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Nel ringraziare il Presidente Martello per l’invito rivolto a Confindustria a prendere parte al dibattito sul “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile”, redatto dagli illustri professori Caruso, Del Punta e Treu, mi preme evidenziare, anzitutto, l’apprezzamento per l’impostazione che gli Autori hanno voluto dare al loro lavoro.
Provare ad avviare “una riflessione pacata e non contingente” sui temi del lavoro appare davvero un intento meritevole e nobile, in un momento storico che appare, viceversa, caratterizzato o dalla propaganda “urlata” ovvero dall’approssimazione dei “tweet”.
La portata delle sfide che abbiamo di fronte, sia dal punto di vista strettamente economico che sociale ed ambientale, impongono un confronto serio, ragionato, argomentato, ed è per questo che tenterò di fornire il mio apporto che mi auguro risulti costruttivo e utile nell’avanzamento di una visione che riesca a dare risposte equilibrate al disordine che sempre più ci circonda.
Anche se non sono un tecnico della materia giuslavoristica, la mia personale esperienza di imprenditore, che svolgo ormai da quasi quaranta anni, e gli incarichi ricoperti, nel tempo, nel sistema di rappresentanza di Confindustria, sempre fondati sul costante ascolto dei miei colleghi imprenditori, mi hanno inevitabilmente portato a confrontarmi con molte delle tematiche svolte nel Manifesto.
Premetto che anche io, come gli Autori, ritengo che, nel complesso, “i principi e i valori fondativi” della materia giuslavoristica e sindacale “non necessitino di stravolgimenti, bensì di un riesame costruttivo”
Non c’è bisogno di scomodare Tomasi di Lampedusa per ricordare che il miglior modo per non cambiare nulla è proprio quello di proclamare di voler cambiare tutto.
Molto più complessa (e meno “riconosciuta”) è, invece, un’opera riformatrice, paziente e costante, che affronta pragmaticamente i problemi e cerca avanzamenti e non ribaltamenti.
Le analisi sui mali del nostro mondo del lavoro sono molteplici e ben note e convergono sostanzialmente tutte sulle stesse cause: la bassa produttività; il gap tecnologico; la contrattazione collettiva eccessivamente “centralizzata”; il divario permanente tra domanda e offerta di lavoro e, quindi, la mancanza di politiche attive efficienti e l’eccessivo peso dato alle politiche passive; l’eccessiva conflittualità, specie in alcuni settori strategici, come i trasporti, cui si sommano i “mali storici” del nostro Paese, più volte segnalati dalle Istituzioni europee, ossia l’eccessiva burocrazia, la lentezza della giustizia, la mancanza di un effettivo piano di azioni coordinate da parte del decisore politico, con l’aggravante di un debito pubblico straripante.
Ma vorrei prendere le mosse dall’assunto che ho trovato più originale nel Manifesto, e che mi trova totalmente d’accordo, è cioè quello dove si afferma che “la funzione centrale del diritto del lavoro è, oggi più che mai, riconciliare gli imperativi della giustizia sociale con gli obiettivi della crescita”.
Voglio ricordare che una delle prime affermazioni contenuta nel Patto della Fabbrica, ossia l’accordo sottoscritto da Confindustria e Cgil Cisl Uil nel marzo del 2018, afferma espressamente che:
“ l'obiettivo da realizzare con questo accordo” è “ un ammodernamento del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva al fine di contribuire fattivamente alla crescita del Paese, alla riduzione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, alla crescita dei salari, al necessario miglioramento della competitività attraverso l’incremento della produttività delle imprese, al rafforzamento dell'occupabilità dei lavoratori e alla creazione di posti di lavoro qualificati.”
Si vuole, dunque, proprio coniugare, in modo equilibrato ma fattivo, la necessità di assicurare la crescita delle imprese con il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei collaboratori dell’impresa.
Mi sembra che la coincidenza con l’affermazione contenuta nel Manifesto sia pressochè totale.
Il vero problema nasce quando dalle enunciazioni di principio si passa all’attuazione pratica.
In tema di contrattazione collettiva abbiamo stabilito che il contratto nazionale fissa il Trattamento Economico Minimo, che si muove seguendo l’inflazione, per proteggere il potere d’acquisto delle famiglie.
