TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Sarebbe un nonsenso oggi parlare di diritti sindacali e di effettività della tutela sindacale nei luoghi di lavoro senza una breve premessa sul mutato contesto economico e politico globale dell’ultimo decennio.
Il rischio che si corre, diversamente ragionando, è quello di trattare in modo anacronistico un tema che, per vocazione, è strettamente connesso al tessuto economico e sociale in cui esso si innesta e da cui trae origine.
Lo scenario internazionale appare caratterizzato da un repentino susseguirsi di eventi che vanno dalle grandi trasformazioni di inizio secolo ai più recenti conflitti geo-politici ed economici (si pensi anche alle nuove questioni economiche indotte dalla recente «guerra dei dazi») .
E proprio a partire dall’inizio della seconda decade del nuovo millennio, i singoli Stati e l’UE hanno dovuto fronteggiare una convergenza di crisi mai conosciuta prima d’ora (seguendo una rotta politica crisis-driven): dalla crisi pandemica a quella climatica, dalla crescita incontrollata dell’inflazione alla digitalizzazione, per giungere fino alla diffusione dei sistemi di algorithmic management (d’ora in poi AM) e dell’uso dell’Intelligenza artificiale (d’ora in poi IA) .
Tutto ciò ha anche portato con sé il sorgere di nuove ineguaglianze ma anche l’accentuarsi delle vecchie.
Di certo, sullo sfondo, un comune denominatore di questi fenomeni si può rintracciare nella cosiddetta iper-globalizzazione, intesa nel senso di “una globalizzazione incontrollata, dominata dalla logica del predominio del libero mercato come archetipo autosufficiente” , che ha inciso profondamente soprattutto sulle dinamiche interne del mercato del lavoro .
I cambiamenti innescati sono stati di tipo produttivo a causa delle consistenti trasformazioni dei sistemi e dei processi industriali dovute allo sviluppo tecnologico ; e per il maggiore impiego di manodopera nel settore del terziario. Ma si è trattato anche di mutamenti qualitativi e quantitativi.
Il volto del lavoro, insomma, è trasformato seguendo un trend che rischia di essere accentuato, sia per le ristrutturazioni determinate dalla crescente digitalizzazione, dai sistemi di AM e dalla “transizione verde” dell’economia, sia per gli effetti prodotti dall’inverno demografico .
Rispetto a tale scenario, anche le diverse forme di tutela sindacale non hanno potuto non registrare un cambiamento di paradigma. È stato messo in discussione il tradizionale ruolo svolto dal sindacato nell’ambito dei processi di mediazione politica e si è indebolita la sua capacità rappresentativa a causa della sempre più multiforme composizione della base associativa, anche in termini spazio-temporali .
È ormai certo che il rispecchiamento degli interessi tra sindacato e lavoratori, all’interno delle aziende, non risponda più alle logiche dell’identità di un gruppo sociale predefinito.
La diversificazione e la molteplicità delle attività produttive, la trasformazione delle tecniche di produzione, la variegata realtà dei tipi e dei modelli di contratti (e ciò sia tra le imprese sia nei rapporti tra lavoratori e imprese), oltre alla proliferazione di profili professionali non più coincidenti con i tradizionali inquadramenti contrattuali , si traducono nell’indecifrabilità degli interessi sottesi alle singole esigenze dei lavoratori .
Da qui emerge il rischio che, senza la programmazione di una strategia inclusiva, il sindacato rifletta solo un’immagine sbiadita del reale e complesso universo dei lavoratori.
E sorge spontanea la domanda se, nell’era delle grandi transizioni, i diritti sindacali in azienda siano ancora in grado di garantire l’effettività della tutela delle persone che lavorano.
A tal fine appare utile ripercorrere, seppur brevemente, le tappe più significative del riconoscimento legislativo della libertà di organizzazione e di attività sindacale nei luoghi di lavoro .
Come è noto, è stato proprio il legislatore, con una precisa opzione di politica del diritto , a selezionare il sindacato come soggetto titolare di attività sindacale .
Ed è anche per questa ragione che la predisposizione di un apparato di diritti strumentali a garantire il ruolo del sindacato in azienda è parte di una scelta legislativa che va oltre la garanzia, offerta dalla costituzionale formale, della libertà sindacale nei luoghi di lavoro .
Le prerogative che le norme di sostegno dello Statuto attribuiscono alle rappresentanze aziendali e ai sindacati a cui sono collegate dispongono ‹‹una serie di diritti, comportanti obblighi positivi di collaborare e oneri a carico dell’imprenditore, destinati ad agevolare l’azione sindacale nelle unità produttive›› .
In questo senso, la disciplina protettiva dei diritti sindacali apprestata con lo Statuto ha disatteso la concezione atomistica del fenomeno sindacale affermata fino ad allora dalla prevalente giurisprudenza , assegnando il necessario rilievo collettivo a quelle situazioni soggettive individuali tutelate ad es. dagli artt. 15 e 16-18 dello Statuto .
Una conferma di tale impostazione è desumibile anche dalla struttura dell’apparato sanzionatorio e processuale per la lesione dei diritti di attività sindacale in azienda, individuato con il procedimento speciale di cui all’art. 28 Stat. lav., la cui esperibilità è saldamente legata al superamento della prospettiva dualistica tra interesse collettivo e interesse individuale .
