testo integrale con note e bibliografia

I. INTRODUZIONE
In questo breve scritto si proverà a prospettare, in un quadro ancora da esplorare ed in divenire, alcuni spunti di riflessione su due diligence, diritto del lavoro e licenziamenti .
Com’è noto, la recente Direttiva (UE) 2024/1760 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 giugno 2024 (relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, e che modifica la Direttiva UE 2019/1937 ed il Regolamento UE 2023/2859)  ha dato impulso alla espansione dello strumento della due diligence in materia di diritti umani, la cui ribalta sulla scena internazionale è riconducibile ai Principi guida ONU in materia di imprese e diritti umani, adottati all’unanimità dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite nel 2011 .
Le iniziative dei legislatori nazionali che hanno introdotto obblighi di due diligence, come la legge francese del 2017 sul dovere di vigilanza e la legge tedesca sugli obblighi di cura nelle catene di approvvigionamento del 2021 , hanno generato, e generano, in capo alla dottrina giuslavoristica un sempre maggiore interesse per il tema.
L’interesse è divenuto campo di gioco con l’adozione della richiamata Direttiva (UE) 2024/1760, sicché la due diligence va presa sul serio in ambito giuslavoristico .
Volendo ricorrere ad un approccio in grado di tranquillizzare ex ante, ma pur sempre parzialmente, le imprese e le rispettive associazioni rappresentative, vale la pena ricordare che le misure della richiamata Direttiva, una volta recepite, troveranno applicazione ex art. 2 solo a grandi imprese di particolare entità .
Il problema tuttavia deve porsi, allo stesso modo in cui lo si è già posto in altri settori financo all’interno della medesima materia, ed anzi, come è stato opportunamente rilevato dalla dottrina, l’applicazione della due diligence da parte delle imprese diventa “standard di condotta” .
L’ottica del presente contributo è speculare: la due diligence nella prospettiva del datore di lavoro e la funzionalità della medesima alla tutela dei diritti umani e fondamentali dei lavoratori, con alcune riflessioni sulla materia particolare dei licenziamenti e sulle possibili insidie per i datori di lavoro nella elaborazione delle rispettive policy.

II. IL RISCHIO DI LESIONE DEI DIRITTI UMANI E FONDAMENTALI DEI LAVORATORI
Nell’ottica seguita nel presente scritto, va detto che la due diligence rappresenta uno strumento fondato sull’analisi e sulla gestione dei rischi .
In tal senso, il concetto di due diligence è noto da tempo in vari settori del diritto, con significati tuttavia parzialmente diversi tra loro e, soprattutto, diversi dal significato proprio della due diligence in materia di diritti umani.
Quel che qui principalmente rileva è la prospettiva bifronte della due diligence.
Rispetto alle procedure già note, l’analisi sollecitata dalla Direttiva (UE) 2024/1760 mira in via primaria ad identificare e mitigare i rischi delle attività dell’impresa per i diritti dei terzi e dei lavoratori in primis.
Detta analisi, nondimeno, nella prospettiva datoriale mira a sua volta a mitigare i rischi per l’impresa stessa e le connesse misure e sanzioni, la cui determinazione, secondo principio di sussidiarietà, è rimessa alle autorità nazionali, ma con rilevanti vincoli imposti già dalla Direttiva stessa.
Lo spettro di esposizione delle imprese risulta peraltro ampio, se si considera che la Direttiva prevede inter aliis: misure preventive degli impatti negativi potenziali (ex art. 10); misure di arresto degli impatti negativi effettivi (ex art. 11); misure di riparazione degli impatti negativi effettivi (ex art. 12); sanzioni (ex art. 27); responsabilità civile delle società e diritto al pieno risarcimento (ex art. 29).
Approcci alla regolazione basati sul rischio (c.d. risk-based approaches to regulation) sono già utilizzati in diversi settori che insistono sulla materia giuslavoristica.
Si pensi, ad esempio, alla salute ed alla sicurezza sul lavoro, alla tutela dell’ambiente, alla privacy, alla intelligenza artificiale.
