testo integrale con note e bibliografia
1. Ritorno del senso
Da una decina di anni stiamo assistendo al ritorno di un approccio alle questioni del lavoro incentrato sulla dimensione del senso. Il riferimento al senso soggettivo che gli attori (i lavoratori) annettono al proprio lavoro si è venuto configurando come un tassello indispensabile per comprendere non soltanto alcune dinamiche del mercato del lavoro, ma anche, più in generale, l’articolata galassia delle relazioni sociali che si attivano nel – e a partire dal – lavoro. Insomma, è cresciuta la consapevolezza che, per capire le dinamiche e le trasformazioni sociali del lavoro, oltre che alle condizioni materiali, tecnologiche e giuridiche e alle variabili macro-economiche, sia indispensabile guardare anche alle motivazioni soggettive, al contenuto di senso che il lavoratore associa alla propria attività, al posto del lavoro nella vita degli individui. Sta riguadagnando terreno, più in generale, l’idea che era stata di Max Weber e all’origine della sociologia come disciplina, ovvero che la comprensione della fisionomia e delle conseguenze di una pratica o di un’istituzione non possa prescindere dal riferimento al senso intenzionato degli attori .
2. Strati di senso
Il senso che una persona attribuisce ad una determinata attività è, innanzitutto, una componente decisiva per stabilire se si tratta di un lavoro. In termini generali, infatti, possiamo definire lavoro un’attività finalizzata a produrre prestazioni di utilità, vale a dire un’attività strumentale finalizzata all’acquisizione di qualcosa che è a sua volta soltanto un mezzo: un bene o un servizio desiderato perché capace di procurare piacere, soddisfare bisogni o procurare altre prestazioni di utilità.
Ma la capacità oggettiva di produrre utilità non è da sola in grado di connotare un’attività come un lavoro: decisivo è che a questa capacità sia associato un senso intenzionato dell’attore. Ovvero che le prestazioni di utilità conseguibili attraverso una determinata attività siano consapevolmente perseguite. Coltivare un orto può essere un lavoro (può fornire una componente del reddito familiare), ma può essere anche un hobby o una pratica di igiene mentale. Il modo in cui si coltiva l’orto, le relazioni sociali che si costruiscono intorno a questa attività e gli usi delle utilità acquisite variano significativamente in funzione del variare del senso intenzionato che l’attore associa alla coltivazione dell’orto. Ma lo stesso si può dire dell’attività dei programmatori delle industrie creative o dei professori universitari. Perché una qualche attività sia un lavoro è necessario che ad essa sia associata una finalità strumentale rispetto all’acquisizione di prestazioni di utilità.
A questo strato minimo di senso nella modernità se ne sono sovrapposti altri, eterogenei e spesso in tensione anche tra loro. Il primo si è definito a partire dalla circostanza che in un’economia di mercato ad alta divisione del lavoro il perseguimento della propria utilità è legato alla soddisfazione dei desideri altrui. Il lavoro ha un’utilita sociale, produce utilità sociale. Su questa utilità sociale si è costruita l’idea del lavoro come dovere (religioso o sociale) che dal protestantesimo ascetico della prima modernità è giunto alla fine del Novecento. Il lavoro è quell’attività la cui strumentalità a fini individuali si coniuga felicemente con il contributo al benessere della società o almeno di una comunità più ampia di individui. Anche quando è stato percepito come catturato nella logica della valorizzazione del capitale, il lavoro ha conservato questo significato e il movimento socialista è stato uno dei gradi portatori dell’etica del lavoro. 
A questa trascendenza sociale degli effetti del lavoro individuale, a questo senso etico dell’attività lavorativa è stata associata la capacità del lavoro di fornire una risposta alla domanda sul senso della vita. Lavorare non è stato soltanto una necessità materiale, ma un fare capace di dare senso alla vita nel suo complesso.
