TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il modello di partecipazione sindacale co-determinativa nella Legge n. 300/1970 come attuazione anche dell’articolo 46 della Costituzione, e la disposizione collettiva dei diritti individuali dei lavoratori.
Sono di seguito proposte alcune osservazioni sul ruolo del soggetto collettivo, e della relativa autonomia, a partire dalla Legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei Lavoratori, d’ora in poi anche St.Lav.). Questa può essere ritenuta, storicamente, la principale attuazione legislativa anche dell’articolo 46 della Costituzione (prima della stagione del recepimento delle direttive dell’Unione europea), oltre che del principio di libertà sindacale dell’articolo 39, comma 1, Cost., avendo concorso in maniera significativa a delineare il modello italiano di partecipazione sindacale (e dei lavoratori) all’azienda. L’anima sindacale-partecipativa dello Statuto si evince, tra le altre cose, dall’aver fornito al sindacato gli strumenti attraverso i quali esso può concretamente esercitare la libertà e l’attività di partecipazione alla vita e alle determinazioni aziendali, corredandoli della qualificazione giuridica più forte, cioè declinandoli sotto forma di “diritti sindacali” nel Titolo III: imperniato sulla triplice direzione (e dimensione) della valorizzazione del momento assembleare, della consultazione referendaria (che ha assunto negli ultimi anni crescente utilizzo e centralità) e delle guarentigie sindacali . A sua volta, l’applicazione dell’assetto “partecipativo” statutario ha prodotto un effetto per così dire pedagogico, influenzando il reale dispiegarsi delle relazioni sindacali in azienda e le peculiarità dei sistemi di gestione condivisa.
E tali strumenti partecipativi mantengono tuttora la loro validità di fondo, pur se bisognosi di adattamento ai nuovi contesti organizzativi del lavoro privato e pubblico, sempre meno fisici e sempre più digitali (e, per tale via, globalizzati in senso pieno). La diffusa digitalizzazione del lavoro in ogni tipo di impresa – che ha, com’è noto, ricevuto un’ulteriore e decisa spinta per effetto dell’emergenza pandemica, tanto da poterci ormai dire completamente immersi nell’era del lavoro digitale – ha catalizzato rinnovata attenzione sull’attualità e sulla tenuta dell’impianto regolativo e dei meccanismi di funzionamento delle relazioni industriali in azienda, e del connesso strumentario sindacale, in specie rispetto a quanto predisposto dallo Statuto dei Lavoratori in una realtà del lavoro pre-informatica, e quindi sulla prospettiva di ammodernamento delle forme di esercizio dei diritti collettivi dei lavoratori, di fronte all’evoluzione tecnologica, a cominciare dai diritti sindacali digitali .
In breve, malgrado lo Statuto dei Lavoratori sia stato da sempre prevalentemente identificato come complesso normativo volto alla promozione e al sostegno del sindacato e dell’attività sindacale, funzionalmente all’obiettivo di rafforzamento del grado di protezione dei lavoratori , e in effetti sia fondamentalmente tale – e pur in un contesto, all’epoca, di contrattazione collettiva acquisitiva-migliorativa – esso al contempo reca già in sé il seme di un ruolo di segno differente, se non opposto, affidato al sindacato, anche sotto il profilo della tecnica giuridica: codificato come non accrescitivo, bensì peggiorativo-riduttivo, o quanto meno di affievolimento, delle tutele del lavoratore, ossia quello ablativo-abdicativo di diritti individuali di questo.
Esso è rintracciabile, in particolare, negli accordi sindacali aziendali di cui agli articoli 4 e 6 dello Statuto: prefigurati come atti abilitati a disporre del diritto dei lavoratori a non essere sorvegliati a distanza mediante impianti audiovisivi o altre macchine e del diritto di non essere perquisiti, proprio per il tramite di una procedura co-determinativa (benché, ad onor del vero, a seguito della riforma legislativa dell’articolo 4 realizzata nel 2015, dal campo di applicazione della previsione sono fuoriusciti, esulandone, gli strumenti di controllo, attraverso registrazione, degli ingressi/accessi e delle presenze e quelli indispensabili a svolgere la prestazione lavorativa, utilizzati dal lavoratore per renderla).