2. L’impianto normativo di cui al titolo III dello Statuto fornisce concretamente alle organizzazioni sindacali un apparato giuridico funzionale a far sì che, nelle realtà aziendali, l’immunità dal potere sanzionatorio del datore di lavoro - promessa dalla Costituzione - diventi effettiva .
Pertanto, la portata innovatrice del consolidamento normativo dei diritti sindacali in azienda va rintracciata non solo nella sua localizzazione in una dimensione aziendale, ma deve essere proiettata anche di riflesso nella astratta potenzialità che da quella sede, per quanto periferica e remota (non solo) geograficamente, si possa contribuire al rafforzamento e alla promozione, su scala nazionale, del ruolo del sindacato al di fuori della fabbrica.
A ciò valga un’ulteriore considerazione che discende dalla più volte ribadita “anomia” del sistema sindacale italiano.
Mentre il legislatore dello Statuto ha consapevolmente scelto di non interferire con l’attività interna dei sindacati, né tantomeno in materia di attività sindacale in senso lato (contrattazione collettiva e sciopero) – e ciò proprio in ossequio a quel principio di abstention of the law consolidato in materia di relazioni sindacali –, diversamente, con riguardo all’attività sindacale in azienda, esso ha, altrettanto consapevolmente, optato per una soluzione di intervento, nella convinzione che, proprio nell’ambito delle realtà produttive, solo la fonte legislativa potesse garantire l’effettività della presenza sindacale.
Alla prova del tempo si può dire che l’intuizione abbia retto.
Ad oggi, infatti, il fondamento legislativo dei diritti di attività sindacale in azienda ne ha consentito il loro permanente utilizzo e ne ha confermato le originarie ragioni di istituzionalizzazione.
E in un contesto produttivo fortemente digitalizzato , quale quello attuale, la forza adattiva delle previsioni statutarie riacquisisce centralità, contribuendo a consolidare il ruolo delle centrali sindacali confederali anche in un sistema corpuscolare e dematerializzato di relazioni industriali.
I diritti riconosciuti in ambito statutario non esauriscono le esperienze pratiche della realtà aziendale, dove il contributo di maggior rilievo alla costruzione di un ‹‹catalogo›› dei diritti sindacali è stato elaborato soprattutto dall’intreccio dell’attività creativa della contrattazione collettiva con la giurisprudenza .
Tuttavia, l’articolazione dei diritti sindacali predisposta dal legislatore del 1970 non consente di trarre elementi che attribuiscano alla presenza del sindacato in azienda una funzione anche partecipativa, al di fuori di una prospettiva ideologica delle relazioni sindacali in azienda fondata sul “conflitto” .
Appare opportuno accertare se, nell’attuale sistema di relazioni industriali, il conflitto continui a prevalere in modo indiscusso sulle logiche della partecipazione oppure se quest’ultima, nel corso dell’ultimo ventennio, abbia aperto qualche breccia nelle prassi contrattuali ed empiriche delle relazioni sindacali in azienda. E, soprattutto, è necessario chiedersi se esistano, nell’ambito dello stesso ordinamento, esperienze differenti in alcuni settori caratterizzati da ambiti di specialità, come ad esempio accade nel P.I. privatizzato .
Ed è un dato inconfutabile che il coinvolgimento dei lavoratori rappresenti, al pari della logica conflittuale, una delle prerogative costituzionali dell’ordinamento .
Ma è altrettanto evidente che la dinamica del «conflitto» abbia avuto la prevalenza sulla partecipazione quantomeno per ‹‹ragioni di ordine storico che non alterano il dettato costituzionale, nel senso che non determinano la sovrapposizione alla costituzione formale di una diversa costituzione materiale, ma caratterizzano le fasi di attuazione della stessa costituzione formale›› . Questa compresenza, però, non è stata letta dalla dottrina in modo pacifico.
Alcuni, infatti, vi hanno fin dall’inizio attribuito una connotazione di ambiguità, se non di compromesso.
Le due vie, conflittuale (artt. 39 e 40), e partecipativa (art. 46), rappresenterebbero il prezzo della convivenza nella Costituzione formale di due ideologie contrapposte: ragioni e istanze di tutela del lavoro vs. ragioni e istanze di tutela del capitale.
Più condivisibile appare l’opinione di chi ha ritenuto semplicistica e riduttiva la tesi della “contrapposizione” in ragione di un compromesso, ammettendo invece per converso una coerenza complessiva del dato costituzionale, e in generale la possibilità che la teoria del conflitto possa essere in qualche modo ‹‹temperata da un altro elemento›› .
Secondo siffatta lettura, in effetti, i due principi ‹‹possono, al contrario, concorrere, ancorché in diversa misura a seconda dei tempi e delle situazioni, alla realizzazione del fine essenziale della tutela della persona del lavoratore›› .
Tuttavia, le vicende storiche che hanno caratterizzato la Costituzione materiale dagli anni ‘50 ad oggi dimostrano con nitidezza l’abbandono del modello partecipativo profilato dai costituenti e la configurazione delle relazioni industriali italiane in direzione altamente conflittuale .
Il sistema intersindacale, pertanto, si è mosso in direzione opposta rispetto alle opportunità del dettato costituzionale nel senso di una maggiore coesione nelle relazioni tra i gruppi sociali .
