testo integrale con note e bibliografia

1. L’estensione dell’obbligo di adottare assetti “adeguati” dagli amministratori all’imprenditore.

Come noto, il Codice della crisi di impresa ha aggiunto un nuovo comma all’art. 2086 c.c., prevedendo che “L'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa …”.
E’ stato condivisibilmente rilevato che tale obbligo trova applicazione non solo al fine di evitare la crisi d’impresa, ma impone una modalità di organizzazione che deve governare l’attività dell’impresa anche in bonis. Il disposto letterale del nuovo comma dell’art. 2086 c.c., infatti, precisa di seguito che l’impresa ha l’obbligo di dotarsi di un assetto organizzativo adeguato “… anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale …”, chiarendo indirettamente - con il termine “anche” - che questa finalità non è l’unica per il perseguimento della quale detto obbligo è imposto .
Sebbene la norma riproponga un obbligo di cui gli artt. 2381, 2403 e 2409 octodecies c.c. (come modificati dalla riforma del diritto societario ) già in precedenza gravavano gli amministratori e i sindaci delle società nei confronti dei soci, sia dal suo tenore testuale sia dalla sua collocazione in seno al codice civile si evince che ora questo obbligo finisce per gravare anche lo stesso imprenditore in via diretta, seppur limitatamente all’”imprenditore che operi in forma societaria o collettiva” . La norma è infatti collocata nel titolo II del libro V del codice civile, ed in particolare nel capo I e nella sezione I di questo titolo, le cui epigrafi recitano rispettivamente “dell’impresa in generale” e “dell’imprenditore”. La stessa epigrafe dell’art. 2086 c.c. è stata significativamente modificata dalla novella da “i collaboratori dell’imprenditore” in “la gestione dell’impresa”.
L’estensione dei soggetti gravati di quest’obbligo dagli amministratori all’imprenditore ha esteso in modo speculare sul lato passivo anche la platea dei soggetti tutelati dalla norma sino a ricomprendendovi chiunque vi abbia “interesse”, anche sul piano extracontrattuale, che possa cioè esser danneggiato da una condotta dell’impresa violativa dell’obbligo dettato dall’art. 2086 c.c. e sia quindi legittimato a farne valere giuridicamente e processualmente ai sensi dell’art. 100 c.p.c. la violazione al fine di reclamare il risarcimento (in forma specifica o per equivalente) del danno patito . Questi soggetti tutelati possono essere definiti, secondo una terminologia tratta dal diritto anglosassone ma oramai divenuta lessico comune anche nel nostro, gli “stakeholder” dell’impresa (lavoratori, creditori, consumatori, abitanti dei luoghi di stabilimento degli impianti produttivi, etc. ), contrapposti ai o comunque distinti dagli “shareholder”, gli azionisti dell’impresa organizzata in forma societaria o collettiva che comunemente perseguono l’interesse alla massimizzazione del rendimento della loro partecipazione e del valore di questa. Sebbene anche questi interessi degli shareholder non sempre risultano coincidenti se valutati in una prospettiva a breve o a lungo termine, indubbiamente il contratto societario nel nostro ordinamento giuridico risponde strutturalmente ai sensi dell’art. 2247 c.c., come d’altronde ogni altra attività imprenditoriale di cui all’art. 2082 c.c., al fine di lucro . Ciò non preclude che il singolo socio od anche la collettività dei soci possa perseguire anche interessi “altri” e persino dettare statutariamente ulteriori finalità , ma queste possono o rilevare solo sul piano del “motivo” individuale od anche aggiungersi alla causa negoziale della produzione di profitto, pur comprimendola parzialmente, ma senza mai giungere a stravolgerla od eliminarla, salvo trasformare la società in una diversa fattispecie. Il legislatore, infatti, ha tassativamente previsto dei diversi tipi negoziali per esercitare in forma associata e collettiva delle attività di produzione di beni o servizi senza rispondere a un fine di lucro: associazioni non riconosciute ex artt. 36 e ss. c.c., società c.d. benefit non lucrative , enti del c.d. terzo settore .