Nel lavoro si è, poi, cercata una risposta alla domanda sul valore del singolo individuo. Il senso del lavoro è stato così anche la ricerca di un riconoscimento sociale della propria dignità, dell’essere a pieno titolo membri di una comunità o, in una prospettiva diversa, la ricerca della propria autoaffermazione competitiva in termini di successo economico o di progressione di carriera.
Infine, al lavoro si è chiesto di essere ambito di autorealizzazione delle capacità soggettive del lavoratore, il luogo in cui cercare la compiuta espressione di sé, la manifestazione della propria autenticità. Il lavoro come trasformazione del mondo ha assunto così anche il senso della manifestazione nel mondo delle qualità tipicamente umane di un determinato individuo.
Questi diversi strati di senso tra loro eterogenei e talvolta reciprocamente in conflitto hanno costituito la grammatica del senso del lavoro nella modernità. Le risorse e le logiche con cui la società e gli individui hanno scritto e riscritto di volta in volta il senso del lavoro.
3. Il singolarismo come nuova forma di individualismo
La mia impressione è che oggi siamo di fronte ad una profonda riscrittura del senso del lavoro. All’origine di questa ridefinizione non ci sono soltanto le sue trasformazioni materiali (precarizzazione, bassi salari, de-professionalizzazione, frantumazione della separazione fra tempo di vita e tempo di lavoro, ecc.), ma anche la progressiva affermazione di una nuova forma di soggettività, di una forma radicale e inedita di individualismo che chiamo singolarismo . Con questo termine intendo un tipo di individualismo – un tipo puro al quale gli individui reali tendono sempre di più ad avvicinarsi – incentrato su tre caratteristiche.
In primo luogo, l’immediatezza del rapporto con sé, con gli altri e con il mondo come assenza di condizioni, assolutizzazione della datità, non dipendenza da altro. Immediatezza è sinonimo in questo contesto di assenza di mediazione, di un’autoreferenzialità che si traduce in una declinazione solipsistica dell’autonomia, della libertà e del potere del soggetto.
L’immediatezza della singolarità significa, innanzitutto, accettazione incondizionata di sé, dei propri desideri e delle proprie preferenze, rifiuto di ogni lavoro su di sé che non risponda alla logica della razionalità rispetto allo scopo. L’individualità singolarista è, così, una soggettività al di là del principio di coerenza. I materiali presenti all’interno del perimetro identitario – credenze, interessi, preferenze relative agli ambiti più diversi: dagli stili di vita ai rapporti tra i generi, dai consumi alimentari al governo dei flussi migratori – non sono selezionati sotto un vincolo di coerenza e disposti in modo gerarchico, ma semplicemente assemblati, giustapposti. L’identità individuale non è più uno spazio organizzato, ma un sé frammentato, un aggregato caotico di elementi accomunati esclusivamente dall’essere stati risucchiati, attraverso scelte di gusto del tutto arbitrarie e insindacabili, nel campo gravitazionale dell’io.
L’immediatezza della soggettività singolarista si manifesta, inoltre, nel rifiuto della trascendenza dei valori e delle identità collettive: nella labilità delle appartenenze e nella tendenziale riduzione a zero dei vincoli e dei limiti posti da qualsiasi declinazione dell’idea di dovere. Ogni appartenenza risulta temporanea e precaria perché l’inclusione o riposa su una motivazione strumentale o risulta accettabile per il singolo soltanto a condizione di una piena coincidenza fra le proprie posizioni e quelle del gruppo. D’altra parte, il sacrificio anche soltanto parziale delle proprie opinioni/preferenze per qualcosa di sovraindividuale viene percepito come intollerabile.
L’individuo singolarista rivendica, infine, il diritto alla costruzione immediata e irrelata dei significati, al carattere soggettivo della costruzione della realtà. La pluralizzazione incontrollabile dei significati – delle risposte alla domanda «che cos’è?» relativa agli enti (oggetti, fenomeni, processi, eventi) del mondo – produce la perdita del mondo come sfondo-contesto comune in cui si situa l’agire e la vita degli esseri umani. L’individualismo della singolarità ci trasporta così nell’epoca della post-realtà, del disaccordo su ciò che è reale come primario rispetto a quello sul suo valore o sulla sua legittimità. E questa pretesa di arbitrio sui significati non si limita ai fatti, ma investe anche i valori, che perdono qualunque significato preciso e condiviso e si confondono in una sorta di equivalenza generale.