Le caratteristiche principali di tali approcci sono riscontrabili anche nel caso di specie, tra cui i c.d. 4 core elements individuati in seno al framework negli studi OCSE:
1) la determinazione, da parte della organizzazione interessata, della rispettiva propensione al rischio, ovverosia del tipo e del livello di rischi che è disposta a tollerare;
2) la valutazione del pericolo o dell’evento avverso e della probabilità che si verifichi;
3) l’assegnazione di punteggi e/o classifiche alle imprese o alle attività sulla base delle valutazioni dei rischi;
4) il collegamento tra l’organizzazione e le risorse di vigilanza, ispezione ed imposizione ( ).
Risultano di particolare interesse, in questa sede, gli elementi 1 e 2 del superiore framework, gli ulteriori risultando rimessi ai link con le autorità competenti.
La conferma dell’approccio seguito è rinvenibile nell’art. 7 (“Integrazione del dovere di diligenza nelle politiche e nei sistemi di gestione dei rischi della società”) della Direttiva (UE) 2024/1760, secondo il cui par. 1:
«1. Gli Stati membri provvedono a che ciascuna società integri il dovere di diligenza in tutte le sue pertinenti politiche e i suoi pertinenti sistemi di gestione dei rischi e abbia predisposto una politica relativa al dovere di diligenza che garantisca un dovere di diligenza basato sul rischio».
La previsione è, poi, subito affiancata (ai parr. 2 e 3) dalla necessità di dialogo sociale, ovverosia dall’obbligo di consultazione con i dipendenti ed i loro rappresentanti, nonché dall’obbligo di aggiornamento e revisione delle policy:
«2. La politica relativa al dovere di diligenza di cui al paragrafo 1 è elaborata previa consultazione con i dipendenti della società e i loro rappresentanti e prevede tutti gli elementi seguenti:
a) una descrizione dell’approccio della società al dovere di diligenza, anche a lungo termine;
b) un codice di condotta che illustri le norme e i principi cui devono attenersi l’intera società e le sue filiazioni, nonché i partner commerciali diretti o indiretti della società, in conformità dell’articolo 10, paragrafo 2, lettera b), dell’articolo 10, paragrafo 4, dell’articolo 11, paragrafo 3, lettera c), o dell’articolo 11, paragrafo 5; e
c) una descrizione delle procedure predisposte per l’integrazione del dovere di diligenza nelle pertinenti politiche della società e per l’esercizio del dovere di diligenza, comprese le misure adottate per verificare il rispetto del codice di condotta di cui alla lettera b) e per estenderne l’applicazione ai partner commerciali.
3. Gli Stati membri provvedono a che ciascuna società aggiorni le rispettive politiche relative al dovere di diligenza senza indebito ritardo dopo il verificarsi di un cambiamento significativo e riesamini e, se necessario, aggiorni tali politiche almeno ogni 24 mesi […]».
Si tratta, di un obbligo di informazione e consultazione, senza dunque un obbligo espresso di negoziazione, ma rafforzato dalla prescrizione dello «svolgimento di un dialogo significativo con i portatori di interessi», ai sensi degli artt. 5 e 13 della Direttiva.
Un primo problema da affrontare nell’approccio basato sul rischio è rappresentato, secondo il framework richiamato, dalla determinazione, da parte della organizzazione interessata, della rispettiva propensione al rischio, ovverosia del tipo e del livello di rischi che è disposta a tollerare.
La letteratura suggerisce che, nella pratica, la tolleranza al rischio risulta spesso determinata da considerazioni politiche, nel senso che maggiore è la percezione sociale (da parte della politica, dei media, del pubblico) di un determinato rischio, minore sarà il suo livello di accettabilità e tolleranza ( ).
Inoltre, nello stabilire il livello di tolleranza, le imprese potrebbero effettuare anche valutazioni relative al rischio di contenzioso.
In tal senso, si potrebbe ipotizzare che il livello di tolleranza sia minore per quegli impatti potenziali che, qualora si verifichino, abbiano maggiori probabilità di condurre ad una esposizione.
La Direttiva, ad esempio, prevede una serie di misure, forme di responsabilità e sanzioni che potrebbero essere evitate o contenute attraverso il corretto adempimento della due diligence.
Da questo punto di vista, la possibilità di essere destinatarie di misure, forme di responsabilità e sanzioni potrebbe indurre le imprese a regolare di conseguenza, verso l’alto o verso il basso, la propria propensione al rischio.
E, a prescindere dalle specifiche ipotesi di responsabilità previste dalla Direttiva, nei confronti di pregiudizi potenziali che sono destinati ad incrementarsi in corso di giudizio il livello di accettabilità e tolleranza non potrà fare a meno di considerare un istituto come la prescrizione ( ).