Più precisamente, l’articolo 4 vigente stabilisce che il previo accordo collettivo sia stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali; in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse Province della stessa Regione ovvero in più Regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Similmente (e ricalcando l’originario articolo 4), l’accordo di cui all’articolo 6 deve essere concluso dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali (in mancanza di queste, con la commissione interna).
Si è dinanzi ad un potere (ovvero, facoltà) di disposizione “collettivo-sindacale” (mediante la produzione di un atto negoziale) di diritti soggettivi della personalità dei lavoratori, negato dalla medesima previsione legislativa allo stesso prestatore di lavoro titolare del diritto uti singulus , cioè a fronte della indisponibilità individuale, pena la nullità di eventuali relativi atti del lavoratore, ovviamente a sua tutela (della libertà e della dignità umana, in attuazione del secondo comma dell’articolo 41 della Costituzione) . Ciò, in considerazione della presunzione dell’ordinamento della ricorrenza di un vizio del consenso del lavoratore, per difetto del requisito della libertà, essenziale per la validità, della volontà di questo, conseguenza della disparità di forza contrattuale e della condizione di soggezione, pure psicologica, del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.
Com’è confermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, inclusa quella della Cassazione Penale, nel ritenere il diritto indisponibile mediante consenso individualmente prestato dal lavoratore (tanto anteriormente, quanto posteriormente all’attività datoriale incriminata): l’autorizzazione, anche scritta, dei lavoratori è reputata inconferente allo scopo del superamento dei divieti di legge per il datore di lavoro (di installazione di impianti e strumenti e di visite personali di controllo in assenza di accordo sindacale o di permesso amministrativo), e dunque non invocabile come scriminante rispetto al relativo reato datoriale (di cui all’articolo 38 St.Lav.) . Ciò, persino se l’acquiescenza proviene dalla totalità di essi, in quanto pur sempre appartenente alla categoria del consenso individuale, anche se unanime, come sommatoria degli assensi dei lavoratori singolarmente resi, e non alla deliberazione sindacale, e dunque non vale a sostituire quest’ultima.
Si tratta, dunque, in entrambi i casi, di una fattispecie di dismissione dei diritti individuali del lavoratore negoziata e concertata, sottoposta alla decisione collettiva mediata attraverso il soggetto sindacale, unico legittimato a ciò per la garanzia di maggiore ponderazione e attenzione alla posizione dei lavoratori (insieme, ma in via meramente sussidiaria e surrogatoria, all’autorità pubblica tramite il provvedimento amministrativo, di cui condivide il medesimo compito autorizzatorio, anche per evitare che – qualora non fossero state previste alternative all’accordo sindacale – la necessaria consultazione dei rappresentanti dei lavoratori finalizzata al raggiungimento di un’intesa si trasformasse nell’attribuzione al sindacato di un vero e proprio potere di veto nei confronti del datore) . In capo al datore di lavoro – pur non essendovi, naturalmente, un obbligo a contrarre – c’è, dunque, sicuramente un obbligo a trattare: un’obbligazione di mezzi, e non di risultato, purché adempiuta in maniera sostanziale, e non formalisticamente, con correttezza e buona fede nella conduzione delle trattative.