La soggettività singolarista si caratterizza, in secondo luogo, per la fede nella propria unicità. Un’unicità costruita, tuttavia, non sul registro dell’eccellenza, ma dell’originale, inedito, irripetibile assemblaggio di caratteri ordinari. Nel singolarismo l’unicità non allude ad una distinzione verticale, ma alla logica orizzontale della differente composizione di elementi condivisi. L’unicità degli individui singolari non consiste in una eminenza, ma in un differente assemblaggio di ciò che è ordinario e comune.
L’ultima caratteristica dell’individualismo della singolarità è l’immediata traduzione di questa unicità in valore (autenticità) e l’adozione dell’espressione di sé come ragione ultima della propria condotta (espressivismo). Non esiste più alcuna unità di misura esterna all’individuo che consenta di misurarne, in termini di adeguatezza o di qualità, le azioni e le capacità. Siamo di fronte ad una soggettività al di là del principio di realtà, al compiuto sganciamento del valore dell’individuo da qualsiasi conferma (Bewährung), prova, verifica. Orrore per il principio di prestazione e disinteresse all’autoaffermazione. L’unicità singolare di ciascuno diviene fonte di valore e fondamento di pretese soggettive nei confronti di un mondo sociale concepito come il terreno per l’autorealizzazione di un soggetto.
L’individualismo della singolarità è l’esito dell’affermazione dell’assolutismo dell’io: un Weltbild caratterizzato da un radicale orientamento all’immanenza che si traduce, da una parte, nell’elevazione del benessere del singolo in questa vita a scopo assoluto dell’agire individuale, dall’altra, nell’idea della felicità come condizione universalmente accessibile in questo mondo sulla base dell’adozione di un corretto atteggiamento soggettivo. Il mondo non sarà magari il migliore dei mondi possibili, ma è comunque un luogo in cui felicità, salvezza, riscatto sono sempre accessibili come risultati di uno sforzo che per la sua natura strettamente individuale non può contemplare una trasformazione del mondo, ma soltanto un lavoro del soggetto su se stesso. Il destino individuale è interamente nelle mani del singolo e della sua volontà autonoma. Essere felici dipende così esclusivamente dalla capacità del singolo di utilizzare le risorse del mondo e quelle sue proprie per un progetto di autorealizzazione universalmente accessibile e che scarica interamente la responsabilità del fallimento sulle scelte o sulla postura adottate dal singolo individuo: ci si salva da soli, tutti si possono salvare, chi fallisce è per proprio demerito.
L’orientamento all’immanenza non implica la rimozione di tutto ciò che trascende la singolarità, quanto piuttosto la subordinazione della trascendenza alle esigenze della singolarità. L’eclissi della trascendenza non equivale alla rimozione di ogni credenza religiosa (secolarizzazione), o all’assenza di fede in un senso del mondo o della storia (declino dei Weltbilder che attribuivano al mondo un senso oggettivo). L’immagine del mondo dell’assolutismo dell’io non coincide necessariamente con l’idea che il mondo (natura, storia, società) sia un’«infinità priva di senso» . A caratterizzarla, più che l’assenza assoluta di trascendenza o l’annichilimento di qualsiasi relazione del soggetto con qualcosa che lo eccede, è piuttosto l’inversione della gerarchia della relazione: se nella modernità classica era l’individuo al servizio della trascendenza, adesso è quest’ultima ad essere al servizio dell’individuo e delle sue esigenze. La trascendenza ha cessato di essere qualcosa da servire, ed è divenuta qualcosa che viene convocato al servizio dell’individuo e delle sue esigenze di vita. Non è più la dimensione che interpella, inquieta, esige, ma quella che sostiene l’individuo nel compito di vivere/essere se stesso.
