testo integrale con note e bibliografia
1. La moderna società industriale, che ha posto al centro il lavoro, la tecnologia e l’organizzazione razionale delle attività, nella seconda metà del XX secolo perviene, nelle economie più sviluppate, ad una produzione di beni e servizi in grado di soddisfare i bisogni della società. I bisogni hanno una loro storicità ed evoluzione, ma una volta che siano stati sostanzialmente soddisfatti in un determinato momento storico, nessuno può ragionevolmente mettere in dubbio che lo possano essere anche in un successivo periodo. Quindi il grado di soddisfazione raggiunto rappresenta una frattura storica e un traguardo irreversibile, almeno per una società in condizioni normali. Quanto alla miseria e alla povertà, che nelle società in questione affliggono una parte significativa della popolazione (e globalmente centinaia di milioni di persone), dimostrano l’iniquità e l’irrazionalità di tali economie, non il loro insufficiente potenziale produttivo. Ovviamente il livello raggiunto dalla produttività del lavoro deve essere mantenuto, e in certi casi anche migliorato, quindi occorre che il lavoro continui a produrre. Ma se socialmente si è in grado di produrre ciò di cui, materialmente e immaterialmente, si ha sostanzialmente bisogno, non è più possibile parlare di necessità del lavoro come se ogni giornata di lavoro ed ogni grado di aumento della produttività appaiono indispensabili per migliorare il grado di soddisfazione complessivo dei bisogni. Ovvero, come scrive John K. Galbraith nella «società opulenta» si registra una «inequivocabile» diminuzione dell’«urgenza materiale dei beni» (Galbraith, 2014, p. 424). Del lavoro non si può fare a meno, ma occorre vedere caso per caso, quali lavori e per quanto tempo siano utili. Con la «società dell’abbondanza» viene meno il principio assunto dal giovane Hegel come caratteristico della società moderna, che «il lavoro di ognuno è un lavoro universale per i bisogni di tutti, così come lo è per l’adeguatezza al soddisfacimento di tutti i bisogni suoi» (Hegel, 2008, Frammento 22, ß). Possiamo sinteticamente esprimere questa nuova condizione dicendo che nella «società opulenta» il lavoro non è più socialmente necessario anche se in molti casi può essere utile.
D’altra parte per tutti coloro che hanno bisogno di lavorare per vivere il lavoro è individualmente necessario. Per cui la società del benessere dà vita ad una nuova contraddizione, quella tra lavoro socialmente non necessario ed lavoro individualmente necessario. Ogni lavoro che si svolge in questa società, pur essendo individualmente necessario per la vita della persona che lavora, se non altro per il reddito che gli assicura, non ha la certezza della sua necessità e indispensabilità sociale. E questa incertezza corrode il senso di ogni lavoro, al punto che si è potuto affermare che molti lavori appaiono a che li svolge dei Bullshit Jobs (Graeber, 2024). E’ impossibile lavorare nella «società opulenta» come se il lavoro sia socialmente necessario e incombente per quanto riguarda orari, salari, sottomissione servile, assenza di diritti, mancanza di democrazia industriale ed economica, svariate condizioni di ingiustizia, ecc. In questo caso coloro che svolgono questo lavoro falsamente necessario, avvertito come socialmente doloroso, possono arrivare ad un rifiuto dell’attività, come nei casi di Great Resignation, Quiet Quitting, Great Burnout, oppure ad elaborare una coscienza di Antiwork. 
La società del benessere solleva quindi prima di tutto il problema dell’assenza di un senso sociale certo del lavoro che la necessità assicura oggettivamente e la cultura del lavoro elaborato. Nella misura in cui il lavoro appartiene al «regno della necessità» (Marx, 1965, 48, 3) la cultura, come vedremo, ha sempre elaborato un senso sociale e individuale del lavoro, oltreché del tempo libero. Nella necessità del lavoro, il senso sociale del lavoro non può essere assente, anche se, ovviamente, variamente inteso, anche criticato o maledetto e rifiutato, ma a partire dalla sua certezza che fonda il senso individuale delle attività lavorative: la necessità del lavoro infatti consente la società. Anche per questo oggi viviamo nel «crollo» dell’«universo che abbiamo chiamato “sociale”» (Touraine, 2012, p. 12).
2. Una volta fissata, a partire dalla «società opulenta», questa distinzione tra lato sociale e lato individuale del lavoro - la cui unità garantisce un senso al lavoro - possiamo chiederci che ne è del senso del lavoro elaborato dalla cultura del lavoro di cui è essenzialmente composta l’intera storia della nostra civiltà, come risulta anche da Idee di lavoro e di ozio per la nostra civiltà, G. Mari, F. Ammannati, S. Brogi, T. Faitini, A. Fermani, F. Seghezzi, A. Tonarelli, Firenze University Press, 2024, opera da cui il presente testo prende le mosse. 