Sennonché, per favorire un recupero dell’effettiva dimensione rappresentativa del soggetto sindacale, si potrebbe tentare di conciliare la presenza del sindacato in azienda con una logica più partecipativa , anche e soprattutto in uno scenario come quello attuale caratterizzato da numerosi elementi di discontinuità rispetto al passato (l’era delle molteplici transizioni) .
Nella consapevolezza che, come si vedrà più avanti, il contratto collettivo resta ancora oggi il canale esclusivo e privilegiato anche dal legislatore, per avviare esperienze di partecipazione, sebbene ciò avvenga all’interno di una più definita cornice legislativa .
3. Una visione sistemica dei diritti di azione sindacale in azienda, attraverso una lettura unitaria dei diritti sindacali “puri” e dei diritti di informazione e consultazione, può rappresentare oggi un utile strumento di consolidamento del ruolo del sindacato anche in chiave partecipativa, senza tradirne l’originaria vocazione antagonistica . Quest’ultima, infatti, andrebbe mantenuta nella misura in cui si tratti di una naturale dialettica sottostante agli interessi ontologicamente contrapposti , che tali rimangono, senza necessariamente sfociare in un “metodo” per il raggiungimento degli obiettivi sindacali (la conflittualità) .
Una conferma in tal senso si desume anche dal regime di giustiziabilità che accomuna i diritti di partecipazione ai diritti sindacali previsti dallo Statuto.
E invero, quando ancora i diritti di informazione e consultazione erano solo delle previsioni pionieristiche della contrattazione collettiva, la dottrina non ha esitato a concepire la sanzionabilità delle condotte lesive di tali diritti con l’estensione della tutela di cui all’art. 28 Stat. lav. . Siffatta soluzione è stata definitivamente e pacificamente adottata dalla giurisprudenza per tutte le condotte del datore di lavoro che violino gli obblighi di informazione e di consultazione di qualsiasi origine contrattuale o legale.
Da qui la perdita della connotazione tipicamente conflittuale dell’art. 28 Stat. lav., che diventa uno strumento processuale di effettività di tutti i diritti di azione sindacale, a prescindere dalla loro vocazione conflittuale o partecipativa, per assicurare la presenza operativa e organizzativa del sindacato nell’impresa .
E volendo dare una lettura unificata dei procedimenti di convalida e di approvazione del contratto collettivo con le norme in materia di informazione e di consultazione dei lavoratori, si potrebbe costruire un unico percorso procedimentale in cui confluiscano la procedura di informazione da parte delle RSA/RSU in azienda in sede assembleare, in una logica di partecipazione diffusa alle proposte del management, e poi la consultazione per via referendaria della collettività dei lavoratori.
Questa prassi istituzionalizzata di informazione e di consultazione potrebbe avere un duplice utilizzo perché sarebbe funzionale, in una fase antecedente alla consultazione delle rappresentanze sindacali, a una verifica del consenso delle lavoratrici e dei lavoratori , introducendo forme di democrazia partecipativa diretta, con la mediazione del soggetto sindacale.
Si realizzerebbe così sintesi di istituti di origine statutaria, collettiva e legislativa, come espressione di una tendenza innovativa delle relazioni industriali in azienda .
Nell’epoca delle molteplici transizioni, la prospettiva partecipativa potrebbe contribuire alla tutela dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nei luoghi di lavoro di fronte alla sfida della digitalizzazione e della sempre maggiore diffusione dell’algorithimic management, così come espressamente sottolineato anche dal PE con la Risoluzione del 2021 .
Si impone quindi a livello di sistema sindacale confederale una rilettura dei diritti sindacali, in chiave partecipativa , senza trascurare che le moderne istanze di democratizzazione dei luoghi di lavoro devono essere veicolate attraverso gli strumenti di comunicazione digitale , per rendere il sistema sindacale adeguato anche alle esigenze dei lavoratori della net economy .
Nel tentativo di tracciare una continuità tra diritti di democrazia diretta in azienda (assemblea e referendum in particolare, ma anche attraverso il proselitismo) e i diritti di informazione e consultazione , si potrebbe delineare un sistema di partecipazione effettiva dei lavoratori e delle loro rappresentanze, fondato su meccanismi procedurali istituzionali volti al perseguimento di un accordo, sulla scorta di un principio di preventiva limitazione della libertà di decisione e di azione delle parti sulle materie oggetto della decisione congiunta .
Ciò potrebbe garantire una perdurante attualità del ruolo strategico assegnato ai diritti di azione sindacale: non solo per rafforzare la presenza del sindacato, o delle sue diramazioni, quale contropotere dell’imprenditore, ma anche per fornire al soggetto sindacale un reticolato di strumenti partecipativi/conoscitivi e di monitoraggio dell’uso della tecnologia digitale sul luogo di lavoro .
4. Un rinnovato interesse per il tema della partecipazione, e in particolare dell’istituzionalizzazione di procedure di informazione e consultazione, si è fatto strada a partire dagli anni ’70 ad oggi in forza di almeno due motivi determinanti .
Il primo motivo, non trascurabile e anzi probabilmente prevalente, è da ricollegare all’impulso impresso al dibattito giuridico dalle istituzioni comunitarie.
Le fonti legislative, in particolare, sono numerose e rinvengono il loro fondamento in modo trasversale anche nelle Carte dei diritti fondamentali .
La partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze è stata considerata il presupposto per realizzare la cosiddetta “pace sociale” nelle relazioni industriali europee (forse adottando uno sguardo eccessivamente ottimista e sempre in relazione ad un miglioramento della performance aziendale) .