4. Dall’universale al singolare
L’assolutismo dell’io e l’individualismo della singolarità stanno riscrivendo il significato del lavoro e rimodellando le sue possibilità di senso. Stanno cambiando le funzioni e la rilevanza del lavoro nella vita individuale, modificando il rapporto fra individuo e società e ridefinendo le esigenze e le autopercezioni dell’individuo. Per non dire del modo in cui si pone la questione del senso della vita. Insieme a questi elementi più di fondo, la rivoluzione neoliberale ha poi modificato in profondità l’idea di sviluppo economico e ridimensionato radicalmente la sua capacità inclusiva.
La riarticolazione del tema del senso del lavoro sotto la spinta della soggettività singolarista si è sviluppata in una pluralità di direzioni.
La prima e più evidente è costituita dal declino del lavoro come dovere religioso, etico o in qualche modo legato alla nostra appartenenza ad un contesto sociale. Il fenomeno delle grandi dimissioni parla anche di una postura post-doveristica segnata dall’indisponibilità a svolgere lavori estenuanti, onerosi in termini di orari e di costi per la vita privata, oltre che molto spesso mal pagati e per nulla gratificanti per le competenze e le capacità di chi lavora. La soggettività singolarista con la sua più generale indisponibilità ad interpretare il registro del dovere, del sacrificio, del servizio è stata un fattore autonomo e significativo della drastica marginalizzazione dell’etica del lavoro.
Quando permane un’attenzione alla qualificazione etica dell’attività lavorativa, questa si trasferisce dall’universale “il lavoro” alla singolarità di uno specifico lavoro che al di là della sua generica utilità sociale si caratterizza per la sua intrinseca razionalità rispetto ad uno specifico valore: la pace e la fratellanza fra i popoli, la tutela dei diritti umani fondamentali, un modo ecologico e solidale verso le generazioni future di abitare il pianeta e di fare economia. Un lavoro qualificato eticamente – dalla cooperazione internazionale al lavoro nelle organizzazioni umanitarie, dalle professioni di cura alle economie diverse – si sostituisce, così, al dovere del lavoro in generale, conservando la capacità di rispondere alla domanda di senso che investe la vita come un tutto. Si realizza così un primo movimento dall’universale al singolare: dall’etica del lavoro al significato/valore etico di uno specifico lavoro.
Il declino dell’etica del lavoro si accompagna ad una riscrittura del senso del lavoro che si muove in direzione della sua riduzione a puro mezzo, del superamento della sua complessa e stratificata alchimia di senso. Per il rapporto del Censis del 2023 una componente decisamente maggioritaria delle lavoratrici e dei lavoratori attribuisce al lavoro un carattere puramente strumentale. Il 62,2% dei maschi e il 63,0% delle femmine ritiene che «il lavoro sia solo un mezzo per garantirsi un reddito» . Il senso del lavoro sembra così ridursi al suo minimo ontologico, allo strato minimo che distingue il lavoro da ciò che lavoro non è.