Difatti, in carenza di accordo, ai sensi dell’articolo 4 (ulteriormente ritoccato nel 2016) l’installazione degli impianti e degli strumenti è permessa previa autorizzazione (con carattere di definitività) della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro; in base all’articolo 6, su istanza del datore di lavoro, ipotesi e modalità delle visite personali di controllo possono essere disposte da un provvedimento dell’Ispettorato del lavoro (le cui funzioni sono state successivamente esercitate dalla competente Direzione territoriale del lavoro). Tra l’altro, a riscontro della natura superindividuale, rectius collettiva, e non individuale, della prerogativa e dell’interesse sottesi alla norma, l’ultimo comma dell’articolo 6 (come già pure il previgente testo dell’articolo 4) legittima all’impugnativa dell’atto amministrativo (da effettuarsi mediante ricorso, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale), oltre che il datore di lavoro, esclusivamente soggetti sindacali (le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo articolo 19). Inoltre, l’installazione di strumenti suscettibili di monitorare i lavoratori a distanza e le visite personali di controllo sugli stessi, realizzate in violazione di un adeguato coinvolgimento sindacale in adempimento degli articoli 4 e 6 St.Lav., integrano gli estremi della condotta antisindacale (plurioffensiva) del datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 28 St.Lav. .
In questo, lo Statuto è stato antesignano, anticipatore rispetto all’analogo ufficio, riconosciuto al sindacato e all’amministrazione pubblica (nonché alla sede giudiziale, e poi ai collegi di conciliazione e arbitrato e alle commissioni di certificazione), di accompagnamento alla rinuncia (o transazione) a diritti del lavoratore di fonte inderogabile (legislativa o contrattuale collettiva), in quanto organismi terzi che sovraintendono alla effettività della intenzione del lavoratore, con funzione di convalida della stessa. Ciò, nell’ultimo comma dell’articolo 2113 del Codice Civile (inserito dalla Legge 11 agosto 1973, n. 533, di riforma del processo del lavoro, e in seguito integrato dalla Legge 4 novembre 2010, n. 183) con finalità conciliativa , e poi varie altre volte ribadito dal legislatore, fino all’articolo 2103, comma 6, del Codice Civile novellato nel 2015 (a proposito della possibilità di modifica delle mansioni al di fuori dei limiti della norma).
In definitiva, gli accordi sindacali dello Statuto dei Lavoratori svolgono un compito “autorizzativo”, dunque un ruolo dispositivo del diritto, appunto il medesimo attribuito al provvedimento amministrativo suppletivo, con valenza addirittura di esimente penale, e non un compito “regolatorio”, proprio invece del più frequente caso (nella legislazione) dei contratti collettivi “derogatori” di disposizioni normative. Questo si ricava anche dall’ulteriore indizio terminologico, significante della diversa funzione, costituito dalla denominazione di “accordo” collettivo, adoperata non a caso dallo Statuto nelle fattispecie in oggetto: così discostandosi dalla definizione di “contratto” collettivo di lavoro (ovvero, di “contrattazione” collettiva), utilizzata in altre parti del testo legislativo per riferirsi a quello tipico normativo (negli articoli 7, 11, 13, 18, 19, 20, 21, 23, 26, 30, 35, 36), come pure nelle successive disposizioni legislative che nel corso del tempo hanno conferito potere derogatorio al contratto collettivo (fino all’articolo 51 del Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81). Detta dicotomia risulta, peraltro, avvalorata dalla duplice menzione, nel comma 2 dell’articolo 40 dello Statuto dei Lavoratori, dei “contratti collettivi” e degli “accordi sindacali”, per affermarne la salvezza delle disposizioni più favorevoli ai lavoratori (rispetto a quelle di legge).

2. Gli accordi collettivi aziendali, dispositivi del divieto di licenziamenti per motivi economici durante l’emergenza pandemica.
La disposizione sindacale dei diritti dei lavoratori per mezzo di atti di autonomia collettiva si ritrova nuovamente prevista in successive occasioni dal legislatore, pure in tempi recenti, anzi recentissimi.