2. L’immutato fine di lucro dell’impresa.
Non può quindi ravvisarsi nell’art. 2086 c.c. un supporto normativo alle tesi del c.d. stakeholderism , che con varie declinazioni animano in tutto il mondo il dibattito nel diritto commerciale circa le finalità dell’attività imprenditoriale allo scopo da ultimo di ricomprendervi gli obiettivi di ESG sustainability, cioè di sostenibilità ambientale, sociale e di governance . A dispetto della proliferazione di documenti di matrice ONU e OCSE e UE, persino di direttive e regolamenti eurounitari , nonché di sofisticate teorie dottrinarie, tutti volti a supportare gli obiettivi della sostenibilità dell’attività d’impresa, questi continuano a rilevare solo sul piano delle politics e delle policies , e non anche su quello della obbligatorietà giuridica, tanto più in termini causali della fattispecie societaria. Gli ordinamenti capitalistici perseguono, e non da ora, gli obiettivi di sostenibilità ponendo limiti “esterni” all’attività d’impresa, alla violazione dei quali consegue l’imputazione di responsabilità giuridiche, ma non certo funzionalizzando la stessa a finalità sociali .
Anche nel nostro ordinamento costituzionale la capacità dell’impresa di creare ricchezza e opportunità di lavoro la rende di per sé socialmente meritevole di tutela giuridica. La previsione del comma 2 dell’art. 41 Cost., secondo cui l’attività di imprese non deve esercitarsi in contrasto con l’utilità sociale e la dignità umana, nonché (dopo la modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lett. a), della legge costituzionale n. 1/2022) all’ambiente, legittima il legislatore ordinario a imporre all’impresa precisi obblighi da osservare al fine di promuovere e tutelare questi beni sociali, ma non certo a vincolarla funzionalmente a perseguirli .
Occorre quindi tenere nettamente distinti gli auspici o, purtroppo in molti casi, la retorica della politica dalle prescrizioni rilevanti sul piano giuridico . Come è stato condivisibilmente rilevato, infatti, è un esercizio del tutto inutile ampliare in enunciazioni di principio il novero degli interessi meritevoli di tutela quando poi l’ordinamento giuridico non li dota di nessun strumento di protezione giudizialmente attivabile avverso i soggetti che li ledono .

3. La necessaria distinzione tra fini e obblighi di sostenibilità sociale dell’impresa.
Tali considerazioni non sono affatto contraddette, ma piuttosto confermate dalle recenti direttive UE 2022/2464 (Corporate Sustainability Reporting Directive - CSRD) e 2024/1760 (Corporate Sustainability Due Diligence Directive - CSDDD) in materia, rispettivamente, di obblighi di comunicazione delle imprese e di obblighi di controllo delle imprese capofila delle supply chain, le quali a giudizio dei più rappresentano la tutela più avanzata offerta dall’ordinamento eurounitario alla sostenibilità sociale dell’impresa .
Nel primo caso il legislatore eurounitario pone puntuali obblighi di comunicazione al mercato delle informazioni circa le iniziative intraprese dalle imprese di grandi dimensioni in favore della sostenibilità sociale e ambientale, così da consentire agli investitori sensibili a tali obiettivi di indirizzare i loro investimenti verso i soggetti imprenditoriali più attivi e più efficaci nel perseguirli. Le imprese rimangono, però, del tutto libere di decidere discrezionalmente se e in che misura perseguire questi obiettivi . Questa strategia è volta ad utilizzare strumentalmente la leva commerciale, ma sinora non ha prodotto grandi risultati se non il fiorire di un mercato consulenziale per supportare le imprese nel prestare i numerosi ed onerosi adempimenti di informazione e di rendiconto loro imposti . Non è un caso che a fronte delle prime avvisaglie di una recessione economica del mercato europeo a seguito della prevedibile restrizione delle esportazioni verso gli USA per i dazi imposti dal presidente Trump, la prima iniziativa della Commissione Von der Leyen è stata quella di proporre una sostanziale riduzione dell’ambito soggettivo di applicazione di tali vincoli e di adottare immediatamente il posticipo dell’entrata in vigore di un biennio .
Anche la direttiva 2024/1760 ricorre alla stessa tecnica normativa limitandosi a gravare le imprese che controllano le catene di produzione del valore a procedure di controllo e di informativa in merito al rispetto dei diritti umani fondamentali da parte dei loro subappaltatori e fornitori . La responsabilità giuridica dell’impresa capofila nei confronti dei lavoratori lesi viene statuita non in termini di responsabilità oggettiva o solidale (come giustamente veniva auspicato da molti interpreti durante la fase di approvazione ), ma ricorre soltanto laddove il danno patito consegua direttamente all’inadempimento degli oneri di controllo dettati dalla direttiva a carico dell’impresa al vertice della catena nei confronti delle altre imprese della catena con cui ha rapporti contrattuali diretti . La determinazione dell’entità di questa responsabilità è poi rimessa alla legislazione nazionale di recepimento degli Stati membri , esponendo ai ben noti problemi di “geopardizzazione” delle tutela che affliggono il diritto del lavoro eurounitario e alimentano il fenomeno di dumping sociale tra gli Stati membri. Oltretutto la proposta del c.d. omnibus package della Commissione UE attualmente in fase di approvazione prevede di rimettere alla discrezionalità degli Stati membri non solo la determinazione del quantum della responsabilità civile dell’impresa capofila nei confronti dei soggetti lesi, ma persino la previsione dell’an e della giustiziabilità di una tale responsabilità, nonché la qualificazione della norma nazionale di recepimento quale norma di “applicazione necessaria” (che imporrebbe di darle applicazione anche con riguardo alle condotte “extrastatuali”), decretando così con estrema probabilità la sostanziale inapplicabilità di una tale responsabilità dinanzi al giudice del paese di stabilimento dell’impresa capofila.
In ogni caso nei Paesi europei (Francia e Germania ) che hanno fatto da apripista adottando autonomamente questo tipo di oneri a carico dell’impresa capofila nei confronti dei lavoratori impiegati dai suoi subappaltatori e fornitori l’impatto pratico è stato pressoché nullo considerato il numero limitatissimo di casi giudiziali decisi dalle corti nazionali. E’ d’altronde estremamente difficile per un lavoratore impiegato da un’impresa subappaltatrice o fornitrice della catena del valore in un altro paese membro dell’UE o persino in paese extraeuropeo adire i giudici dello Stato di stabilimento dell’impresa capofila qualora i suoi diritti non possono esser ivi tutelati processualmente su autonoma iniziativa delle organizzazioni sindacali o di altri soggetti collettivi di rappresentanza sociale.