Né potranno trascurarsi, una volta azionate le pretese ed ai fini della commisurazione della esposizione nel tempo, le statistiche sulla durata dei procedimenti giurisdizionali ( ).
Il secondo elemento del framework, come anzidetto, concerne la valutazione del pericolo o dell’evento avverso e della probabilità che si verifichi.
Sul punto non appare del tutto convincente l’opinione dottrinale secondo cui il Legislatore europeo, sul modello di quello tedesco, avrebbe optato per un approccio basato sulla tassatività dei rischi ( ).
Anzitutto è lo stesso Legislatore europeo a dilatare le maglie anche ai rischi non espressamente previsti.
Già il 32esimo considerando della Direttiva prevede quanto di seguito:
«(32) La presente direttiva mira a includere tutti i diritti umani, compresi tutti e cinque i principi e diritti fondamentali nel lavoro quali definiti nella Dichiarazione dell’ILO del 1998 sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro. Per apportare un contributo significativo alla transizione verso la sostenibilità, il dovere di diligenza ai sensi della presente direttiva dovrebbe essere esercitato in relazione agli impatti negativi in termini di diritti umani sulle persone causati dall’abuso di uno dei diritti sanciti dagli strumenti internazionali elencati nella parte I, sezione 1, dell’allegato della presente direttiva. Il termine «abuso» dovrebbe essere interpretato in linea con il diritto internazionale dei diritti umani. Per includere tutti i diritti umani, dovrebbe rientrare negli impatti negativi sui diritti umani contemplati dalla presente direttiva anche l’abuso di un diritto umano non elencato espressamente nella parte I, sezione 1, dell’allegato della presente direttiva, che può essere perpetrato da una società o da un soggetto giuridico e che pregiudichi direttamente un interesse giuridico tutelato dagli strumenti in materia di diritti umani elencati nella parte I, sezione 2, dell’allegato della presente direttiva, purché la società in questione fosse ragionevolmente in grado di prevedere il rischio di tale abuso dei diritti umani, tenendo conto di tutte le circostanze pertinenti del caso specifico, comprese la natura e la portata delle attività commerciali della società e della rispettiva catena di attività, il settore economico e il contesto geografico e operativo. Il dovere di diligenza dovrebbe inoltre comprendere gli impatti ambientali negativi causati dalla violazione di uno dei divieti o degli obblighi elencati nella parte II dell’allegato della presente direttiva, nonché gli impatti negativi causati dalla violazione di uno dei divieti elencati nella parte I, punti 15 e 16, dell’allegato della presente direttiva tenendo conto della legislazione nazionale connessa alle disposizioni degli strumenti elencati in tale allegato. Tali divieti e obblighi dovrebbero essere interpretati e applicati in linea con il diritto internazionale e con i principi generali del diritto ambientale dell’Unione di cui all’articolo 191 TFUE. Tali divieti comprendono il divieto di causare qualsiasi degrado ambientale misurabile, quali cambiamenti nocivi del suolo, inquinamento idrico o atmosferico, emissioni nocive, consumo eccessivo di acqua, degrado del suolo o qualsiasi altro effetto sulle risorse naturali, come la deforestazione, che comprometta sostanzialmente le basi naturali per la conservazione e la produzione di alimenti, o che privi una persona dell’accesso ad acqua potabile sicura e pulita, o che ostacoli l’accesso di una persona ai servizi sanitari o distrugga questi ultimi, o che leda la salute e la sicurezza di una persona, il normale uso di un terreno o dei beni acquisiti legalmente da parte di una persona, o che incida negativamente in modo sostanziale sui servizi ecosistemici attraverso i quali un ecosistema contribuisce direttamente o indirettamente al benessere delle persone. Al fine di valutare se il danno ai servizi ecosistemici sia sostanziale, dovrebbero essere presi in considerazione, se del caso, i seguenti elementi: le condizioni originarie dell’ambiente colpito, indipendentemente dal fatto che il danno sia a lungo, medio o breve termine, la diffusione del danno e la reversibilità del danno. Gli obblighi relativi al dovere di diligenza previsti dalla presente direttiva dovrebbero pertanto contribuire a preservare e ripristinare la biodiversità e a migliorare lo stato dell’ambiente, in particolare dell’aria, dell’acqua e del suolo, anche per tutelare meglio i diritti umani. Alla Commissione dovrebbe essere conferito il potere di adottare atti delegati per modificare l’allegato della presente direttiva per le finalità di cui all’articolo 3, paragrafo 2, anche aggiungendo il riferimento, una volta ratificati da tutti gli Stati membri, alla convenzione dell’ILO sulla salute e la sicurezza sul lavoro del 1981 (n. 155) e al quadro promozionale dell’ILO per la sicurezza e la salute sul lavoro del 2006 (n. 187), che fanno parte degli strumenti fondamentali dell’ILO».