Sulla base delle distinzioni avanzate, mi sembra possibile delineare, nei circa 2800 anni in cui la nostra cultura ha approfondito la questione del lavoro, un primo periodo, che arriva sino alla «società opulenta», in cui la cultura è soprattutto impegnata a ricercare il senso (individuale e sociale) del lavoro necessario; ed un secondo, in cui siamo tutt’ora, nel quale la fine della necessità del lavoro ha fatto venir meno le principali interpretazioni del significato del lavoro ed in cui si pone centralmente la questione di un nuovo senso individuale del lavoro, in cui far confluire anche il significato del lavoro di cura e del volontariato. Con la notazione, certamente non secondaria, che se la ricerca del senso del lavoro è sempre stata essenziale nella nostra civiltà, per millenni essa ha riguardato quasi esclusivamente il lavoro non servile, ignorando, appunto, quello servile che per millenni ha garantito lo sviluppo della società. Dopo le rivoluzioni settecentesche tale ricerca di senso, soprattutto grazie al socialismo e al marxismo, ha riguardato innanzitutto il lavoro subalterno, determinando un ribaltamento, anche politico, di attenzione della cultura e dell’opinione pubblica che hanno posto il lavoro salariato al centro della questione sociale, ed il lavoro in generale, ad un grado mai raggiunto di attenzione teorica e culturale. Con la «società opulenta» questa centralità è venuta meno, e questo richiede una cultura del lavoro in grado di porre in termini nuovi la questione del valore del lavoro nella vita delle persone. Per la civiltà del lavoro non servile, e per i temi della libertà del lavoro (e dell’ozio) che essa ha sempre trattato, affrontare la questione del moderno lavoro subalterno rappresenta una sfida decisiva perché si tratta di rendere universali i temi di una cultura segnata dal privilegio. Una sfida in cui si misura anche la capacità della nostra civiltà di rinnovarsi senza perdere la propria identità. 
 Il primo arco di tempo che abbiamo delineato si può suddividere in due grandi periodi. Quello che, con alcune eccezioni come Aristotele e il Cinquecento, ha ricercato soprattutto un significato etico del lavoro, che arriva alla rivoluzione industriale settecentesca. E quello che va dal Settecento alla seconda metà del XX secolo, in cui alla motivazione etica si sostituisce una motivazione economica, in termini di guadagno individuale e di ricchezza sociale, che non riesce a proporre un’etica credibile a causa della iniquità nella ridistribuzione della ricchezza prodotta. Invece le culture critiche della società liberale, come quelle socialiste e marxiste, che partono anch’esse dalla necessità del lavoro, elaborano un’etica provvisoria della dignità del lavoro che avrebbe dovuto accompagnare e motivare, sia il lavoro, sia la lotta dei lavoratori nella loro emancipazione, e il cui successo sociale avrebbe dovuto trasformare tale etica in nuova cultura della socialità del lavoro istituzionalmente fondata. 
Con la seconda metà del XX secolo si apre un periodo in cui la moderna motivazione individuale del lavoro (il guadagno) si stacca, a causa dell’«opulenza» raggiunta, dal significato sociale del lavoro (la produzione di ricchezza collettiva necessaria), senza che l’«opulenza» sia stata equamente distribuita. Il lavoro smarrisce la sua necessità senza riuscire a colmare il vuoto con un nuovo significato sociale; i livelli di individualizzazione del lavoro vengono sovracaricati della ricerca di un senso, che non risulta raggiungibile in assenza di un senso sociale del lavoro post necessario; mentre la «società opulenta» fa pagare ad ampie fasce del lavoro (non solo dipendente) la doppia contraddizione di essere senza senso, perché opulente, e perché costrette a vivere con una sempre più iniqua distribuzione della ricchezza socialmente prodotta (Piketty, 2018). Per il lavoro individuale si pone, quindi, la questione di rinvenire autonomamente un senso sociale scelto, non necessario, non prescrivibile eticamente, né imposto economicamente o politicamente, ma conquistabile attraverso una cultura della libertà e della soddisfazione nel lavoro che sia anche solidarietà e socialità delle diversità prodotte dalla libertà (Touraine, 1997; Trentin, 2017, anno 1989 e passim). Cioè con un’idea della socialità della non necessità sociale del lavoro, a partire dal superamento di un lavoro senza autonomia, creatività e responsabilità e dell’ingiustizia nella spartizione dell’«opulenza» prodotta dal lavoro. Un senso del lavoro individuale che non può essere dedotto dal significato sociale del lavoro, né questo essere semplicemente la proiezione dei valori individuali. Una idea della socialità che non metta in gioco solo la socialità del lavoro, ma anche le relazioni e lo stare insieme nel tempo di non lavoro e di ozio. Una cultura che - oltreché rifiutare le mitologie dell’“oltreumano” o della vita su Marte alimentate dalla promessa del nuovo salto produttivo della AI -, pensi a come conservare i risultati della «società opulenta» senza rincorrere nuovi traguardi di super-produttività e super-ricchezza (Latouche, 2007; Parrique, 2025). Vedremo come la formulazione di questa cultura possa anche avvalersi degli insegnamenti di Aristotele e di Spinoza.
