrica – pone la persona al centro delle relazioni politiche, sociali ed economiche. Alla luce delle odierne sensibilità in tema di impatti ambientali e sociali dell’attività d’impresa, tale principio si configura quale parametro di orientamento dei comportamenti economicamente e socialmente responsabili, costituendo così fondamento imprescindibile per uno sviluppo sostenibile. La solidarietà, infatti, si esprime come dovere tanto individuale quanto collettivo, gravante non solo sui singoli ma sulla stessa Repubblica.
Per comprendere il legame tra solidarietà, responsabilità sociale d’impresa e sviluppo sostenibile, è opportuno richiamare il contesto storico-istituzionale del secondo dopoguerra. La crisi delle concezioni liberiste e la sfiducia nella sola “mano invisibile” del mercato determinarono, in quella fase, l’affermazione di un ruolo propulsivo dello Stato nell’economia. Ne derivò l’emersione di una vera e propria “costituzione economica”, volta a disciplinare la ripartizione di diritti e doveri tra Stato, imprenditori e lavoratori. È in tale assetto che il principio di solidarietà viene a intersecarsi con l’attività economica, imponendo di indagare il rapporto tra solidarietà e mercato, tra solidarietà e libertà di iniziativa privata, nonché le modalità attraverso le quali l’impresa possa incarnare e, a sua volta, essere arricchita da tale principio in una dinamica di reciproca fecondazione. Tale prospettiva appare coerente con la natura relazionale sia del sistema giuridico sia di quello economico.
Sul piano normativo, il punto di congiunzione tra mercato, iniziativa economica e solidarietà trova la sua massima espressione nel dialogo tra l’art. 2 e l’art. 41 Cost. Quest’ultimo – definito dalla dottrina come una delle disposizioni più moderne e vitali della Carta – sancisce la libertà di iniziativa economica privata, ma al contempo ne fissa i limiti invalicabili: l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana. La norma attribuisce altresì al legislatore il compito di indirizzare e coordinare l’attività economica, pubblica e privata, a fini sociali. Non a caso, la Corte costituzionale ha più volte ribadito come la libertà d’impresa debba essere bilanciata con altri diritti fondamentali, valorizzando la funzione sociale dell’iniziativa economica e la sua necessaria conformazione al principio solidaristico. Particolarmente significativo è, inoltre, il recente intervento costituzionale (L. Cost. 11 febbraio 2022, n.1 recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in matteria di tutela dell’ambiente”), con il quale il legislatore ha ritenuto necessario ascrivere all’interno dei principi fondamentali il dovere della Repubblica di tutelare «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali». Al contempo la modifica ha riguardato i commi 2 e 3 dell’art. 41della Costituzione, attraverso i quali è stata elevata la protezione dell’ambiente e della salute a limiti espressi alla libertà d’iniziativa economica. L’utilità sociale, già intesa quale clausola generale o “principio-valvola” dell’ordinamento, acquisisce così una valenza dinamica, capace di ricomprendere istanze mutevoli e di adattarsi a nuove esigenze, tra le quali quelle connesse allo sviluppo sostenibile.
Il principio di solidarietà, per la sua natura trasversale, permea le molteplici dimensioni della vita collettiva e funge da cardine del rapporto tra individuo e comunità, intesa quale sistema politico, sociale, economico e ambientale. Con specifico riferimento all’impresa, appare significativa la distinzione dottrinale tra solidarietà “nell’impresa” e solidarietà “dell’impresa” . La prima concerne i rapporti interni all’organizzazione economica – come la tutela dei lavoratori e della sicurezza nei luoghi di lavoro – nei quali la solidarietà si manifesta nella relazione tra datore e prestatore, nonché tra gli stessi lavoratori. La seconda, che più direttamente rileva rispetto al tema dello sviluppo sostenibile, attiene invece all’incidenza dell’attività economica sull’ambiente esterno, ossia agli impatti che essa produce sugli stakeholder e, più in generale, sulla collettività. È in questa dimensione che la solidarietà si concretizza nella capacità dell’impresa di generare esternalità positive e di orientare la propria attività a fini di utilità sociale. Tale impostazione si raccorda con la nozione internazionale di sviluppo sostenibile delineata dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che individua tre dimensioni – economica, sociale ed ambientale – perfettamente sovrapponibili alle tre declinazioni di solidarietà (politica, economica e sociale) riconosciute dalla nostra Costituzione.