Il deperimento dell’etica del lavoro e la riduzione del lavoro a puro mezzo, a fonte di reddito, rendono ragione della sua perdita di centralità nella definizione dell’identità e più in generale della sua perdita di valore per la vita degli individui. Sempre per il rapporto Censis 2023, l’87,3 % degli occupati ritiene che sia un errore «Fare del lavoro il centro della propria vita» . Il lavoro non ha perso la sua centralità biografica ed esistenziale soltanto perché ha perso le sue caratteristiche fordiste, perché si è fatto precario, dequalificato, saltuario, incoerente . C’è anche una questione che riguarda la forma della soggettività e non soltanto quella del lavoro. Ad essere venuta meno è l’idea stessa di un soggetto unitario, stabile e centrato. Proprio per la sua natura di assemblaggio eterogeneo di componenti identitarie non gerarchizzate e non coerenti, l’individualismo della singolarità segna la fine del lavoro come fonte esclusiva di definizione del sé e del senso della vita . Fare la conoscenza di qualcuno chiedendogli che lavoro fa è per la sensibilità contemporanea una mancanza di tatto e testimonia non soltanto una mancanza di riguardo nei confronti del destinatario della domanda, ma anche il pregiudizio economicistico e superficiale di chi formula la domanda che l’identità dell’interlocutore possa essere appresa attraverso l’esteriorità della collocazione lavorativa. Non si tratta certo di un dato empiricamente decisivo, ma è comunque significativo che nel rapporto di ricerca del Censis su Il senso del lavoro nella comunità produttiva e urbana di Bologna la percentuale di coloro che dichiara di condividere l’affermazione «Per lei il lavoro è: ciò che definisce l’identità di una persona» sia di poco superiore al 2% .
5. Autorealizzazione e autoaffermazione
Più complessa è la traiettoria del senso del lavoro come ambito di autorealizzazione. Nello scenario fordista novecentesco al lavoro non mancava certamente una dimensione autorealizzativa. Nel lavoro si manifestavano non soltanto capacità e competenze specifiche, ma anche la persona nella sua interezza e generalità: l’uomo come essere generico. Attraverso una determinata attività – non necessariamente scelta – e il modo di condurla trovava espressione il nucleo universale condiviso dell’individualità. Rispetto a questo scenario il singolarismo produce una ridefinizione profonda della semantica dell’autorealizzazione e una sua ridislocazione. 
L’autorealizzazione singolarista è la pretesa che il lavoro consenta l’espressione della unicità individuale, di quell’insieme di competenze, preferenze, aspirazioni, gusti che rende ciascuno unico. Nella reinterpretazione singolarista dell’autorealizzazione troviamo un secondo movimento dall’universale al singolare: dal lavoro come ambito di realizzazione di un individualismo dell’uguaglianza alla ricerca di un lavoro su misura, di quell’unico lavoro in cui si possa esprimere un individualismo della differenza, in cui il singolo possa esprimere la propria creatività, le proprie doti, la propria unicità . Ampiamente registrata dalla riflessione filosofica , l’esigenza di autorealizzazione è anche la motivazione che spesso troviamo alla base della ricerca di un’attività lavorativa che possieda uno profilo etico capace di dare espressione alla personalità individuale. In definitiva, l’autorealizzazione è l’unico tipo di senso che resiste al di là della semplice strumentalità: la ricerca dell’autorealizzazione rimane, ad esempio, fra le motivazioni prevalenti di chi cerca un nuovo lavoro (36,1%), seconda soltanto al desiderio di guadagnare di più .
Ma nella sua declinazione singolarista la ricerca dell’autorealizzazione tende a sottrarsi al riferimento esclusivo o privilegiato al lavoro. L’interpretazione del lavoro come ambito di autorealizzazione risulta contingente, condizionata alla qualità del lavoro, alla sua adeguatezza ad una certa idea di sé del soggetto, al suo percorso formativo, ai suoi interessi e alle sue preferenze. Dove questa adeguatezza non si registra, l’esigenza di autorealizzazione prende altre strade, si riversa fuori dal lavoro, riducendone senso e rilevanza. Il lavoro come puro mezzo può essere così la conseguenza di un lavoro inospitale alle esigenze di autorealizzazione: un lavoro che si rifiuta all’unica condizione di poterselo permettere.
L’enfasi sull’autorealizzazione nella sua versione singolarista si traduce così in una radicale individualizzazione e nella contingenza del senso del lavoro. Contingenza significa, innanzitutto, l’instabilità temporale, l’incostanza biografica del senso attribuito al lavoro e della sua rilevanza nel progetto di vita individuale. Ma contingenza significa anche superamento di qualsiasi uniformità rispetto a una identità collettiva materialmente o culturalmente definita. L’individuo solo di fronte al suo lavoro è anche l’esito del venir meno di qualsiasi pretesa che le preferenze e gli orientamenti che definiscono chi siamo debbano esibire una coerenza interna e disporsi in un ordine gerarchico, e che il nostro essere sociale – la nostra appartenenza ad una qualche collettivo, materialmente o simbolicamente definito – ci imponga un qualche dover essere rispetto al lavoro.