3. Nel periodo che arriva alle rivoluzioni settecentesche, in cui la cultura ha ricercato il senso del lavoro necessario, possiamo distinguere quattro valutazioni del lavoro appartenenti all’antichità, due al medioevo ed una al Cinquecento. I testi dell’antichità che meglio rappresentano le posizioni che ci interessano sono le Opere e giorni di Esiodo, la Genesi della Bibbia, la Repubblica di Platone e l’Etica nicomachea di Aristotele (epicurei e stoici non apportano posizioni realmente innovative). I primi tre sono esplicitamente delle ricerche del senso del lavoro individuale, manuale nei primi due e intellettuale in Aristotele. La Repubblica invece introduce nella nostra cultura il valore politico (polis) della necessità della divisione sociale del lavoro. Nello stesso periodo, e anche nei testi citati, la nostra civiltà insieme alla necessità del lavoro, scopre anche l’ozio, di cui nell’Odissea, che non parla del lavoro ma della gloria degli eroi, rinveniamo nel banchetto offerto da Alcinoo re dei Feaci in onore di Odisseo, la prima e una delle più luminose rappresentazioni dell’ozio della nostra cultura. Mentre Aristotele, come vedremo, inventa l’ozio intellettuale (schole), che i latini chiameranno otium. 
Quando Esiodo scrive «I lavori che come destino agli uomini hanno dato gli dèi» (Esiodo, 1999, v. 398) afferma, per la prima volta nella nostra cultura, l’autocoscienza della necessità del lavoro, che il poeta spiega con la perdita dell’età dell’oro. E quando, sempre nelle Opere e giorni, si rivolge al fratello Perse esortandolo a lavorare, perché la «prosperità» e il «successo» ottenuti col lavoro sono una aretè (virtù) (Esiodo, 1999, v. 289) - «il lavoro non è vergogna; è l’ozio (argia) vergogna» (Esiodo, 1999, vv. 309-314) - presenta la prima etica del lavoro della nostra civiltà (Jaeger, 1988). Un’etica che trasforma la necessità del lavoro in una scelta, in una pratica volontaria di necessità ed eccellenza umana: la fatica del lavoro non è un mero mezzo per vivere, ma anche un fine umano. Interessante è pure la condizione che il poeta pone a Zeus per poter lavorare. Esiodo rivolgerà al fratello la propria esortazione etica solo se Zeus assicurerà la Giustizia (dike) necessaria per le «rette sentenze» che assicurino contro il furto dei prodotti del lavoro: «Zeus […] Ascoltami, a me guardando e porgendo l’orecchio: con giustizia le sentenze raddrizza tu, io a Perse voglio alcune verità raccontare» (Esiodo, 1999, vv. 9-10). Il senso individuale del lavoro, cioè, può essere ricavato (eticamente) dalla necessità sociale del lavoro solo se il lavoro viene svolto in presenza della giustizia sociale. Quanto all’ozio intellettuale, distinto dalla «pigrizia» (argia), che Esiodo non tematizza, coincide col dono che le Muse gli hanno elargito di comporre un poema, che ha per oggetto il suo lavoro, ovviamente nel tempo di ozio, in cui Esiodo non lavorando poteva scrivere. Una sintesi umana, quindi, di lavoro necessario ma scelto, elevazione umana, giustizia politica, ozio, quella avanzata e testimoniata in maniera esemplare da Esiodo, non facilmente eguagliata nella nostra civiltà. Senza contare lo straordinario valore, in termini di influenza, che essa ha avuto per essere stata all’origine della storia della nostra cultura.
Anche la Genesi rappresenta una teologia dell’autocoscienza della necessità del lavoro ed insieme una definizione del suo senso individuale inteso religiosamente. La Genesi contiene quattro idee di lavoro: la cura non faticosa del Giardino prima del peccato; l’attività finalizzata al dominio del mondo (Giovanni Paolo II, 2010); l’attività creatrice imitativa del Dio creatore e, infine, il travaglio reso necessario dalla terra restituita ostile all’uomo da Iddio a causa del peccato commesso da Adamo ed Eva, che ricadrà su tutti gli uomini. Una fatica individuale e universale il cui senso religioso è vissuto in funzione del riscatto della vita eterna che il lavoro permette. Nella Bibbia e poi nei Vangeli il lavoro necessario non deve sovrastare (Matteo, 2005, 6, 25), trovando nella adorazione di Dio e nella preghiera non solo un limite, ma il fine; cioè il modo essenziale di essere umani al cui esercizio il lavoro deve servire, come già nell’esistenza, come un mezzo. Il lavoro è racchiuso nella dimensione della necessità e della strumentalità, anche se aperto alla creatività compiuta in nome di Dio. È quindi la fede che unisce senso individuale e necessità del lavoro, la teologia e non l’etica secolare di Esiodo. Mentre la necessità ha una spiegazione teologica, sia In Esiodo che nella Genesi.