Si può allora affermare che la solidarietà, lungi dall’essere una clausola meramente etica, si configura come principio giuridico che impone all’attività d’impresa di conciliare la libertà economica con la responsabilità sociale e ambientale, in un’ottica di bilanciamento dinamico tra interessi individuali e collettivi, presenti e futuri. Il riferimento esplicito alle generazioni future inserito nel nuovo testo dell’art. 9 della Costituzione segna, infatti, il superamento di una prospettiva esclusivamente antropocentrica, proiettando il principio di solidarietà oltre i confini temporali della collettività presente. Lo sviluppo sostenibile si radica così in un dovere di solidarietà non soltanto “orizzontale” – verso gli altri consociati – ma anche “verticale”, verso chi verrà .
L’agire solidale dell’impresa si traduce, dunque, nella capacità di orientare le strategie aziendali alla produzione di utilità sociale, non soltanto mediante il rispetto delle prescrizioni normative, ma anche attraverso pratiche volontarie di responsabilità sociale. In questa prospettiva, la responsabilità sociale d’impresa rappresenta una forma qualificata di solidarietà dell’impresa, ormai sempre più integrata nelle strategie aziendali e divenuta elemento strutturale di una nuova concezione del ruolo imprenditoriale. Non a caso, l’Unione europea, già con il Libro Verde della Commissione del 2001, ha offerto un inquadramento organico alla materia, definendo la RSI come l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate. In tal senso, la RSI e l’agire sostenibile dell’impresa, pur nascendo come pratica volontaria, si colloca nell’alveo del diritto costituzionale, quale forma di solidarietà dell’impresa verso gli stakeholder che inevitabilmente contribuisce in modo determinante al perseguimento degli obiettivi di sviluppo nelle sue tre dimensioni essenziali: economica, sociale ed ambientale.
4. Conclusioni
Come si è cercato di dimostrare, è riduttivo considerare la sostenibilità quale mera strategia gestionale, mentre appare più coerente contemplarla quale principio ordinante dell’agire economico, radicato nel dettato costituzionale e naturalmente discendente dal principio di solidarietà. Essa si traduce, pertanto, in un dovere giuridico, oltre che etico, che permea tanto i rapporti interni all’impresa quanto quelli esterni con la collettività, orientando l’attività economica verso obiettivi di utilità sociale, tutela ambientale e rispetto della dignità della persona.
Perché ciò avvenga, tuttavia, non è sufficiente un adeguamento formale agli obblighi normativi o una mera adesione, talvolta di facciata, a pratiche di responsabilità sociale. È necessaria, dunque, una vera e propria ri-educazione degli operatori economici, finalizzata a diffondere un nuovo “saper fare impresa” improntato alla sostenibilità integrale. Non si tratta di limitarsi alla dimensione ambientale – pure essenziale – ma di abbracciare una concezione olistica di sostenibilità che comprenda il rispetto dei lavoratori, l’osservanza delle regole fiscali e di legalità, la tutela dei diritti fondamentali, l’attenzione umanitaria verso i rapporti sociali. In questo senso, la sostenibilità si configura come una categoria relazionale, che ha nella qualità dei rapporti umani il suo nucleo fondativo.
Tale obiettivo può essere perseguito soltanto se il principio di solidarietà diventa non solo parametro interpretativo, ma anche criterio operativo, capace di tradursi in strumenti concreti di regolazione. A tal fine, un ruolo decisivo può essere svolto dalla contrattazione collettiva, quale veicolo per rendere obbligatori percorsi formativi rivolti a imprenditori e management, volti a consolidare la cultura della sostenibilità integrata. Al riguardo, esemplare è l’esperienza del settore pubblico che nel dare seguito agli intenti dichiarati nel PNRR ed esplicitati, successivamente, nel dl 80/2021, ha accettato la sfida di riprogettare i processi – tanto emotivi quanto operativi – di gestione della macchina amministrativa, puntando tutto sulla valorizzazione del capitale umano, sulla creazione di percorsi virtuosi, sulla formazione continua e di qualità. Il tema della sostenibilità s’intreccia qui con la necessità di creare una PA di qualità, attenta al benessere dei propri dipendenti e, più in generale, dei consociati. Tant’è che si parla oggi di “dirigenza sostenibile”, una dirigenza capace di accogliere un management umanistico , che sappia valorizzare e tutelare gli attori coinvolti, e riconoscere i reali bisogni di ogni amministrazione.
In tal modo, lo sviluppo sostenibile non rimane un enunciato programmatico, ma si realizza come processo educativo e strutturale, capace di incidere realmente sulla prassi economica e sociale.
Spetterà agli attori istituzionali, alle parti sociali e agli operatori economici raccogliere questa sfida, trasformando la sostenibilità in un criterio di civiltà giuridica ed economica, in grado di assicurare uno sviluppo durevole, equo e profondamente umano.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.