4. L’applicabilità della business judgement rule anche alle soluzione organizzative delle risorse umane dell’impresa.

E’ pur vero che l’art. 2086 c.c., così come già rilevato in precedenza con riguardo all’art. 2381 c.c. , è del tutto muto in merito a quali siano i parametri in relazione ai quali valutare la “adeguatezza” degli assetti organizzativi dell’impresa e sembrerebbe poter legittimare l’interprete a rinvenirli tra i valori costituzionalmente protetti, primi fra tutti appunto quelli di utilità sociale, di tutela della dignità umana e dell’ambiente. Finendo così per far atteggiare il canone dell’adeguatezza nei termini di una “clausola generale” che deve essere riempita di contenuti dall’interprete in sintonia con la scala valoriale ritenuta socialmente accettata .
In realtà sia la genesi della norma sia il testo partorito, pur estendendone, come detto, la platea dei soggetti gravati e specularmente di quelli tutelati, per il profilo contenutistico invece la pongono in assoluta continuità con il disposto degli artt. 2381, 2403 e 2409 octodecies c.c. come interpretati dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritari. L’adeguatezza degli assetti organizzativi deve pertanto essere valutata in relazione al principio di corretta gestione aziendale , le cui prescrizioni concrete non sono dettate in via positiva dal legislatore, ma possono evincersi dalle scienze aziendalistiche che hanno elaborato canoni di condotta standardizzati riconosciuti come efficienti ed efficaci per la conduzione aziendale da una comunità di esperti di ampiezza mondiale. In particolare per gli assetti organizzativi d’impresa l’osservanza e la corretta implementazione delle linee guida ISO-UNI costituisce un parametro in relazione al quale valutare l’adeguatezza degli stessi universalmente accettato dalla comunità degli aziendalisti .
Certo si pone il problema, particolarmente sensibile sul piano della “democraticità” della fonte regolativa, se possano accettarsi quali parametri sostanzialmente normativi degli standard di buona organizzazione aziendale che sono elaborati da associazioni privatistiche composte dai soggetti, imprese e manager, che sono i medesimi che dovrebbero esser principalmente gravati dall’onere di adeguatezza dell’organizzazione aziendale e che potrebbero essere sollevati da ogni responsabilità laddove dimostrino di aver osservato le linee di condotta che loro stessi hanno concorso a determinare . D’altra parte non si può neppure pensare che il legislatore nazionale possa direttamente dettare tali analitici codici di condotta e procedere tempestivamente al loro adeguamento al continuo variare delle tecniche, dei prodotti e dei mercati. Tanto più che, esattamente come avviene con i modelli di organizzazione di cui al d.lgs. n. 231/2001 e di cui al d.lgs. n.81/2008 , questi standard regolativi non possono esser ritenuti vincolanti in modo assoluto per il Giudice, che può sempre verificarne e sindacarne l’effettiva affidabilità avvalendosi di propri consulenti.
Orbene la sindacabilità giudiziale della correttezza delle modalità di esercizio dei poteri organizzativi dell’impresa conosce anche nel più ampio ambito soggettivo disegnato dall’art. 2086 c.c. i medesimi limiti oggettivi applicati dalla giurisprudenza con riguardo alla responsabilità degli amministratori e sindaci ai sensi degli artt. artt. 2381, 2403 e 2409 octodecies c.c. secondo la c.d. business judgement rule importata dal diritto anglosassone . Poiché l’attività imprenditoriale è strutturalmente aleatoria e l’andamento dei mercati, soprattutto dei nuovi prodotti e servizi, difficilmente prevedibile, gli obiettivi e le strategie di business prescelte dagli amministratori e - ora alla luce dell’art. 2086 c.c. – dalla stessa impresa non sono giudizialmente sindacabili, lo sono invece solo le modalità organizzative, amministrative e contabili con cui i primi sono perseguiti . E’ dunque soggetto al sindacato giudiziale ex post e fonte di responsabilità non la scelta imprenditoriale di per sé, ma il “come” sia stata attuata in coerenza con i principi di corretta amministrazione . In una delle prime pronunce giurisprudenziali in cui si è data attuazione al nuovo disposto dell’art. 2086 c.c. è stata appunto ribadita l’insindacabilità solo “relativa” delle scelte aziendali, precisando appunto che “il principio della insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto avendo la giurisprudenza elaborato due ordini di limiti alla sua operatività. La scelta di gestione è insindacabile, in primo luogo, solo se essa è stata legittimamente compiuta (sindacato sul modo in cui la scelta è stata assunta) e sotto altro aspetto, solo se non è irrazionale (sindacato sulle ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre)” .