Attraverso i numerosi spunti offerti dall’ordinamento multilevel nell’ultimo ventennio, pertanto, si è assistito ad un lento ma progressivo recupero del tema della partecipazione dei lavoratori , seppur nella sua forma “debole” di diritto all’informazione e alla consultazione .
La seconda ragione può farsi risalire allo sviluppo di un più ampio consenso sui temi della partecipazione, seguito ad un mutamento di prospettiva soprattutto ideologico , e legato alla necessità, manifestata dalle aziende e dal management, di governare i processi delle transizioni in atto anche mediante strumenti di innovazione organizzativa .
In particolare, oltre ai provvedimenti legislativi di matrice euro-unitaria, altrettanto chiaramente in questa direzione si sono espresse le Parti sociali firmatarie del cosiddetto Patto per la fabbrica del 2018.
Questo accordo rimane ad oggi tra i più significativi interventi in materia di informazione e di partecipazione dei lavoratori, espresso dall’autonomia collettiva in modo unitario.
In tale documento si ribadiscono i principi e i contenuti previsti dal T.U. del 2014 e si assegna ai contratti collettivi nazionali di categoria il compito di individuare concretamente la definizione delle procedure per la “previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori” (Patto per la fabbrica, p. 4).
Inoltre, sempre nel Patto per la fabbrica, le Parti hanno dedicato una sezione al tema della partecipazione (p. 15), indicandola come uno degli ambiti da sviluppare, soprattutto per gli aspetti di natura organizzativa e nei processi di definizione degli indirizzi strategici dell’impresa .
A tal fine, rivestono un ruolo chiave entrambi i livelli di contrattazione, che dovrebbero articolarsi in un sistema di relazioni industriali più flessibile, in cui anche al contratto collettivo di livello aziendale è attribuito il compito di realizzare concretamente forme innovative di coinvolgimento dei lavoratori .
In tempi più recenti, anche la I sezione del CCNL dei metalmeccanici del 2021 (dedicata in generale al “Sistema di relazioni sindacali”) riprende il tema della partecipazione .
Qui si ribadisce l’importanza della “partecipazione strategica” nelle grandi aziende (attraverso la previsione di un comitato consultivo di partecipazione, art. 3) e si richiamano, quasi in una formula di stile, i consueti diritti di informazione e di consultazione (analogamente a quanto già accaduto con il d. lgs. n. 25/2007 e con la disciplina sui CAE: artt. 9 e 11).
La vera novità dell’Accordo, tuttavia, risiede nella previsione di cui all’ art. 10, con cui si introduce una sorta di procedura partecipativa di sperimentazione che dovrebbe avere ad oggetto «tutti gli aspetti della vita aziendale (…) possono costituire oggetto della sperimentazione partecipativa».
Anche i diritti di informazione e di consultazione dei lavoratori, pertanto, possono essere ricompresi in una nozione di attività sindacale in azienda.
Ciò trova conferma nella duplice circostanza che il legislatore, in alcune ipotesi specifiche della vita aziendale , e la contrattazione collettiva in alcuni settori produttivi , hanno stratificato nel tempo una rete partecipativa funzionale a rafforzare il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori proprio all’interno nei luoghi di lavoro.
Ma va precisato che il livello di partecipazione promosso non va mai oltre lo stadio debole del coinvolgimento indiretto dei lavoratori e delle lavoratrici mediante le loro rappresentanze .
Dal punto di vista soggettivo, di regola, la titolarità degli strumenti di informazione e di consultazione è affidata alle RSA/RSU, aggiungendo tali diritti al catalogo di strumenti operativi già messi a disposizione dallo Statuto.
Essi sono infatti considerati diritti sindacali di seconda generazione (quali procedure generalizzate di informazione e consultazione) e condividono con l’originaria struttura dei diritti sindacali anche la finalità di tutela dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici all’interno della realtà aziendale.
Inoltre, con riferimento alle modalità di realizzazione del diritto è doveroso precisare come il legislatore, nell’ambito della cornice regolativa messa a punto negli anni, rimetta ampi margini di disciplina, in entrambe le ipotesi, alla contrattazione collettiva .
5. Di recente, il tema della partecipazione ha goduto di un rinnovato interesse anche a seguito del dibattito innescato dalla presentazione della proposta di legge della CISL e del successivo varo della legge sulla partecipazione dei lavoratori del 15 maggio 2025, n. 76 .
Per ragioni di economia del testo, ci si limiterà in questa sede ad alcune riflessioni direttamente connesse con l’esercizio dei diritti sindacali in azienda .
La legge, composta da 15 articoli, si propone l’obiettivo (abbastanza generico e utopistico) «di rafforzare la collaborazione tra i datori di lavoro e i lavoratori, di preservare e incrementare i livelli occupazionali e di valorizzare il lavoro sul piano economico e sociale. Introduce altresì norme finalizzate all’allargamento e al consolidamento di processi di democrazia economica e di sostenibilità delle imprese».
L’ambito di applicazione è rivolto a tutte le imprese, incluse le società cooperative in quanto compatibili.
Innanzitutto, prima facie, la legge sembra valorizzare il ruolo dei contratti collettivi (anche se in alcuni casi di livello solo aziendale ) perché individua nella contrattazione collettiva lo strumento privilegiato per l’attuazione delle diverse forme di partecipazione . Gli attori collettivi quindi sembrano essere i reali protagonisti nella definizione delle modalità concrete di partecipazione, lasciando ampi margini di adattamento alle specificità settoriali e aziendali.
