TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. – L’art. 18, comma 4, St. Lav., come modificato dalla Legge Fornero, prevede per i licenziamenti disciplinari la tutela reale nei soli casi di insussistenza del fatto contestato e di sua previsione nella tipizzazione collettiva come infrazione punibile con una sanzione conservativa.
Il ruolo della tipizzazione collettiva assume quindi rilevanza, oltre che nella valutazione della legittimità del recesso in virtù della derogabilità in melius delle clausole generali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo , nell’individuazione della tutela, reale o indennitaria, da accordare al lavoratore.
Ciò ha suscitato un vivace dibattito dottrinale circa l’interpretazione della norma nel suo riferimento alle «condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari» .
Un primo orientamento, richiamando il dato letterale e la ratio della norma, interpreta detto riferimento in termini di necessaria tipizzazione collettiva dell’illecito disciplinare ritenendo così accordabile la tutela reale nei soli casi di coincidenza tra fatto contestato ed illecito puntualmente tipizzato .
Altri autori, rilevando come la disciplina contrattuale abbia natura esemplificativa e contenga formule spesso poco specifiche, ritengono detta locuzione più genericamente riferita alla scala valoriale desumibile dalla tipizzazione collettiva sì da consentire il riconoscimento della tutela reale in caso di fatti contestati riconducibili ad illeciti genericamente delineati dalle parti sociali e pure in caso di fatti contestati espressivi di un disvalore analogo a quello degli illeciti tipizzati .

2. – Il medesimo contrasto è rinvenibile nella giurisprudenza di legittimità.
Quanto all’interpretazione delle «condotte punibili con una sanzione conservativa», dopo alcune pronunce che hanno ritenuto detta espressione riferita alla scala valoriale espressa dalle parti sociali , è prevalsa, sino a costituire diritto vivente, la lettura in termini di necessaria tipizzazione dell’illecito disciplinare e sua stretta interpretazione con conseguente impossibilità di estendere la casistica contrattuale a fattispecie diverse in virtù di una loro interpretazione estensiva e/o analogica.
Il diritto vivente ritiene quindi applicabile la tutela risarcitoria vuoi nei casi in cui il fatto contestato, per le sue caratteristiche e peculiarità, non sia coincidente con l’illecito tipizzato vuoi nei casi in cui la contrattazione collettiva non individui determinati illeciti disciplinari passibili di sanzioni conservative .
In tali pronunce la Suprema Corte ha richiamato il principio della derogabilità in melius delle nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e relativo orientamento giurisprudenziale circa la natura vincolante della tipizzazione collettiva rilevando come la novella appaia «pienamente coerente rispetto a tali indirizzi consolidati, laddove prevede che, ove il fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, non solo il licenziamento sarà ingiustificato senza possibilità di diversa valutazione da parte del giudice ma il giudice dovrà annullare il licenziamento, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro» .
I giudici di legittimità hanno quindi affermato detto principio di stretta interpretazione sia richiamando i criteri di ermeneutica contrattuale che escludono, in generale, l’interpretazione analogica dei contratti collettivi e, con riferimento alle norme eccezionali , pure quella estensiva sia interpretando la ratio della novella nella volontà legislativa di limitare la tutela reale ai casi di «abuso consapevole del potere disciplinare» consistente nella «sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo» .
Tale orientamento non si è invece pronunciato in merito ai criteri di formulazione delle clausole collettive necessari per poter ritenere effettivamente tipizzato l’illecito disciplinare.
La problematica si pone sia in relazione alle norme contrattuali che delineano gli illeciti disciplinare in termini generici, come nel caso, frequente nella contrattazione collettiva, di comportamenti che rechino «pregiudizio alla disciplina, alla morale, all'igiene ed alla sicurezza del lavoro» , sia in relazione alle norme contrattuali che prevedono sanzioni conservative ed espulsive in relazione alla gravità della condotta, come nel caso, altrettanto frequente nei contratti collettivi, della «insubordinazione lieve» punita con sanzione conservativa e della «insubordinazione grave» punita con il licenziamento .