Nell’Etica nicomachea Aristotele (Aristotele, 1999, Libro X) introduce l’idea della felicità come autorealizzazione. La felicità che Aristotele persegue non è eufrosine ma eudaimonia, cioè non uno stato d’animo transitorio, ma una condizione umana stabile, razionalmente perseguibile e costruibile volontariamente. Precisamente la felicità che realizza la parte più elevata dell’anima, l’intelletto (nous), che può essere perseguita solo dopo essersi separati dalle preoccupazioni quotidiane (ascholia), cioè dopo aver scelto l’ozio (schole), uno stato di distacco dalla vita quotidiana in cui l’anima può concentrarsi nella realizzazione del suo daimon, il nous. Una scelta esistenziale non transitoria, quella dell’ozio, in cui si ricerca la verità noetica che trasforma in bios theoretikos la vita dedita alla conoscenza. Il lavoro intellettuale come autorealizzazione della facoltà più elevata dell’uomo (il nous), e quindi la forma eccellente (arete) della felicità (eudaimonia). Una forma di lavoro che, come “arte liberale”, nei secoli successivi pretenderà di essere il modello più elevato di attività umana perché libera e autorealizzante. Quindi Aristotele propone l’idea del lavoro come autorealizzazione, anche se la sostiene per il libero lavoro intellettuale e in opposizione al lavoro manuale (poiesis).
Infine Platone che nella Repubblica (Platone, 1998, Libro II) per primo introduce l’idea del valore sociale del lavoro attraverso l’idea della politica come autocoscienza della necessità della divisione sociale del lavoro. Il senso di appartenere ad una polis è dato dall’appartenenza alla divisione sociale del lavoro, intesa come una divisione delle attività necessaria alla riproduzione della vita. Il lavoro sociale quindi come fondamento della socialità, e la partecipazione individuale alla divisione sociale del lavoro come fonte del sentimento di appartenenza ad una organizzazione politica. A fronte di questo valore sociale non rinveniamo invece in Platone la preoccupazione circa il senso individuale del lavoro fondato sull’attività stessa, la quale in sé è sottovalutata e la cui necessità sociale sembra esaurire il suo fondamentale e positivo significato.
L’antichità definisce quindi almeno quattro idee di lavoro necessario che opereranno profondamente nei secoli successivi e, variamente intese e interpretate, incroceranno il lavoro dei monaci, l’emergente lavoro salariale e l’affermazione sociale del lavoro artigiano. Complessivamente possiamo dire che l’antichità costruisce e introduce nella nostra civiltà una cultura del lavoro impegnata a definire l’unità del senso individuale e sociale del lavoro necessario. Il lavoro necessario, quindi, come occasione di un’elevazione individuale, etica, religiosa, culturale e politica, in cui la cultura del lavoro si riappropria dell’autonomia umana ridescrivendola di fronte alla necessità. Un’ unità di senso, come già ricordato, costruita per il lavoro autonomo (manuale e intellettuale) e sull’esclusione sociale e culturale della massa degli schiavi, anche se la condanna universale al lavoro della Genesi non esclude, evidentemente, il lavoro servile. Quindi un’unità definita in assenza della considerazione del lavoro manuale di massa. Per cui, se riteniamo che la nostra società sia progredita sul piano dell’uguaglianza formale, delle libertà e dei diritti, e se è difficile negare che questo non abbia coinciso con una progressiva inclusione della questione del lavoro manuale sottomesso nella discussione della nostra cultura, è anche evidente che le radici della irrisolta questione del lavoro subordinato sono rinvenibili nella condizione servile (Baccelli, 2024).
4. Per il periodo che va dal Medioevo alla rivoluzione industriale ci soffermeremo su tre culture impegnate a ricercare il senso del lavoro individuale: quella monacale; quella giuridica del XI e XII secolo, che tratta del lavoro subordinato, e quella artigiana e delle “arti meccaniche” che approda al pieno successo nel secondo Cinquecento. 
Il cristianesimo, impegnato a salvaguardare il tempo della vita da dedicare alla preghiera ed al rapporto con il Signore, da un lato combatte ogni eccesso nel lavoro che possa compromettere l’autonomia della preghiera, come prescrive l’«ora et labora» di San Benedetto (San Benedetto, 1999); e, dall’altro, subordina ogni valore creativo del lavoro alla testimonianza della gloria di Dio. Lutero subordina alla grazia ricevuta il buon lavoro svolto, il cui senso individuale è eccellente, ma interamente determinato dalla predestinazione, e quindi, benché svolto eticamente nel mondo, resta privo di un senso autenticamente autonomo (Lutero, 2005, cap. 32-36). Per il monaco necessaria è la preghiera non il lavoro, che può essere svolto sia dal monaco, sia dai dipendenti delle proprietà del monastero. Inoltre il lavoro non ha un senso proprio, essendo un mezzo finalizzato alla preghiera, sia perché procura i mezzi per vivere, e quindi per poter pregare, sia perché, quando il monaco non prega, il lavoro lo occupa tenendolo lontano dall’ozio, quando le tentazioni sono più forti. In questa concezione totalmente ausiliaria del lavoro come mezzo, il valore del lavoro viene rivalutato, ma senza avere un significato indipendente. E questo non vale solo per il monaco. Diversamente dal paradigma aristotelico, l’attività spirituale, la preghiera, non si svolge nell’ozio, perché la preghiera non si separa dalle preoccupazioni quotidiane, che vengono considerate attività che occupano il monaco in maniera positiva in attesa della preghiera. Quindi tutte le attività sono mezzi finalizzati alla contemplazione. Il lavoro è tuttavia necessario per la vita del monastero, che costituisce la socialità di questa necessità. Quindi il lavoro individuale del monaco, anche nei casi in cui è economicamente necessario, ha un valore separato e dall’attività individuale stessa e dalla necessità sociale: riceve il significato dal valore dell’attività (la preghiera) che esso permette. È un lavoro scelto per un significato estraneo. Un caso sin qui inedito nella nostra cultura, che ritroveremo, in termini radicalmente diversi, nel lavoro salariato del libero lavoratore.