Il punto di partenza è sicuramente rappresentato dai 5 principi e diritti fondamentali nel lavoro definiti nella Dichiarazione dell’OIL del 1998:
a) libertà di associazione e riconoscimento effettivo del diritto di contrattazione collettiva;
b) eliminazione di ogni forma di lavoro forzato o obbligatorio;
c) abolizione effettiva del lavoro minorile;
d) eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professione;
e) un ambiente di lavoro sicuro e salubre.
Accanto ai suddetti vi sono ulteriori diritti e principi espressamente menzionati e tutelati dalla Direttiva, in seno ai quali meritano particolare menzione:
• il diritto di godere di giuste e favorevoli condizioni di lavoro, tra cui un equo salario e un salario atto a garantire condizioni di vita dignitosa per i lavoratori dipendenti e un reddito di sussistenza per i lavoratori autonomi e i piccoli coltivatori, guadagnato in cambio del loro lavoro e della loro produzione, un’esistenza decorosa, la sicurezza e l’igiene del lavoro e una ragionevole limitazione delle ore di lavoro, interpretato in linea con gli articoli 7 e 11 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali;
• il divieto di limitare l’accesso dei lavoratori a un alloggio adeguato, se vivono in alloggi forniti dalla società, nonché a un’alimentazione, a un vestiario e a servizi idrici e igienico sanitari adeguati sul luogo di lavoro, interpretato in linea con l’articolo 11 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali;
• l’età minima sul lavoro;
• il divieto delle forme peggiori di lavoro minorile;
• il diritto di sciopero.
La stessa Direttiva prevede poi espressamente all’art. 3 («Definizioni») che il disciplinato «impatto negativo sui diritti umani» è l’«impatto su persone causato da:
i) un abuso di uno dei diritti umani elencati nell’allegato della presente direttiva, parte I, sezione 1, in quanto tali diritti umani sono sanciti dagli strumenti internazionali elencati nell’allegato della presente direttiva, parte I, sezione 2;
ii) un abuso di un diritto umano non elencato nell’allegato della presente direttiva, parte I, sezione 1, ma sancito dagli strumenti in materia di diritti umani elencati nell’allegato della presente direttiva, parte I, sezione 2, a condizione che:
- il diritto umano possa essere oggetto di abuso da parte di una società o di un soggetto giuridico;
- l’abuso del diritto umano pregiudichi direttamente un interesse giuridico tutelato dagli strumenti in materia di diritti umani elencati nell’allegato della presente direttiva, parte I, sezione 2; e
- la società sia stata ragionevolmente in grado di prevedere il rischio che tale diritto umano potesse essere leso, considerate le circostanze del caso specifico, compresi la natura e la portata delle attività commerciali della società e la sua catena di attività, le caratteristiche del settore economico e il contesto geografico e operativo».
La prospettazione delle possibili lesioni ai diritti umani non appare dunque rigidamente ancorata alla elencazione contenuta nell’allegato alla Direttiva, parte I, sezione 1, ma risulta dinamicamente aperta ai diritti umani ricompresi negli ampi strumenti di tutela annoverati nella parte I, sezione 2:
« - Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici
- Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali
- Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza
- Convenzioni fondamentali dell’Organizzazione internazionale del lavoro:
- Convenzione concernente la libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale, 1948 (n. 87);
- Convenzione sul diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva, 1949 (n. 98);
- Convenzione sul lavoro forzato, 1930 (n. 29) e relativo protocollo del 2014;
- Convenzione concernente l’abolizione del lavoro forzato, 1957 (n. 105);
- Convenzione sull’età minima, 1973 (n. 138);
- Convenzione relativa alla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile, 1999 (n. 182);
- Convenzione sull’uguaglianza di retribuzione, 1951 (n. 100);
- Convenzione concernente la discriminazione in materia di impiego e di professione, 1958 (n. 111)».