La differenziazione interna alla soggettività si traduce nella proliferazione degli ambiti dell’esperienza potenzialmente dotati e portatori di senso, e il lavoro, con la dimensione di oggettività e di necessità che lo caratterizza, costituisce un terreno inospitale per la ricerca del senso della vita e per l’espressione dell’unicità individuale. La dimensione del lavoro sembra, infatti, inseparabile dall’esperienza della scarsità, della competizione, della gerarchia, della costrizione e pertanto priva di quegli elementi di elezione e di libertà che favoriscono l’espressione di sé e la sensatezza dell’agire e della vita. La ricerca di un senso della vita sembra potersi dispiegare con più chance di successo in ambiti di attività estranei al lavoro – come la militanza civile, l’impegno sociale, le attività artistiche e culturali, ma anche il consumo critico e, più in particolare, l’alimentazione – meno esposti ai ricatti della necessità, meno condizionati dal passato biografico e capaci di razionalità rispetto ai valori.
Infine, la riscrittura del senso del lavoro indotta dall’individualismo della singolarità si manifesta nel declino delle pulsioni autoaffermative e nella marginalizzazione del lavoro come luogo del riconoscimento sociale. Nella sua versione idealtipicamente pura, l’individuo della singolarità possiede la certezza del proprio valore al di là del riconoscimento altrui e di ogni mediazione sociale. In quanto svincolata dal principio di prestazione, l’unicità che si nutre della semplice diversità non ha bisogno del riconoscimento e tantomeno di quello legato genericamente alla propria utilità sociale. Essere riconosciuti continua ad essere rilevante nella competizione per risorse scarse (il reddito, la stabilità occupazionale), ma ha perduto ogni significato per la buona opinione di sé.
6. Un pulviscolo irrappresentabile
Attraverso una pluralità di percorsi e di modalità di ridefinizione del suo senso, l’individualismo della singolarità si traduce nel complesso, da una parte, in un disimpegno (in termini di tempo e di motivazioni) dal lavoro (quiet quitting) e nella crescente disponibilità all’attraversamento del confine fra lavoro e non lavoro; dall’altra, nella propensione all’infedeltà occupazionale, all’instabilità delle relazioni lavorative, alla ricerca di situazioni lavorative più favorevoli dal punto di vista del benessere e di un’idea di felicità al di là e al di fuori non soltanto del lavoro, ma anche del principio di prestazione. Nel già citato rapporto del Censis del 2023 il 94,7 degli italiani dichiara di considerare «molto importante la felicità quotidiana delle piccole cose (amicizie, tempo libero, hobby, ecc.)» .
La frantumazione individualistica del significato (la percezione della funzione, delle forme e dei tempi del lavorare, ma anche l’interpretazione del suo ruolo e del suo posto nella vita individuale e nella riproduzione sociale) e del senso del lavoro (le ragioni per cui lavoriamo e i modi concreti in cui esercitiamo una determinata attività) ha polverizzato i grandi soggetti collettivi in un pulviscolo di atteggiamenti soggettivi, in una infinità di posture nei confronti del lavoro che poi si riversano in aspettative e speranze altrettanto variegate e in interessi anche materiali difficili da coagulare. È in primis da questa trasformazione della dimensione soggettiva che discende l’estrema problematicità della valorizzazione del lavoro in termini di fondamento del conflitto sociale e di fattore del cambiamento politico. Il declino di un’idea condivisa di che cosa il lavoro sia e di quale sia il suo senso – nonché di che cosa debba essere e di che senso debba avere – ha minato le basi per la sua rappresentazione sia politica che sindacale.