Inoltre si assegna al CNEL un ruolo strategico per monitorare e promuovere le buone pratiche, con l’istituzione di Commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori (Capo VII) .
Con riguardo alla previsione delle forme di partecipazione, la legge sulla partecipazione dei lavoratori sembra anche spingersi oltre il dettato costituzionale di cui all’art. 46 Cost., perché promuove non solo la partecipazione gestionale ma anche quella «economica e finanziaria, organizzativa e consultiva dei lavoratori alla gestione, all’organizzazione, ai profitti e ai risultati nonché alla proprietà delle aziende».
Proprio la partecipazione economica/finanziaria è quella a cui viene dedicata particolare attenzione (Capo III, artt. 5 e 6, L. n. 76/2025) .
Si tratta in buona sostanza di misure che riconoscono il sostegno tributario ad alcune delle più significative forme di partecipazione ai profitti e ai risultati dell’impresa, anche tramite forme di partecipazione al capitale, tra cui l’azionariato, tramite la tecnica dello sgravio fiscale. E certamente in un’ottica di Welfare aziendale, si può ritenere che le imprese in buona salute finanziaria ne faranno un uso appropriato, anche nella logica della fidelizzazione del personale .
È ovvio che in questi casi si tratta di misure rimesse tout court al placet aziendale (passando attraverso accordi collettivi), che hanno un impatto economico non irrilevante sui bilanci aziendali.
Fuori dal caso appena visto, gli aspetti controversi riguardano le altre forme di partecipazione: gestionale (Capo II, artt. 3 e 4, L. n. 76/2025), organizzativa (Capo IV, artt. 7 e 8, L. n. 76/2025) e consultiva (Capo V, artt. 9, 10 e 11, L. n. 76/2025), che sono poi quelle che più direttamente possono incidere nel tessuto organizzativo aziendale per innescare un reale cambiamento di paradigma delle relazioni industriali.
La partecipazione gestionale ricalca il modello consueto della partecipazione alle decisioni dell’azienda e quindi riproduce la divaricazione tra sistema duale e no.
La partecipazione organizzativa, al di là delle definizioni date e delle opportunità offerte dall’ampiezza e dalla varietà dei temi indicati come oggetto di partecipazione (predisposizione di proposte di piani di miglioramento e di innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell'organizzazione del lavoro), che sono sicuramente da salutare con favore, non sembra possa segnare un reale avanzamento rispetto alla modernizzazione delle relazioni sindacali in azienda.
Il dato più eclatante, infatti, che non può non destare notevoli perplessità, è la totale estromissione delle rappresentanze sindacali aziendali dal coinvolgimento partecipativo sui temi organizzativi.
Il soggetto titolare dei diritti partecipativi, infatti, è una istituenda (sempre dietro attivazione del datore di lavoro) Commissione paritetica, che sembra evocare lo schema dualistico (senza realizzarne gli obiettivi di partecipazione) , piuttosto che seguire la traiettoria consolidata delle tradizionali forme di coinvolgimento statutarie.
Una simile opzione risulta contraddire l’affidamento selettivo dei diritti sindacali in azienda al soggetto sindacale e sembra piuttosto inaugurare una stagione di discontinuità con il passato, innescando un pericoloso processo di apartheid sindacale o di doppio canale atipico.
Conferma questa lettura anche l’art. 8, L. n. 76/25, che pur facendo riferimento ai contratti collettivi aziendali, prevede l’istituzione di referenti per alcune aree tematiche di rilievo (della formazione, dei piani di welfare, delle politiche retributive, della qualità dei luoghi di lavoro, della conciliazione e della genitorialità nonché quelle dei responsabili della diversità e dell'inclusione delle persone con disabilita). Anche in questa ipotesi non viene preso in considerazione il ruolo svolto dalle rappresentanze sindacali in azienda, accrescendo il rischio di creare una sovrapposizione di compiti e di figure responsabili tra soggetti sindacali e non sindacali.
Infine il Capo V (artt. 9, 10 e 11) disciplina la partecipazione consultiva, che è quella tradizionalmente ritenuta più efficace al fine di governare processi di reale democrazia partecipativa nei luoghi di lavoro. E tuttavia, dando per scontata la presenza della commissione paritetica di cui all’art. 7, si stabilisce che la consultazione preventiva possa svolgersi solo nell’ambito delle commissioni paritetiche.
In tali casi ai sindacati in azienda è assegnato un ruolo esterno consultivo su richiesta della commissione stessa.
Al comma 3 dell’art. 7, però, è previsto anche il contrario, e cioè che nel caso di consultazione sugli argomenti di competenza negoziale, le commissioni paritetiche «possono fornire materiali ed elementi utili al tavolo contrattuale». Siffatta previsione, per quanto ottativa, appare pericolosa, perché rischia di inquinare il processo delle trattative con un’indebita intromissione di un organismo che, si ribadisce, non è di natura sindacale e nel cui ambito l’interesse collettivo (che forse non c’è?) si “confonde” con l’interesse unilaterale della produzione (id est del datore di lavoro) e dell’azienda.