La finalità auspicata, lungi dall’ingessare le possibilità di tutela, appare dunque quella tracciata dal 32esimo considerando, di tutelare «tutti i diritti umani».

III. IL COINVOLGIMENTO DELLA MATERIA DEI LICENZIAMENTI
Tra le fonti indicate nella sezione 2 della parte I risulta di particolare interesse, nell’ottica seguita nel presente scritto, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore il 3 gennaio 1976 (con autorizzazione alla ratifica ed ordine di esecuzione in Italia dati con Legge n. 881 del 25 ottobre 1977).
Detto Patto internazionale, ai sensi del rispettivo art. 6, riconosce il primo tra tutti i diritti in materia di lavoro, cioè il «diritto al lavoro, che implica il diritto di ogni individuo di ottenere la possibilità di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente scelto od accettato», cui fa da contraltare l’obbligo per gli Stati membri di prendere «le misure appropriate per garantire tale diritto».
A detto diritto fa eco il diritto di parità di «accesso all’impiego», scolpito, ai sensi degli artt. 1 e 2, nella Convenzione OIL n. 111/1958 sulla discriminazione in materia di impiego e nelle professioni.
Manca nella Direttiva una menzione espressa del diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, viceversa previsto nell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Eppure l’istituto del licenziamento, sia individuale, sia collettivo, ha rilevanza cruciale nella due diligence in materia di diritto del lavoro.
Rappresenta, anzi, insieme alle operazioni straordinarie ed alle operazioni effettuate secondo gli strumenti di gestione previsti dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, il terreno di maggiore delicatezza e possibile esposizione per l’impresa in materia giuslavoristica.
Il quesito è: rientra negli obblighi di due diligence previsti dalla Direttiva?
La risposta deve intendersi affermativa laddove si creino impatti negativi sui diritti umani tutelati dalla Direttiva stessa.
Emblematica appare in tal senso la figura del licenziamento discriminatorio in relazione alle condizioni di lavoro od alla appartenenza ad una organizzazione sindacale od all’esercizio del diritto di sciopero.
Tra l’altro, com’è noto, si tratta della figura che nell’ordinamento interno riceve tutela reale nella massima ampiezza, esponendo il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al risarcimento commisurato alle retribuzioni dal momento del licenziamento a quello della reintegrazione (dedotto l’aliunde perceptum).
Più complessa e sfumata, in via interpretativa, risulta l’ascrivibilità del licenziamento ingiustificato tout court agli obblighi ed alle sanzioni previsti dalla Direttiva.
Si ricorda, a tal fine, che la tutela contro il licenziamento ingiustificato è scolpita nell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali»).
E non si può fare a meno di evidenziare che la stessa Direttiva, sia pure nel primo considerando, richiama espressamente la Carta dei diritti fondamentali dell’UE:
«Come stabilito dall’articolo 2 del trattato sull’Unione europea (TUE), l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. I valori fondamentali, che hanno ispirato la creazione stessa dell’Unione, l’universalità e l’indivisibilità dei diritti umani e il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale dovrebbero guidare l’azione dell’Unione sulla scena internazionale. Tale azione comprende la promozione dello sviluppo economico, sociale e ambientale sostenibile dei paesi in via di sviluppo».
Per contro, non figura tra le fonti di cui alla parte I, sezione II, la Convenzione OIL n. 158/1982 sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro.
Si tratta, peraltro, di convenzione non ratificata dall’Italia (a differenza della Francia ad esempio), e che ha dato luogo a numerosi contrasti anche in seno alla stessa OIL ( ).
A prescindere dalla sussistenza o meno del predetto obbligo e delle corrispondenti future sanzioni, oggi la due diligence in materia di licenziamenti appare ineludibile per le imprese, ed anzi la rispettiva analisi rientra tra le massime priorità in seno alla richiamata valutazione dei rischi.
Quanto precede a fortiori in caso di licenziamenti collettivi o di cessazioni per fine appalti.
In tal senso, la dottrina ha evidenziato che le clausole sociali degli appalti rappresentano in qualche misura l’antesignano dei moderni strumenti di controllo della sostenibilità sociale e due diligence, «come tecnica già collaudata per creare vincoli sociali dinamici e responsabilizzazione delle filiere» ( ).