Su dette questioni l’orientamento giurisprudenziale non è affatto uniforme.
Così, quanto alla descrizione degli illeciti disciplinari, la Suprema Corte in una recente pronuncia ha infatti ritenuto la formulazione generica delle clausole collettive incompatibile con la «nozione rigorosa di tipicità» richiesta dalla norma mentre in altre sentenze, altrettanto e più recenti, ha riconosciuto valenza tipizzante ad illeciti disciplinari delineati in maniera del tutto generica .
Allo stesso modo, quanto alla determinazione alternativa delle sanzioni conservative ed espulsive in funzione della diversa gravità dei fatti, la giurisprudenza di legittimità in alcune pronunce ha escluso la tipizzazione della sanzione conservativa rilevando come le stesse parti sociali avessero previsto la facoltà di recesso per i casi di maggiore gravità mentre in altre sentenze, più o meno coeve, ha ritenuto detta riserva non ostativa alla tipizzazione e relativa applicazione della tutela reale .

3. – Il caso esaminato dall’ordinanza in commento si riferisce ad una disciplina collettiva formulata, per quanto di rilievo rispetto al giudizio, in termini generici.
In particolare, i fatti contestati consistevano nell’omessa denuncia di un’aggressione subita in servizio da una guardia giurata e nell’omessa trasmissione alla Questura dei turni di servizio mentre la norma contrattuale prevedeva, oltre ad alcuni illeciti specificamente definiti, una più generica casistica data dall’esecuzione del lavoro «senza la necessaria diligenza» o «con negligenza grave» nonché dall’omessa parziale esecuzione del servizio assegnato .
Esclusa la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo, i giudici hanno accordato la tutela risarcitoria in fase sommaria e quella reale in fase di opposizione aderendo agli opposti orientamenti citati.
La Corte di appello, ribadita la minima rilevanza disciplinare dei fatti contestati, ha escluso la tutela reale ritenendoli non sussumibili nelle citate fattispecie contrattuali «formulate in modo assai generico ed indefinito» .
Il lavoratore ha impugnato la sentenza per violazione delle norme, legali e contrattuali, sostenendo la riconducibilità dei fatti contestati alla tipizzazione collettiva delle sanzioni conservative.

4. – Nel delineato panorama giurisprudenziale, i giudici di legittimità avrebbero potuto decidere la causa senza porsi in contraddizione con il diritto vivente non venendo in rilievo, nel caso de quo, il tema della divergenza tra fatti contestati ed illeciti tipizzati bensì quello delle norme contrattuali delineanti gli illeciti disciplinare in termini generici rispetto al quale, come rilevato, l’orientamento della giurisprudenza non è ancora univoco.
La Corte avrebbe infatti potuto accogliere il ricorso semplicemente riconoscendo valenza tipizzante alla citata casistica contrattuale cui, superato il rilievo di genericità della formulazione ritenuto ostativo dai giudici di appello, avrebbero potuto ricondursi i fatti contestati senza necessità di interpretare in maniera estensiva o analogica la disciplina contrattuale.
La Corte, evidentemente mossa da altre “finalità” rispetto alla soluzione del caso concreto, con l’ordinanza in commento ha colto l’occasione per sollecitare un’ulteriore riflessione sula portata precettiva dell’art. 18, commi 4 e 5, St. Lav. prospettandone l’incostituzionalità per irragionevolezza e disparità di trattamento ove interpretato in conformità al diritto vivente.
In primis, i giudici di legittimità rilevano che, in caso di norme collettive che delineano gli illeciti disciplinari «attraverso clausole generali (ad es. negligenza lieve, negligenza grave, insubordinazione lieve ecc.)», la sussunzione del fatto contestato nella norma contrattuale «non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato» stesso.
Al di là del rilievo per cui le esemplificazioni citate dalla Corte non costituiscono clausole generali bensì condotte (così per l’insubordinazione) o fattori soggettivi (così per la negligenza) individuati in relazione alla loro gravità, deve preliminarmente osservarsi come i requisiti di tipicità della contrattazione collettiva vadano ricavati dalla norma legale a prescindere da ogni distinzione tra giudizio di sussunzione e giudizio di proporzionalità.