La questione del lavoro libero sottomesso entra nella nostra cultura, cioè nell’autocoscienza del lavoro necessario delle persone libere, con la discussione tra i giuristi legati alla Scuola di Bologna tra l’XI e il XII secolo, ma la disputa prosegue anche nei secoli successivi e la ritroveremo esattamente negli stessi termini nella Metafisica dei costumi di I. Kant, e, a suo modo, nel diritto del lavoro novecentesco, a segnalare una contraddizione irrisolta della nostra cultura. Il dibattito, iniziato da Irnerio (1050-1125), viene sollecitato dalla scoperta degli articoli del Codice giustinianeo relativi alla locatio operae e soprattutto alla locatio operarum, in un periodo in cui, grazie al cristianesimo, il senso della libertà della persona è assai più vivo e quando, in particolare nel XIII secolo, molti comuni attueranno il riscatto di migliaia di servi (Liber Paradisius, 2007), anche al fine di indebolire l’economia agricola dei signori del contado. La discussione giuridica riguarda la questione se una persona libera possa, per contratto, essere sottoposta nel lavoro senza perdere la propria libertà. Perché, come sentenzierà Bartolo da Sassoferrato nel XIV secolo, “per pactum non potest infringi libertas alicuius” (Passaniti, 2024). Alla fine si ammetterà il contratto di «affitto» (locatio) di una persona solo se il patto avrà una validità temporanea. Molto più radicalmente Kant, dopo la Rivoluzione francese, dirà che il patto è nullo (Kant, 2006, cit.; Tosel, 1988).
Di questa disputa giuridica qui interessa sottolineare che essa conduce all’ acquisizione di un nuovo e più avanzato senso del lavoro fondato sulla mercede. Perché Il punto cruciale non è la sottomissione per libero contratto. Se vi è un compenso pattuito per un’attività lavorativa significa che questa attività è proprietà del lavoratore, cosa che non accade per il servo: il salario attesta la libertà del lavoratore, cioè la proprietà del lavoro. Certo, in una illibertà di svolgimento, ma di una illibertà di natura diversa da quella della servitù, che riafferma e non nega la libertà della persona che lavora in un contesto storico-sociale di lavori servili. Quindi, paradossalmente, il senso del lavoro subordinato individuale di cui stiamo parlando, è la libertà. Prevalendo sulla subordinazione la liberazione dalla servitù sancita dal contratto perché il lavoratore è proprietario di un lavoro concreto. Ancora nel Seicento, come rivendicheranno i Livellatori (MacPherson, 1982 ), la proprietà del lavoro sarà il segno dell’indipendenza del lavoratore nella vendita del lavoro ormai percepito come merce (Hobbes, 2006, Chap. 10). Soltanto con l’organizzazione capitalistica del lavoro (fondata sull’«operai complessivo» (Gesamtarbeiter) di Marx (Marx, 1964, cap. 11) e la trasformazione del lavoro in «lavoro astratto» (Marx, 1964, cap. 1), cambia la natura della proprietà del lavoro. Una cosa è essere proprietari di un mestiere, di capacità e conoscenze per la trasformazione produttiva, e un’altra cosa esserlo di ore astratte di attività da associare alla macchina che non richiede un concreto mestiere. Nella fabbrica il lavoratore è assai più povero e debole, umanamente e contrattualmente. E l’«affitto» di ore astratte di lavoro, che non è l’«affitto» di un mestiere: sottomette il lavoratore alla forma del lavoro imposto dall’impresa, cioè ad un mestiere estraneo che dissolve la sua autonoma identità individuale. Ma dopo la fine del fordismo anche le macchine richiedono capacità e mestiere per lavorare. Per questo, oggi, la «fine del lavoro astratto di Marx» (Trentin, 2021, p. 88) e la «riproposizione della persona nel lavoro» (Trentin, 2021, p. 227 sgg.), nonché il nuovo «intreccio tra lavoro e conoscenza» (Trentin, 2021, pp. 85 sgg.), rappresentano una sfida che il lavoro subordinato può giocare mettendo in atto un’emancipazione in termini radicalmente diversi da quelli pensati per il lavoro astratto. E non essendo più in un contesto servile, la libertà del lavoratore ed il senso del lavoro concreto non saranno più semplicemente garantiti, come nel Medioevo, da un salario, ma dalla partecipazione e dal controllo del lavoro e delle sue finalità.
