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Grazie Presidente, e do naturalmente un saluto cordialissimo ai colleghi e agli amici che si sono collegati.
Il mio intervento sarà breve, quindi, temo alquanto apodittico.
Lo Statuto dei lavoratori ci lascia un’eredità ricca ma insufficiente perché è rimasto muto sui temi della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva. E’ stato un silenzio intenzionale perché il legislatore - in realtà la classe dirigente politica e sindacale - ha ritenuto di demandare la materia all’autonomia collettiva o meglio al sistema sindacale c.d. di fatto che si era definitivamente affermato a seguito delle vicende intervenute nel corso degli anni ’60: come dire la contrattazione articolata (al duplice livello di categoria e aziendale) e il principio del riconoscimento reciproco e volontario tra le associazioni sindacali maggiormente rappresentative e poi comparativamente rappresentative.
Un sistema che si era sviluppato anche attraverso la concertazione sociale. Ma questo silenzio dello Statuto è stato reso progressivamente inaccettabile prima dal referendum modificativo dell’art. 19 dello Statuto e poi dalla sentenza della Corte Costituzionale che legittimando la formula sottrattiva dell’art. 19 determinata dall’abrogazione referendaria ha reso impraticabile la conservazione del modello del sindacato maggiormente rappresentativo nazionale sostituendolo con la figura dell’associazione sindacale non personificata né registrata - come previsto dall’art. 39 cost. - ma semplicemente stipulante o aderente ai contratti collettivi applicabili nell’azienda. Il sindacato non ha la possibilità di autodeterminare la propria rappresentatività dovendosi rimettere in definitiva al riconoscimento delle controparti giusta il disposto superstite dell’art. 19.
Le relazioni sicuramente pregevoli hanno approfondito questa situazione che nasce dallo storico silenzio dello Statuto. E’ una grave lacuna normativa che non può essere colmata dalla autonomia sindacale come è stato dimostrato dalle vicende intervenute tra la fine degli anni ’90 e i successivi anni 2000 che hanno visto l’abbandono della concertazione sociale. Tutto questo rende improponibile il ritorno al modello statutario.
Oggi il sindacato si ritrova privo del riconoscimento legale sia pure indiretto della propria rappresentatività e sembra versare in una prospettiva di crisi di identità che dipende non solo dai noti fattori epocali (la globalizzazione dell’economia, la frammentazione del mercato del lavoro e non ultima la incapacità del nostro sistema politico) ma anche dall’attuale disordine contrattuale. Il sindacato ha tuttora bisogno di una legislazione di sostegno che però muova non più dalla azienda né tanto meno dalla sua identità associativa storica (v. invece l’art. 19 pre-referendum) ma dal riconoscimento della sua base di lavoratori e della differenziazione dei loro interessi. Non più solo sindacato di classe ma sindacato di gruppo professionale e/o produttivo individuato in ragione dell’unità contrattuale o – come si dice oggi – del “perimetro contrattuale”.
Lo Statuto dei lavoratori era basato sulla distinzione e la complementarietà tra la maggiore rappresentatività presunta delle confederazioni nazionali e la maggiore rappresentatività effettiva che dipendeva dalla stipulazione dei contratti collettivi anche solo aziendali. Fu scartata nel 1970 la proposta di ricorrere a forme referendarie: anzi l’art. 21 esclude che il ricorso al referendum possa essere strumento di misurazione della rappresentatività e quindi spazio di competizione tra le organizzazioni sindacali. Oggi una alternativa possibile sembra essere quella disegnata dal c.d. testo unico sulla rappresentanza stipulato il 10 gennaio 2014 (v. anche il successivo accordo del 28 febbraio – 09 marzo 2018) ma è evidente che resta il nodo problematico della eventuale recezione in legge. Per ora in attesa di un intervento del legislatore resta aperto come si sa il tema dei c.d. contratti pirata: e cioè “al ribasso” (con condizioni salariali e normative inferiori) firmati da organizzazioni spesso inconsistenti e comunque non riconosciute dai sindacati confederali “classici”.
Domina dunque l’esigenza di selezionare i contratti collettivi nella loro applicazione concreta e in base alla loro capacità di garantire un trattamento equo e dignitoso ai lavoratori. A questa esigenza da lungo tempo trascurata si è in questi ultimi due anni rivolto l’impegno del Consiglio Nazionale dell’Economia e Lavoro, un organo da tempo messo in discussione ma oggi riqualificato dal livello di alcuni suoi componenti a cominciare dal Presidente Treu.
Non si tratta però di affrontare la questione della distinzione tra rappresentanza e rappresentatività effettiva o volontaria oppure conferita dalla legge. Resta fermo che la contrattazione collettiva è per sua natura bilaterale ed autonoma dalla legge. Occorre piuttosto interrogarsi sulla possibilità di elaborare una nuova cultura sindacale da intendere non come cultura giuridica o sociologica ma come capacità di autocomprensione e autodeterminazione della identità delle collettività che si vogliono tutelare. Significa per esempio riconoscere almeno gradualmente nel tempo che la forza del sindacato proviene non dalla sua partecipazione ai diversi livelli di concertazione con le autorità governative ma dalla sua capacità di governare i processi di formazione e riqualificazione dei lavoratori di fronte ai nuovi modelli di occupazione.
E’ un grande tema di politica del diritto del lavoro e quindi di riflessione sul rapporto oggi tra azione sindacale e intervento legislativo dello Stato. Ma è un tema che ha poi dei riflessi non solo giuridico-dogmatici come quelli affrontati dai relatori – ma sul discorso dei canali tra ordinamento intersindacale e statuale mi permetto di ricordare il pensiero di Gaetano Vardaro che è stato il primo forse anche in raffronto a Giugni - ad elaborare una convincente teorizzazione in materia. Ma il tema è soprattutto di politica legislativa perché non si esaurisce nella ricerca di una produzione normativa di tipo flessibile ma rinvia ad una riconsiderazione del rapporto tra sindacato e pubblici poteri. E ancor più tra sindacato e sistema politico. Il diritto del lavoro è infatti nato in primo luogo dalla iniziativa e dalla cultura del sindacato ma anche dal suo rapporto con i partiti della classe lavoratrice e quindi con lo Stato. Non per nulla il diritto del lavoro è una creazione dello Stato sociale, un elemento costitutivo di un modello democratico la cui sopravvivenza è oggi messa in discussione dal mercato globale e non a caso dai vecchi e nuovi populismi.

 

 

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