La residualità della tutela reale e, soprattutto, la volontà legislativa di graduare il sistema sanzionatorio in relazione al vizio del recesso e relativa gravità dell’inadempienza datoriale impongono di interpretare il riferimento alle clausole collettive in termini di stretta tipicità con esclusione delle norme che prevedono sanzioni alternative in funzione della gravità dei fatti e che delineano l’infrazione in maniera generica non essendo in tali casi configurabile una “chiara” e “preventiva” consapevolezza dell’illegittimità del recesso da parte del datore di lavoro.
Peraltro, la prospettata distinzione tra giudizio di sussunzione e giudizio di proporzionalità è del tutto evanescente.
In caso di sanzioni correlate alla gravità della condotta (nei suoi profili oggettivi o soggettivi ), la distinzione tra le fattispecie e, quindi, l’elemento qualificante della sanzione conservativa è dato unicamente dalla gravità che, in assenza di ogni altro riferimento delle parti sociali (come nell’esemplificazione citata dalla Corte), è valutata dal giudice secondo le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo per cui il giudizio di sussunzione coincide integralmente con quello di proporzionalità.
Il connotato di “levità” di cui alle clausole citate dai giudici di legittimità, pure in assenza di una espressa previsione di recesso in caso di “gravità”, esprime in sé il concetto legale di proporzionalità.
A diversa conclusione non può giungersi, come assume la Corte, sostenendo che il giudice deve verificare la sussumibilità del fatto contestato nella negligenza lieve e non valutare se per la negligenza lieve sia proporzionato o meno il recesso.
La distinzione è nuovamente evanescente in quanto il giudizio di sussunzione presuppone la valutazione della gravità del fatto secondo le clausole generali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e, quindi, nuovamente coincide con il giudizio di proporzionalità legale.
Evidentemente consapevole dei limiti di tale argomentazione e, soprattutto, della sua estraneità rispetto alla diversa questione risolta dal diritto vivente circa il divieto di estendere la casistica contrattuale a fattispecie diverse in virtù di una loro interpretazione estensiva e/o analogica, la Corte rileva come l’orientamento consolidato presenti profili di irragionevolezza e di disparità di trattamento tali da dubitare della sua conformità ai principi costituzionali.
In particolare, sarebbe irragionevole attribuire alla tipizzazione delle sanzioni conservative il ruolo di discrimine tra la tutela reale e quella risarcitoria in quanto la tipizzazione i) non è prevista dalle parti sociali con quella finalità, ii) non ha un nesso eziologico e valoriale rispetto a tale ruolo distintivo, iii) determina una “eterogenesi” dei fini rispetto alle clausole generali.
Nessuno di tali rilievi coglie nel segno.
Così, la diversa finalità (deroga in melius rispetto ai principi legali) già sottesa alle tipizzazioni collettive non preclude certo al legislatore di attribuire alle stesse l’ulteriore ruolo di discrimine tra tutela reale e risarcitoria ben potendo (rectius, dovendo) le parti sociali eventualmente integrare o modificare le tipizzazioni collettive in relazione alle esigenze poste dal nuovo ruolo loro attribuito.
Il “nesso valoriale” è insito nella nuova formulazione della norma, e relativa graduazione del sistema sanzionatorio in relazione alla gravità del vizio inficiante il recesso non potendosi certo negare la differenza, appunto “valoriale”, tra un recesso icto oculi illegittimo in quanto precluso da una specifica pattuizione collettiva ed un recesso sproporzionato.
La prospettata “eterogenesi dei fini” ignora che, come rilevato dalla Suprema Corte nella nota sentenza n. 12365/2019 (e successive conformi), il ruolo di discrimine tra tutela reale e tutela risarcitoria attribuito dalla Riforma Fornero alla tipizzazione delle sanzioni conservative si aggiunge ed è “coerente” con il ruolo alla medesima già attribuito di norma di miglior favore, ai sensi dell’art. 12, l. n. 604/1966 e dell’art. 40, l. n. 300/1970, rispetto ai canoni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo.