Magra consolazione è data dalla nota che ai contratti collettivi (di qualsiasi livello e di cui all’art. 51, d.lgs. n. 81/2015) è affidato il compito di definire la «composizione delle commissioni paritetiche per la partecipazione consultiva nonché le sedi, i tempi, le modalità e i contenuti della consultazione» (art. 9, c. 2, L. n. 76/25).
Agli articoli successivi è poi disciplinata in modo analitico la procedura di informazione e consultazione. Anche in questo caso va notato che l’iniziativa per la promozione della fase di consultazione è affidata in modo esclusivo al datore di lavoro che «convoca la commissione paritetica (…) mediante comunicazione scritta, trasmessa anche tramite posta elettronica certificata».
La consultazione ha inizio entro cinque giorni dal ricevimento dell'istanza di convocazione.
La procedura di consultazione, salvo diverso accordo, termina decorsi dieci giorni dal suo inizio, anche in caso di mancato parere scritto da parte dei rappresentanti dei lavoratori.
L’intero processo consultivo non vincola il datore di lavoro a raggiungere un accordo.
Unico onere per il datore è di natura informativa e consiste nell’illustrare il risultato della consultazione e i motivi dell’eventuale mancato recepimento dei suggerimenti proposti nel parere della commissione paritetica entro il limite di trenta giorni dalla chiusura della procedura.
6. Anche senza entrare nel merito della tecnica legislativa adottata, nonché senza considerare come concretamente verrà tradotto il provvedimento dalle parti sociali, pare evidente che con questa legge non solo si sia persa un’occasione di modernizzare il sistema di relazioni industriali italiano, ma si sia anche registrata un’inversione di rotta rispetto a uno schema consolidato di affidamento esclusivo ai soggetti sindacali delle prerogative di rappresentanza nei rapporti con il datore di lavoro e di titolarità nella gestione dei diritti di azione in azienda.
Che si sia trattato di sfiducia da parte del Governo nei confronti degli attori sindacali nei luoghi di lavoro, ovvero che si sia adottata una precisa opzione “neutrale” di politica del diritto, sembra a chi scrive che ci sia stata la precisa determinazione di escludere la partecipazione dei lavoratori intesa come partecipazione di derivazione sindacale, sia nella formula delle RSA che delle RSU.
Le istituende commissioni paritetiche, infatti, non solo sono composte in misura paritaria da lavoratori e da rappresentanti dell’impresa, ma la derivazione della componente rappresentativa dei lavoratori è estranea alla rappresentanza sindacale.
Si può auspicare che la modalità di scelta/elezione dei lavoratori in commissione paritetica sarà uno di quegli aspetti che verranno definiti in modo analitico dalla contrattazione collettiva; e che sul punto si mantenga la genuinità di tale scelta affidandola a meccanismi elettivi (come per le RSU) o associativi (come per le RSA) previsti dall’attuale sistema di Accordi interconfederali.
Tuttavia una simile opzione sarebbe inconciliabile con la chiara previsione di una consultazione esterna dell’organismo di rappresentanza aziendale. Pertanto sembra difficile immaginare che la stessa rappresentanza possa far parte dell’organismo di consultazione.
Il timore è che, seguendo la lettera della legge, si possano produrre delle dinamiche di autoreferenzialità e di accreditamento datoriale dell’organismo stesso.
Altro dato che allarma è poi l’attivazione concreta degli istituti partecipativi da parte del datore di lavoro. Quest’ultimo, infatti, potrebbe istituire una commissione paritetica influenzandone (anche in modo indiretto) il processo selettivo dei componenti, e poi attivarne la consultazione per ottenere una base di consenso indiscutibile da contrapporre (anche durante eventuali trattative sindacali) agli organismi di rappresentanza sindacale.
Di fatto così verrebbe sterilizzato il ruolo del sindacato in azienda, espropriandolo della sua funzione costituzionale di tutela dell’interesse collettivo, con il risultato finale di rendere inefficace l’esercizio dei diritti sindacali di partecipazione quali assemblea e referendum, nonché di proselitismo.
Si potrebbe obiettare sostenendo che la disciplina del 2025 introduca la possibilità di adottare una sorta di doppio canale (anche se atipico), ma intervenire con processi unilaterali top-down in tema di relazioni industriali, tentando di trapiantare modelli estranei alle tradizioni di un determinato contesto nazionale, è un’operazione politica che non può produrre esiti condivisi tra gli attori sociali.
E, come è noto, uno dei sindacati confederali maggiormente rappresentativi (la CGIL) ha già manifestato apertamente la sua contrarietà alla legge sulla partecipazione.
Il contenuto oggetto del diritto dell’informazione e della consultazione, una volta acquisito dal sindacato attraverso le relative procedure, diventa una condizione conoscitiva essenziale per svolgere l’azione sindacale; la violazione di tali diritti non si traduce pertanto in una mera lesione della “credibilità” del sindacato, ma in una riduzione della sua capacità di iniziativa con conseguente potenziale perdita del consenso e dell’effettività della sua azione.
Insomma, se la contrattazione collettiva non riuscirà a governare in modo efficace la disciplina di dettaglio della procedura , si rischierà di mettere una pietra tombale all’agibilità dei diritti sindacali in azienda.
Il che potrebbe innescare l’ennesimo massiccio ricorso alla giurisprudenza, che rimane l’ultimo baluardo di tutela costituzionale delle posizioni collettive.