Come pure è stato osservato, in una prospettiva olistica della “funzione sociale” dell’attività di impresa, la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Direttiva UE 2024/1760 sulla due diligence), la Corporate Sustainability Reporting Directive (Direttiva UE 2022/2464 sulla rendicontazione di sostenibilità, già recepita in Italia con D. Lgs. n. 125/2024) e le clausole sociali «innervano quel modello di economia sociale caratterizzata dalla necessità di gestire le aziende, oltreché le risorse e le istituzioni economiche, dando priorità agli interessi sociali» ( ).
Ancora, sempre in tema di licenziamenti e due diligence può risultare interessante richiamare l’art. 4-ter D.L. n. 4/2024, che ha introdotto in via sperimentale per il biennio 2024-2025 specifiche misure di politica attiva incentivate in favore delle nuove realtà produttive, con un organico complessivamente pari o superiore a 1.000 dipendenti, derivanti da aggregazioni di imprese (risultanti da operazioni societarie quali fusioni, cessioni, conferimenti, acquisizioni di aziende o di rami di esse). Il presupposto per ricorrere agli incentivi è il raggiungimento di un accordo in sede governativa con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, le loro RSA o la RSU, su un progetto industriale e di politica attiva volto a superare le difficoltà del settore in cui opera l’impresa e ad assicurare ai lavoratori la formazione e riqualificazione necessarie per conservare l’occupazione o transitare in un nuovo impiego. Per ciascun lavoratore cui siano garantite almeno 200 ore di formazione spetta all’impresa uno sgravio contributivo del 100% per un massimo di 24 mesi. Il datore di lavoro, tuttavia, è tenuto a non ricorrere per almeno 48 mesi a licenziamenti per g.m.o. e collettivi, pena l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria pari al doppio dell’esonero contributivo fruito limitatamente ai lavoratori interessati dalla violazione.
Si tratta di misura che, da un lato, si colloca nel ventaglio delle assunzioni agevolate, dall’altro, se ne distingue per la particolare rilevanza e per l’effetto dissuasivo delle previste sanzioni, che, in funzione degli impatti negativi derivanti dalla distruzione di occupazione per effetto di licenziamenti economici, oltre che delle previste sanzioni, non appare trascurabile nelle policy aziendali di due diligence.
La due diligence, peraltro, oltre che essere pensata per la funzione sociale e di sostenibilità dell’impresa, inevitabilmente rileva anche nei rapporti interni, in riferimento alla responsabilità dei dirigenti o dei preposti che non la abbiano tenuta.
Anche in questo caso la due diligence presenta un inevitabile nesso con la disciplina dei licenziamenti, e la rispettiva consistenza è rimessa al vaglio del giudice di merito ( ).

IV. CONCLUSIONI
Nel volere tratteggiare delle conclusioni ai ragionamenti sin qui prospettati, si proverà di seguito ad indicare una possibile via per il superamento di alcune delle criticità che prevedibilmente emergeranno nella implementazione della due diligence.
Il pericolo principale, come già evidenziato dalla dottrina ( ), è che la sostanziale unilateralità delle procedure di due diligence comporti un certo slittamento dell’attenzione dai rischi primari (l’impatto delle imprese sui diritti dei terzi) ai rischi secondari (le conseguenze reputazionali e legali per le imprese stesse).
In questo senso, i codici di condotta eventualmente adottati, specialmente se su base volontaria, corrono il rischio di rispondere ad assetti valoriali confezionati su misura per le aziende, a tutela della rispettiva reputazione, della rispettiva immagine ed in ottica preventiva del contenzioso.
Questo pericolo va di certo scongiurato, laddove sostanzialmente si riverberi in negativo sulla dovuta attenzione verso i diritti dei terzi (lavoratori ed organizzazioni sindacali in primis, ma anche portatori degli interessi connessi alle attività esercitate, ad esempio di tipo ambientale, industriale, economico, sociale, solidaristico).
Ed allora la ricetta non può che passare, giusta le previsioni dell’art. 13 della Direttiva, attraverso il “dialogo significativo” con gli stakeholders e la consultazione di esperti «in grado di fornire informazioni credibili sugli impatti negativi effettivi o potenziali» delle policy adottate, tenendo sempre conto che, come ricordato dal primo considerando della Direttiva sulla scorta dell’art. 2 TUE, «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».

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