Il riferimento non vuole essere, ovviamente, ai numerosi rinvii legali ai contratti collettivi, oggi anche nel Jobs Act (si pensi, solo come uno dei molteplici esempi rinvenibili nel Decreto Legislativo n. 81/2015, ai commi 4 e 7 dell’articolo 2103 del Codice Civile da esso riformato, in tema di mansioni) ; né alla contrattazione collettiva di prossimità; né tanto meno alla più risalente contrattazione gestionale per i licenziamenti collettivi (benché distributiva di sacrifici nei confronti dei lavoratori, dunque con un ruolo peculiarmente contrario rispetto a quello consueto, di vantaggio per i lavoratori perché incrementale delle condizioni dei rapporti di lavoro). In tutti questi casi si è in presenza, infatti, di attribuzione all’autonomia collettiva del differente potere di deroga, cioè di un compito di disciplina di determinati profili, anche in direzione peggiorativa del dettato di legge, sovente per espressa prescrizione legislativa. In particolare, la Legge 23 luglio 1991, n. 223 attribuisce agli accordi sindacali aziendali stipulati nel corso delle procedure di licenziamento collettivo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, la possibilità di stabilire la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte (incluso il demansionamento), anche «in deroga» all’articolo 2103 del Codice Civile (articolo 4, comma 11).
Parimenti, la funzione del contratto collettivo di prossimità (di cui all’articolo 8 del Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla Legge 14 settembre 2011, n. 148) è qualificata dal legislatore come operante «in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro» (comma 2 bis), ossia alla disciplina legislativa e contrattuale collettiva di livello nazionale degli istituti elencati nella norma, inerenti all’organizzazione del lavoro e della produzione, col solo limite del rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro . Si tratta, com’è noto, di contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, realizzativi di specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati , a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività (comma 1).
Poiché, poi, tra le materie di competenza dei contratti di prossimità compare, in verità al primo posto, il riferimento «agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie» (comma 2, lettera a), in tale ambito coesistono e convivono attualmente due tipi di atti di autonomia collettiva, con funzioni differenti: gli accordi stipulabili ai sensi dell’articolo 4 St.Lav., dispositivi dei diritti individuali dei lavoratori, nei limiti consentiti dal legislatore; e i contratti collettivi di prossimità di cui all’articolo 8 del Decreto Legge n. 138/2011, derogatori della disciplina di legge.
Detto contratto di prossimità ha, dal punto di vista qui considerato, destato persino scalpore in una parte della dottrina: benché, in realtà, la sua peculiare collocazione, in quanto mero contratto collettivo, nel sistema delle fonti del diritto (e del diritto del lavoro), in specie nel rapporto con quelle eteronome, non rappresenti propriamente una novità. Un pari potere di regolazione derogatoria della legge – di altrettanta, se non maggiore, ampiezza – era stato, ad esempio, già assegnato al contratto collettivo del lavoro pubblico, là dove il comma 2 bis dell’articolo 2 del Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (inserito dal Decreto Legislativo 23 dicembre 1993, n. 546) stabiliva che nelle materie contrattualizzate (ossia non soggette a riserva di legge ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera c, della Legge n. 421/1992), eventuali norme di legge, intervenute dopo la stipula di un contratto collettivo, avrebbero cessato di avere efficacia, a meno che la legge non avesse disposto espressamente in senso contrario, dal momento in cui fosse entrato in vigore il successivo contratto collettivo. Oggi, inoltre, l’articolo 2, comma 2, del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (successivo alle modifiche del Decreto Legislativo 25 maggio 2017, n. 75) stabilisce che eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate – nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell’articolo 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal decreto – da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili.