In poche parole, nella migliore delle ipotesi, e quindi nel caso in cui la contrattazione collettiva si mostrerà ostile a introdurre tali sistemi di partecipazione (ipotesi verosimile), sembra che l’attuale disciplina non abbia aggiunto molto al quadro previgente, se non avere alimentato la confusione e la sovrapposizione di compiti e funzioni in azienda.
Qualche perplessità ulteriore, infatti, sorge con riferimento al coordinamento con la disciplina di cui al d.lgs. n. 25/2007 che individua un quadro generale in materia di diritto all'informazione ed alla consultazione dei lavoratori nelle imprese o nelle unità produttive situate in Italia (in attuazione della dir. 14/2002) .
Per quanto le previsioni in essa contenute si limitino ad assicurare livelli minimi di informazione e di consultazione, l’aver assegnato la titolarità di tali diritti ai rappresentanti sindacali ha garantito un continuum nell’esercizio in azienda dei diritti sindacali . E pur trattandosi di un intervento in discontinuità rispetto al modello affidato tout court all’autonomia collettiva, tale disciplina ha comunque mantenuto il sostegno in azienda alle RSA/RSU e ha assicurato che le modalità di informazione e consultazione venissero stabilite dal contratto collettivo di lavoro «in modo tale da garantire comunque l’efficacia dell’iniziativa, attraverso il contemperamento degli interessi dell’impresa con quelli dei lavoratori e la collaborazione tra datore di lavoro e rappresentanti dei lavoratori, nel rispetto dei reciproci diritti ed obblighi nella titolarità dei relativi diritti» (art. 1, c. 2, d.lgs. n. 25/2007).
Tuttavia, l’immaturità del sistema di relazioni industriali italiano e la trasposizione della Direttiva “al ribasso” hanno impedito che il provvedimento legislativo producesse gli esiti auspicati, tant’è che in numerose occasioni, anche nell’ambito di proposte di legge, il tema della partecipazione è tornato protagonista: si ricordino la delega contenuta nella l. 92/2012 in materia di informazione e consultazione dei lavoratori, e riproposta nel d.d.l. n. 1051; e il controverso riferimento contenuto nell’art. 8 della l. n. 148/2011.
7. La partecipazione quindi resta un tassello imprescindibile per il consolidamento in azienda delle posizioni dei lavoratori e delle lavoratrici, soprattutto nell’era delle grandi transizioni che l’economia globale sta attraversando.
Come è noto, infatti, i diritti di informazione e di consultazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze hanno assunto ancora maggiore centralità con riferimento all’emergente sviluppo dei cosiddetti big data e dei processi manageriali condotti con sistemi di IA e di AM .
In un’ottica di consolidamento del ruolo di autorità salariale del sindacato, si potrebbero adoperare i diritti di informazione e di accesso alle retribuzioni “trasparenti” per arginare il crescente fenomeno dei working poors e il gender pay gap, nonché per implementare misure volte a favorire il benessere organizzativo in azienda .
Non c’è dubbio che proprio la necessità di un controllo del potere tecnocratico dell’imprenditore implichi oggi delle riflessioni giuridiche a sostegno di politiche pubbliche che tengano conto della prospettiva partecipativa .
Tuttavia, a fronte del quadro teorico, la prassi applicativa dei processi decisionali del management è ancora lontana dal realizzare un organico e autentico quadro di diritti di informazione e di consultazione, che non si fermino a meri oneri di natura formale e non vincolante.
Certamente, come già rilevato in dottrina, «rispetto all’impresa digitale l’AI Act non mette in campo alcun rafforzamento diretto dei poteri collettivi dei lavoratori», dal momento che il legislatore europeo ha convalidato la «forma più debole di partecipazione, cioè i diritti di informazione non seguiti neanche da alcuna forma di consultazione o acquisizione di un parere dei soggetti collettivi» . L’AI Act, infatti, prevede che gli utilizzatori-datori di lavoro si limitino ad informare i rappresentanti dei lavoratori («deployers who are employers shall inform workers representatives») , senza aggiungere ulteriori margini di controllo e di governo sulla gestione concreta dei flussi informativi, né tantomeno sulle ricadute dell’applicazione di sistemi di AI .
Che le due strade (partecipazione e controllo dei poteri datoriali governati dall’IA) vadano sicuramente battute in modo coerente è un dato condiviso e tale modus operandi era già chiaro al sindacato europeo, sin dall’Accordo Quadro sulla Digitalizzazione (AQD) del 2020 .
Qui infatti si fa generico riferimento a un «approccio di partenariato tra datori di lavoro, lavoratori e loro rappresentanti», con l’obiettivo di realizzare una “transizione consensuale” affidata ad un “impegno condiviso” e ad un “processo concordato e gestito congiuntamente”.
La medesima prospettiva soft emerge dall’attuale versione dell’AI Act e la legge sulla partecipazione sembra confermare questo scenario, in cui non si rinviene un effettivo enforcement dei diritti di partecipazione, se non nella forma light mediata dall’istituzione di una Commissione paritetica.
Insomma, a parte i ristretti margini di partecipazione (informazione) alla stesura dei codici di condotta o codici di buone pratiche, per la cui adozione gli artt. 95 e 50 dell’AI Act sollecitano i deployer/datori di lavoro, si ha l’impressione che non ci sia un significativo tasso di incisività da parte del legislatore per innestare nel sistema reali pratiche partecipative in materia di IA.