Il lavoro autonomo dell’artigiano seguirà invece un’altra strada riuscendo a scoprire il senso del lavoro necessario nella creazione del risultato - anche come imitazione della creatività divina (Teofilo 2000, Prologhi) -, ottenuto secondo le capacità e le aspettative dell’artigiano, valorizzando la creatività dell’attività fino alla celebrazione della bellezza dell’opera. In un periodo in cui entra in crisi la contrapposizione tra arti meccaniche e arti liberali, nonché la pretesa superiorità delle seconde, il lavoro manuale, sempre più intrecciato di conoscenze e abilità, ripropone in termini nuovi (cioè oltre la contrapposizione tra praxis e poiesis) l’idea di Aristotele di un’autorealizzazione attraverso l’attività. E l’esercizio del lavoro, sia esso manuale, intellettuale o artistico, suscita la passione, se non addirittura l’amore per un’attività in cui l’umanità del lavoratore cresce mentre trasforma la materia. Tutto questo è testimoniato da una larghissima produzione letteraria del secondo Cinquecento di cui la Vita di Benvenuto Cellini (Mari, 2024), La piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tomaso Garzoni sono esempi particolarmente significati (Cherchi, 2024). Contemporaneamente all’eclissi della contrapposizione tra arti meccaniche e arti liberali si determina nel lavoro manuale una polarizzazione in base alla conoscenza, tra lavori che richiedono elevate competenze e lavori di bassa qualifica.
 Quando Marx nel primo libro del Capitale propone, ai fini dell’analisi del profitto, un’idea di lavoro in «generale», cioè valida «indipendentemente da ogni forma sociale determinata», di fatto propone il paradigma del lavoro artigiano, che funziona anche per il piccolo contadino autonomo. Ma la questione non è che Marx avanzi come lavoro in generale una forma storica di lavoro, ma che la sua proposta testimoni che l’idea di lavoro in generale prodotta dalla nostra cultura, l’idea che abbiamo in testa, ancora oggi, quando parliamo di lavoro (non solo manuale), è il lavoro artigiano libero, che perviene nel Cinquecento alla piena autocoscienza culturale. È questo lavoro che Marx mette a fuoco, quando parla del «processo lavorativo» costituito dall’«idea» dello «scopo» del lavoro; dall’«attività conforme allo scopo» alla cui «legge» il lavoratore deve «subordinare la sua volontà» ed «attenzione», mettendo «in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile»; determinando così un mutamento della natura in cui il lavoratore «cambia allo stesso tempo la natura sua propria» ed in cui, nella misura in cui il lavoro lo «attrae», il lavoratore «gode come gioco delle proprie forze fisiche e intellettuali»; dall’ «oggetto del lavoro»; dai «mezzi di lavoro» (Marx, 1964, 5 ). In altre parole con il Cinquecento inizia un periodo, di cui il XVIII secolo rappresenterà la prima tappa, di verifica e ridescrizione di questa idea che appare costituire tutt’ora lo schema di ciò che chiamiamo lavoro (Sennet, 2008, Micelli, 2011). L’attività per la quale rivendichiamo un senso, oltre quello della sua necessità, corrisponde idealmente al lavoro dell’artigiano, in cui alla materialità dell’«oggetto» e dei «mezzi» indicata da Marx si sono sostituite o accompagnate varie forme di elementi immateriali, anche di carattere linguistico e comunicativo (Mari, 2019, Capp. I e II). 
.
5. Il rapporto tra necessità e senso individuale del lavoro cambia profondamente con le rivoluzioni settecentesche. La Rivoluzione francese dell ‘89 trasforma il lavoro in un fattore e in un criterio di uguaglianza politica (Sieyès, 2020). La necessità, cioè l’universalità concreta del lavoro, è ciò che fonda questa trasformazione. Dopo la rivoluzione è cittadino solo chi lavora, anche la borghesia che è la «prima classe dominante lavora» (Donaggio, 2023, p. 99). Da qui la richiesta di un diritto al lavoro (Antonetti, 2004) - ovvero della effettiva possibilità di essere cittadini - che l’economia di mercato non può prevedere e che la costituzione francese del 1848, dopo un’accesa discussione, non contemplerà (Scotto, 2024). Complessivamente il lavoro acquista un inedito e diretto valore politico che non fonda, come in Platone, solo la società, ma anche il significato sociale delle classi e degli individui.
Quanto alla rivoluzione industriale, essa trasforma la necessità del lavoro in un imperativo culturale, economico (la crescita illimitata), e ricava da questa cultura un nuovo senso individuale del lavoro consistente nella ricerca del guadagno senza limiti. La consapevolezza che la meccanizzazione ha reso il lavoro infinitamente più produttivo trasformandolo in una attività ripetitiva e monotona che rende stupidi e ignoranti i lavoratori (Smith, 1996, p. 949), non genera alcun freno nei confronti della nuova organizzazione del lavoro dipendente. Come non determinano alcun rallentamento della disruption economico-sociale messa in atto dalla borghesia i suoi devastanti effetti umani (Villermé, 1971; Engels, 1972). In questa maniera la cultura ufficiale elabora un senso del lavoro individuale contrario agli interessi umani, e non solo economici, di chi lavora, cioè della maggioranza della popolazione, separando il valore del lavoro dei dipendenti da quello dei datori, e mettendo in conto dello sviluppo un elevatissimo costo umano. 