Con la “seconda gamba” invece (ossia il Trattamento Economico Complessivo, che comprende il TEM), si fa la contrattazione di settore, “tailor-made”, tenendo conto che gli aumenti salariali devono essere ancorati a obiettivi di crescita dei settori produttivi ed il salario va certamente aumentato, ma solo in una condizione di sostenibilità, solo se aumenta la “torta da redistribuire”.
Questa “suddivisione” della parte retributiva nel contratto nazionale dovrebbe anche favorire lo sviluppo della contrattazione di secondo livello che, secondo l’unanime parere degli studiosi di economia, è quella che facilita l’aumento della produttività del lavoro in azienda.
Quello che stiamo registrando, invece, negli ultimi rinnovi, è che frequentemente si dimentica che la retribuzione non è una variabile indipendente e che non può aumentare a prescindere dal resto.
Ora, se le relazioni industriali non saranno in grado di adeguarsi al cambiamento, accompagnando le trasformazioni in atto nell’economia e nella società, non riusciranno e contribuire al benessere collettivo, anche in situazioni emergenziali come quella attuale.
Ciò potrà avvenire solo se le relazioni industriali sapranno accompagnare la crescita e il piano per la ripartenza post Covid, mettendo al centro la produttività delle imprese.
In altre parole, concordo con le affermazioni del Manifesto lì dove si dice che il futuro del lavoro non può essere concepito a prescindere dalle dinamiche dell’impresa e del mercato, in quanto il nostro sistema economico, con tutti i suoi limiti, è storicamente quello che ha avuto la maggiore capacità di produzione della ricchezza, secondo schemi “sostenibili”, che è la precondizione della distribuzione.
E’ per questo motivo che, sin dalla sua introduzione, abbiamo fortemente criticato l’impianto del reddito di cittadinanza, non perché fossimo contrari a misure efficaci di contrasto della povertà assoluta e relativa, ma perché il meccanismo individuato è tale da disincentivare la scelta di lavorare e confonde le misure di assistenza con le misure a sostegno della ricerca dell’occupazione. In questo, ancora una volta, ci troviamo in piena sintonia con il Manifesto dove si dice espressamente che “l’obiettivo di dare sostegno a chi si trova in povertà e non è occupabile va distinto dall’intervento per l’attivazione al lavoro”.
Ecco perché nel Patto della Fabbrica abbiamo voluto valorizzare il ruolo dei premi di risultato, della formazione, del welfare ed anche della partecipazione, convinti come siamo dell’importanza di quello che nel Manifesto è definito il “coinvolgimento collaborativo” dei lavoratori, che mette in gioco la persona e le sue motivazioni.
Ecco perché, sul piano pensionistico, siamo contrari, così come affermato nel Manifesto, a misure generalizzate di prepensionamenti o “scivoli”, bensì pensiamo a soluzioni che consentano la “trasmissione del saper fare” tra vecchie e nuove generazioni, valorizzando l’invecchiamento attivo.
Il ruolo della contrattazione collettiva, nel gestire queste tematiche, è e resta centrale per Confindustria, al contrario di quanto afferma qualche nostro distratto interlocutore.
Perché la contrattazione collettiva possa svolgere efficacemente il suo ruolo occorre, però, come fa Confindustria da almeno un decennio, impegnarsi per riuscire ad avere una seria regolamentazione della rappresentanza sia delle organizzazioni sindacali che di quelle datoriali.
In tutta onestà, al costante impegno profuso da Confindustria su questi temi, non sembra corrispondere un impegno di altrettanto spessore nelle maggiori organizzazioni sindacali, specie sul tema della misurazione della rappresentanza datoriale, indispensabile perché si riesca a battere la c.d. “contrattazione pirata” che mina la concorrenza leale tra le imprese e impone condizioni di lavoro non accettabili ai lavoratori.
L’auspicio è che un saggio come il “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile”, con il suo elevato apporto di pensiero, non “dogmatico”, ma pregno di esperienza e concretezza, aiuti tutti i protagonisti del mondo del lavoro, compreso chi scrive, a lavorare per trovare un punto di equilibrio davvero soddisfacente tra le esigenze delle imprese e le ragioni dei lavoratori.

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