Invece sembra che il testo della Direttiva UE n. 2024/2831 del 23 ottobre 2024 sul miglioramento delle condizioni di lavoro nelle piattaforme digitali , possa contribuire a un diverso assetto informativo.
E in particolare si fa riferimento al considerando n. 52, Dir. UE n. 2024/2831, che assegna una rilevanza fondamentale alla procedura di informazione e consultazione per i rappresentanti dei lavoratori e si prevede l’obbligatorietà delle procedure consultive: in caso di introduzione e di modifiche sostanziali nell’uso dei sistemi di monitoraggio o decisionali automatizzati da parte delle piattaforme di lavoro digitali, allorché abbiano un effetto diretto sull’organizzazione del lavoro e sulle condizioni di lavoro individuali dei lavoratori delle piattaforme digitali.
Tra le altre norme (artt. 8 ss., Dir. UE n. 2024/2831) assume particolare rilievo l’art. 12, par. 2, Dir. UE 2024/2831, mediante il quale il legislatore garantisce i diritti di informazione e consultazione delle rappresentanze sindacali nonché la partecipazione dei lavoratori per i profili concernenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori delle piattaforme. Questa prospettiva, in termini di effettività, è ulteriormente confermata dalla disposizione successiva, l’art. 13, Dir. UE 2024/2831, nella misura in cui al par. 3 si introduce il diritto per i rappresentanti dei lavoratori delle piattaforme digitali di essere assistiti da un esperto di loro scelta quando ciò sia loro necessario per esaminare la questione oggetto di informazione e consultazione e formulare un parere.
Anche qui, per quanto si riconosca in modo esplicito alle rappresentanze dei lavoratori in azienda un ruolo sicuramente più significativo, e si prevedano anche delle misure per garantirne l’effettività (l’obbligo per la piattaforma di lavoro digitale di sostenere le spese per l’esperto nei casi in cui la piattaforma impieghi più di 250 lavoratori nello Stato membro interessato e le spese non siano sproporzionate, art. 13, par. 3 Direttiva Piattaforme), il suddetto riconoscimento non può ritenersi tale da far pensare all’esistenza di reali strumenti di controllo e di governo sindacale sull’esercizio dei poteri datoriali nel lavoro su piattaforma .
Insomma forse è proprio il caso di affermare “Much Ado About Nothing”.
Se così stanno le cose, una legge sulla partecipazione avrebbe potuto certamente rappresentare un utile grimaldello per scardinare le interstiziali aperture offerte dalla legislazione sovranazionale. Tuttavia, come visto poc’anzi, essa non ha realizzato nei fatti una svolta autentica per le relazioni industriali italiane, nel momento in cui sia mancato un effettivo raccordo con il quadro istituzionale esistente e sia stata prevista una procedura meramente opzionale degli istituti partecipativi . E con molta probabilità la legge sulla partecipazione ha anche indebolito il sistema intersindacale, provocando un’ulteriore frattura dell’unità sindacale, di cui non si sentiva il bisogno.
Resta quindi irrisolto il nodo della partecipazione , unitamente a quello della misurazione della rappresentatività sindacale .
Valga infine un’ultima riflessione conclusiva.
È senza dubbio necessario porre al centro del dibattito giuridico i temi di grande attualità rappresentati dall’uso dell’IA nella gestione dei rapporti di lavoro e dal lavoro digitale su piattaforma .
Ma è altresì indispensabile rimarcare che la dirompente diffusione di sistemi di AM, se non adeguatamente governata, corre il rischio esponenziale di accentuare la scarsa presenza sindacale nelle aree del Paese che già soffrono una posizione di svantaggio economico e di sviluppo industriale.
Ci si riferisce a quelle aree del Mezzogiorno in cui una rivoluzione organizzativa digitale potrebbe ulteriormente determinare, a causa di una certa “immaturità” del sistema di relazioni sindacali in azienda, l’estromissione delle rappresentanze sindacali dalle questioni che hanno reali ricadute sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.
Qui i dati ancora riportano la diffusione di realtà produttive di piccole dimensioni in cui la contrattazione collettiva aziendale rappresenta un miraggio per pochi privilegiati e tarda a innestarsi, se non nella forma di un ulteriore accreditamento del datore di lavoro.
Si parla di territori e di aziende in cui i diritti sindacali non sono mai entrati e dove la conflittualità, anche quella ontologica, è spenta sul nascere.
Nell’ambito di tali realtà, i sindacati fanno fatica a perseguire la loro mission istituzionale e a svolgere un ruolo di promozione delle politiche pubbliche per favorire lo sviluppo economico e sociale del contesto produttivo sia in senso qualitativo che quantitativo.
Se anche il dibattito dottrinale spegne i riflettori su tali fenomeni, con la diffusione delle nuove tecnologie si correrà il rischio che l’attuale e persistente segmentazione a due velocità del mercato del lavoro diventi una segmentazione (per aree geografiche e di attività economiche) strutturale e sempre più polarizzata, generando ulteriori divari di sviluppo economico e di presenza sindacale nei luoghi di lavoro.
E certamente a pagarne il prezzo saranno i lavoratori e le lavoratrici più “precari” e meno qualificati, svantaggiati in una prospettiva di vulnerabilità intersezionale , con le prevedibili implicazioni negative in termini di arretramento delle tutele dei diritti delle persone che lavorano e dell’intero mercato del lavoro .