La cultura ufficiale del lavoro capitalistico elabora, quindi, in maniera totalmente cinica, il senso del lavoro individuale subordinato (guadagno) deducendolo dalle finalità del necessario lavoro sociale stabilite dalla borghesia. Non c’è spazio per alcuna etica nella motivazione del lavoro, se non per quella che identifichi il bene col successo ed il comfort economico (utilitarismo e puritanesimo). D’altra parte la religione si preoccupa della «vita futura» e non di educare «buoni cittadini» (Smith, 1996, pp. 955-56). E per tradurre in motivazione la necessità economica del lavoro, che è sempre un «sacrificio» e una «fatica», è sufficiente fare appello all’«egoismo” (self-love, Smith, 1996, p. 92). Il senso e lo scopo del lavoro consistono nella ricerca di disponibilità di denaro perchè «Tutto il mondo è acquistato col lavoro», come scrive David Hume citato da Smith (Smith, 1996, p. 111). Rispetto ad Esiodo la ricchezza è concepita senza alcun equilibrio etico, e la Giustizia non è richiesta. Da questa prospettiva Smith è il Machiavelli della cultura del lavoro. 
Anche dal punto di vista sociale non abbiamo effettivamente alcuna etica. Il lavoro individuale potrebbe avere la coscienza di contribuire alla costruzione di una ricchezza comune (redistribuibile) e si potrebbe parlare di un senso del lavoro individuale fondato sulle sue finalità sociali. Ma questa etica, in linea di principio possibile e probabilmente efficace, è stata interamente svuotata, sin dalla sua formulazione, dall’iniquità della redistribuzione. Si è, cioè, rivelata una finta etica, incapace di motivare realmente il lavoro. Per cui la finalità del lavoro individuale nella società industriale rimane egoistica (guadagno), concepita e forzata sulla base di una necessità del lavoro determinata dall’insufficiente produttività del sistema.
6. Il patto tra i lavori stabilito in base al senso del lavoro affermatisi con la Rivoluzione industriale, dopo circa duecento anni di immani sacrifici e sfruttamento del lavoro dipendente, attraverso due guerre mondiali e lotte sindacali e politiche, è approdato alla «società opulenta» e dei consumi di massa, in cui il lavoro, mediamente, ha ottenuto, anche in termini di servizi (Welfare), la parte di ricchezza sufficiente alla sua integrazione sociale (Hobsbawn, 2001). Abbiamo sintetizzato questo risultato con il concetto di fine del lavoro socialmente necessario. Tutto ciò, come abbiamo già detto, pone la questione di un nuovo senso del lavoro e non semplicemente di impiegare al meglio l’aumento del tempo libero causato dall’incremento della produttività, come sostengono Bertrand Russell e John M. Keynes sin dagli anni trenta del ‘900. Una tesi secondo cui, ad un certo punto, il problema del senso riguarderebbe solo l’ozio e non il lavoro (Russell, 2005; Keynes, 2009).
Ma la «società opulenta» può essere conservata soltanto attraverso la produzione di un’ opulenza marginale, cioè di nuova ricchezza, creata non tanto per essere assommata alla precedente, anche se questo accade oggettivamente, quanto per mantenere i livelli di ricchezza raggiunti, che non sono un dato statico quanto un flusso di ricchezza che si mantiene solo alimentando di continuo il flusso di produttività. La produzione non è fatta di compartimenti stagni e, in un’economia di mercato, o la si porta avanti tutta, oppure si rischia di recedere illimitatamente. Tuttavia se non si interrompe il processo di produzione illimitata, come se il lavoro fosse ancora socialmente necessario, il senso del lavoro individuale viene meno, scontrandosi con l’ «opulenza» raggiunta che non lo richiede. 
Quindi la produzione marginale richiesta al lavoro per mantenere la società del benessere non è la produzione necessaria per vincere la «fame feroce» (Esiodo, 1999, v. 363), né quella finalizzata alla creazione di una super ricchezza. Si tratta di una ricchezza marginale prodotta da un lavoro marginale che non ha la natura del lavoro necessario, né quella del super lavoro per una super ricchezza. Un lavoro marginale che richiede un senso del lavoro corrispondente all’autocoscienza della necessità marginale del lavoro. E quindi, una nuova cultura del lavoro per elaborare il senso di un lavoro necessario marginalmente per il mantenimento della società del benessere. 
Naturalmente i confini tra accumulazione e marginalità non sono semplici da definire. Quando il mercato e la concorrenza sono, insieme alla tecnologia, i principali driver dello sviluppo il lavoro marginale può facilmente essere trattato come un lavoro necessario. Tuttavia nella «società opulenta» il lavoro, considerato e organizzato come necessario può risultare, come si è già detto, improduttivo perché coercitivo, senza o con insufficiente senso e in certi casi addirittura Bullshit job. Nella società del benessere il senso individuale del lavoro è possibile solo riconoscendo che la ricchezza marginale costituisce l’orizzonte sociale di ogni lavoro, e che la cultura, indipendentemente dalla questione ecologica e dalle vaste zone di miseria mondiale, è già oltre l’idea di una crescita illimitata. 