5. Il superamento dell’insindacabilità assoluta delle scelte organizzative dell’impresa.

Orbene se, come si è detto in apertura, i lavoratori debbono esser ricompresi tra gli stakeholder dell’impresa legittimati ad agire giudizialmente per la violazione dell’art. 2086 c.c. laddove l’assetto organizzativo adottato dall’impresa risulti pregiudizievole dei loro interessi alla continuità e reddittività del rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa, il sindacato giudiziale non potrà che esser esercitato anche in queste controversie entro gli stessi limiti dettati dalla business judgement rule. Ciò segna comunque un rivoluzionario superamento dell’assoluta insindacabilità delle scelte organizzative datoriali affermato costantemente e univocamente dalla giurisprudenza lavoristica e persino positivizzato dal legislatore nel disposto dell’art. 30 della legge n. 183/2010 .
A mio avviso non coglie il segno la tesi espressa da autorevole dottrina secondo cui in realtà il disposto dell’art. 2086 c.c. non potrebbe mai trovare applicazione diretta nel rapporto contrattuale intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore in quanto i poteri “datoriali” idonei ad incidere sulle posizioni giuridiche individuali di quest’ultimo hanno sempre natura “gestionale” e andrebbero distinti dai poteri “imprenditoriali”, che invece incidono solo sulla sfera “organizzativa” . Seppur questa distinzione possa dirsi concettualmente corretta , ciò non significa che l’organizzazione dell’impresa rimanga estranea al rapporto contrattuale di lavoro in quanto le soluzioni organizzative datoriali costituiscono il presupposto legittimante di numerosi atti di gestione che di riflesso intervengono sulle posizioni giuridiche individuali del lavoratore; tanto è vero che la giurisprudenza, pur affermando l’insindacabilità nel merito di dette soluzioni organizzative ha comunque sempre condizionato la legittimità degli atti gestionali conseguenti alla prova datoriale della veridicità e sussistenza delle stesse .
Come ho già rilevato in altro scritto pubblicato in questa rivista , il disposto dell’art. 2086 c.c. offre ora un saldo supporto normativo a quella giurisprudenza (invero sinora minoritaria) della Cassazione che, a fronte dell’inaccettabilità sociale di licenziamenti o trasferimenti giustificati sulla base di soluzioni organizzative dell’impresa reali, ma del tutto irrazionali secondo i canoni di corretta amministrazione aziendale, si era spinta a consentire – almeno in teoria - un sindacato di non arbitrarietà e non pretestuosità della soluzione organizzativa aziendale al superamento del quale è condizionata l’idoneità di quest’ultima a legittimare l’atto gestionale conseguente oggetto dell’impugnazione del lavoratore.
Laddove, dunque, la soluzione organizzativa adottata dall’impresa non superi il vaglio di adeguatezza secondo i canoni della corretta amministrazione aziendale, seppur esercitato entro i limiti sopra chiariti dettati dalla business judgment rule, non potrà che esser ritenuta illegittima per violazione del disposto dell’art. 2086 c.c. . Ciò comporta a cascata l’illegittimità anche dell’atto gestionale che incide sulle posizioni individuali del lavoratore e che avrebbe dovuto esser giustificato dalla stessa soluzione organizzativa che dovrebbe costituirne il prius legittimante .

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