La norma da richiamare, in chiave dispositiva, è, invece, quella riguardante i decreti legge volti a fronteggiare le ripercussioni dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 sull’economia (e sull’occupazione): la funzione, cioè, da essi attribuita, anche qui ad un “accordo” collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, di disposizione del “diritto soggettivo” dei lavoratori di non essere licenziati per ragioni economiche, temporaneamente ad essi assicurato dal legislatore sotto forma di preclusione del recesso datoriale (o di sospensione delle procedure pendenti) per il periodo di durata della pandemia (con invalidità dell’eventuale licenziamento comminato medio tempore) (articolo 14, specialmente comma 3, Decreto Legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni dalla Legge 13 ottobre 2020, n. 126; articolo 12, commi 9-11, Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla Legge 18 dicembre 2020, n. 176; articolo 1, commi 309-311, Legge 30 dicembre 2020, n. 178; articolo 8, commi 9-11, Decreto Legge 22 marzo 2021, n. 41, convertito con modificazioni dalla Legge 21 maggio 2021, n. 69; articolo 4, commi 4, 5 e 8, Decreto Legge 30 giugno 2021, n. 99). Detto accordo collettivo deve essere stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale . Lo scavalcamento del divieto di licenziamento collettivo o di quello individuale per giustificato motivo oggettivo è, nel caso di specie, subordinato al fatto che il lavoratore aderisca manifestamente al predetto accordo sindacale, a riprova della natura dispositiva, e non derogatoria, dell’accordo: in questa ipotesi, per scelta legislativa, non ex se, di per sé stesso, ma – diversamente dagli accordi di cui allo Statuto dei Lavoratori – bisognoso del contributo attivo dei lavoratori potenzialmente destinatari del licenziamento , mediante espressione di volontà di accettazione, con il concretarsi di una fattispecie di risoluzione consensuale del rapporto individuale di lavoro. Di cui l’accordo sindacale rappresenta, però, pur sempre il presupposto, senza il quale rimane ferma la inesigibilità dell’effetto estintivo del rapporto nei confronti del prestatore di lavoro (tendenzialmente anche in caso di assenso di quest’ultimo, dovendosi presumere – in mancanza di accordo aziendale – realizzato un tentativo di aggiramento del blocco legislativo di recesso). Detto accordo concorre così, sul piano collettivo, alla disposizione del diritto del lavoratore alla persistenza/permanenza/continuazione del rapporto di lavoro, anzi ne costituisce la condizione necessaria di legittimità, svolgendo anche in questo caso una funzione “autorizzatoria-ripristinatoria” della facoltà di recesso datoriale (in aggiunta, prescrivendone la bilateralità) dal contratto individuale di lavoro .

3. Sulla differenza tipologica delle funzioni, “derogatoria di norme” e “dispositiva di diritti”, del contratto collettivo.
Gli esempi riportati, riguardanti per lo più il contratto collettivo di livello aziendale , costituiscono lo spunto per riflettere conclusivamente – in linea più generale e in un’ottica differenziale chiarificatrice, anche in termini tipologici di configurazione giuridica del provvedimento – sulle implicazioni delle funzioni, “derogatoria di norme” e “dispositiva di diritti”, per il contratto collettivo , non solo decentrato.
La funzione di deroga a una statuizione legislativa, o comunque ad altra fonte del diritto, presuppone il conferimento al contratto collettivo, da parte del legislatore, di una competenza di natura regolativa, ovvero il rinvio legislativo di potestà normativa in senso stretto . La funzione dispositiva concerne, invece, il differente ruolo del contratto sindacale, di determinazione/incisione su aspetti e condizioni soggettive, legati alla gestione, dei rapporti di lavoro .
Più (e oltre) che la questione, per altro non dirimente, della retroattività o meno della previsione collettiva, il principale tratto distintivo in rilievo attiene, dunque, proprio alla funzione giuridica (e alla relativa concezione), e conseguentemente alla natura giuridica e al tipo stesso di atto giuridico, diverso nei due casi: più fonte regolativa-normativa delegata dal legislatore, ossia “contratto collettivo normativo” in accezione propria, come fonte giuridica appunto, nel primo caso; più atto “autonomo”, contratto nel senso di “accordo”, espressione e frutto di autonomia negoziale interprivata collettiva, nel secondo caso.

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