Abbiamo studiato numerose forme di senso individuale del lavoro costruite dalla cultura del lavoro nelle società del lavoro oggettivamente necessario. Rappresentano un patrimonio di idee e di esperienze indispensabili per la formulazione di una nuova cultura del lavoro al tempo della non necessità sociale del lavoro, ovvero della necessità, diversa, del lavoro marginale. Diversa in quanto definibile come una necessità socialmente e individualmente scelta e quindi limitatabile e controllabile. 
Abbiamo visto che nel passato il senso del lavoro individuale è stato ricavato, o attraverso una elaborazione etica della necessità oggettiva del lavoro, tale da pensare questa necessità come un lavoro volontario capace di elevare umanamente e socialmente il lavoratore; oppure attraverso la l’idea un’autorealizzazione della persona nel lavoro a partire da una rottura (schole) nei confronti delle necessità sociali (ascholia) che affidava alla spontaneità il valore sociale del lavoro, essendo questo concentrato sul valore personale dell’attività (felicità, bellezza, lavoro ben fatto, soddisfazione per la creazione, conoscenza, libertà, ecc.). Nel caso del lavoro marginale necessario entrambe le soluzioni non sono praticabili. Infatti la necessità ha cambiato natura, sia perché è una non necessità rispetto alla necessità della «fame»; sia perché la marginalità necessaria richiede un’autorealizzazione che sia anche un «lavoro sociale» (Honneth, 2025, Excursus primo). Tutto ciò al fine di evitare, sia, l’accumulazione illimitata del lavoro necessario, sia l’unilateralità e l’insufficiente socialità dell’autorealizzazione.
Forse potremmo pensare ad un’autorealizzazione che costruisca una socialità promotrice dell’autorealizzazione e della crescita delle persone. Se l’autocoscienza della necessità del lavoro ha generato l’idea di un lavoro volontario in grado di promuovere l’autotrascendenza del lavoratore, allora è pensabile che l’autocoscienza della necessità del lavoro marginale, quindi scelto, possa generare sia una nuova idea di ozio, sia quella di una socialità indirizzata alla «ricerca ininterrotta» della «liberazione della persona» e della «sua capacità di autorealizzazione» (Trentin, 2021, p. 261). Una cultura della solidarietà in cui le contrapposizioni, non solo della modernità, tra individuo e socialità, egoismo e solidarietà, utilità e dono, interesse personale e bene comune, guadagno e cura, mezzo e fine, libertà e responsabilità, diritti e doveri, ecc. vengano ridescritte come differenze che aspirano ad un’unità che le arricchisca reciprocamente in quanto appartenenti alla stessa esperienza di individui che intendono crescere per «vivere insieme, uguali e diversi» (Touraine, 2009 25) . Una cultura e una filosofia pratica che, ad esempio, tengano conto di Aristotele e Spinoza. Delle idee di ozio e di autorealizzazione da aprire alla socialità, del primo. E della idea di utilitas di Spinoza, secondo cui niente è più utile all’uomo che l’uomo stesso: «poiché la ragione nulla esige contro la natura, essa dunque esige che ciascuno ami se stesso, ricerchi il proprio utile […] e appetisca tutto ciò che conduce veramente l’uomo ad una perfezione maggiore […] Nulla dunque è più utile all’uomo che l’uomo stesso […] e tutti cerchino insieme per sé l’utile comune […] non appetiscono nulla per sé che non desiderino per gli altri uomini, e perciò sono giusti, fedeli e onesti” (Spinoza, 2010, IV, 18). E nel lavoro individuale l’autorealizzazione coincide con l’utilitas che può essere di «tutti».
Una cultura di questo tipo potrebbe unire diversità e socialità ed elaborare il senso di un lavoro che produca ricchezza marginale evitando di inseguire una crescita illimitata che impone di arrivare primi per non soccombere. Tanto più in presenza di una rivoluzione tecnologia all’insegna della Intelligenza Artificiale, che auspicabilmente dovrebbe integrare questa intelligenza con le competenze dei lavoratori e quindi facilitare l’autorealizzazione delle capacità, e non semplicemente sostituirli (Acemoglu e Johnson, cap. 8). Una realizzazione delle competenze che non richiede solo più libertà nell’attività, ma una definizione partecipata dei contenuti e delle finalità sociali della produzione, una democrazia economica che dovrebbe essere l’obbiettivo essenziale della società del XXI secolo che si avvia all’impatto con l’AI. 
Quindi autorealizzazione e socialità. Ed insieme a questa cultura del lavoro di stampo spinoziano-aristotelico, un’idea di ozio da ridescrivere sia come «serious leisure» (Stebbins, 2015) e «ozio creativo” (De Masi, 2022), sia come contemplazione (Totaro, 1999), cioè come un necessario modo di essere non produttivi nel mondo (Ingrao, 2017). Un ozio che non si contrappone al lavoro marginale della società dal lavoro post necessario, contribuendo a qualificare i contenuti di una esistenza liberata dal lavoro senza senso.