Nella vigenza della precedente disciplina, in virtù di tale derogabilità in melius delle nozioni legali, la giurisprudenza ha ritenuto vincolante la sanzione conservativa di fonte collettiva, con conseguente illegittimità del licenziamento a prescindere da ogni valutazione legale di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, solo in caso di precisa coincidenza tra fatto imputato al lavoratore ed illecito tipizzato e sempre che le parti sociali non avessero previsto la facoltà di irrogare il licenziamento per i casi di maggiore gravità .
Successivamente alla novella del 2012, per valutare la legittimità (o meno) del recesso la giurisprudenza ha parimenti interpretato la natura vincolante della tipizzazione collettiva nei termini indicati di coincidenza tra condotta addebitata al lavoratore ed illecito tipizzato e sempre salva la volontà delle parti sociali di non escludere il recesso nei casi di maggiore gravità .
Tale interpretazione conferma la correttezza del diritto vivente che, nella determinazione della sanzione in virtù del nuovo ruolo attribuito alla tipizzazione collettiva, applica il medesimo criterio ermeneutico riconoscendo la tutela reale solo in caso di coincidenza tra fatto contestato ed illecito tipizzato.
Detta “coerenza” interpretativa è peraltro imposta da ovvie esigenze sistematiche non potendo certo prospettarsi che in sede di valutazione della legittimità del recesso la tipizzazione collettiva sia intesa in termini di coincidenza tra condotta addebitata ed illecito tipizzato e nella successiva fase di determinazione della sanzione la medesima tipizzazione sia invece intesa come mera scala valoriale con facoltà di interpretazione estensiva ed analogica della casistica contrattuale.
Ciò in conformità alla rispettiva natura eccezionale delle norme, in fase di valutazione della legittimità del recesso quale deroga in melius alle nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e, in fase di determinazione della sanzione, quale deroga alla valenza generale della tutela indennitaria .
A parere della Corte l’interpretazione data dal diritto vivente alla norma de qua sarebbe altresì contraria al principio di uguaglianza per disparità di trattamento tra i licenziamenti irrogati per illeciti tipizzati dalle norme collettive, per i quali è prevista la tutela reale, ed i licenziamenti comminati per illeciti non tipizzati ma di pari o minore rilevanza disciplinare, per i quali è invece prevista la tutela risarcitoria.
Contrariamente a quanto assunto dai giudici di legittimità, le situazioni comparate non sono affatto omologhe.
Nella valutazione del licenziamento, infatti, devono essere considerate sia la posizione del lavoratore sia quella del datore di lavoro per cui, nel caso de quo, deve escludersi detta uniformità data la maggiore gravità dell’inadempienza imputabile al datore di lavoro che, nonostante la preclusione derivante da una specifica previsione contrattuale, irroga il recesso.
Peraltro, ciò ha pure riflessi sulla posizione del lavoratore la cui dignità e personalità può ritenersi maggiormente lesa da un «abuso consapevole del potere disciplinare» come quello che appunto si verifica in caso di recesso per una condotta specificamente sanzionata dalle parti sociali con una misura conservativa.
Invero, la disparità di trattamento si avrebbe proprio aderendo all’interpretazione analogica auspicata dalla Corte.
Così, la carenza di proporzionalità desumibile dalla scala valoriale espressa dalle parti sociali darebbe luogo ad una diversa tutela rispetto alla carenza di proporzionalità discendente dalla nozione legale di giusta causa e giustificato motivo soggettivo , pur in assenza di ogni differenziazione sia per la posizione del lavoratore sia per quella del datore di lavoro.

5. – La Suprema Corte pare quindi prospettare, a monte, un profilo di irragionevolezza della norma costituito dalla distinzione tra tutela reale ed obbligatoria in virtù della previsione o meno del fatto contestato nelle tipizzazioni collettive e, in via per così dire gradata, un profilo di disparità di trattamento tra illecito tipizzato dalle parti sociali ed illecito di pari o minore rilievo disciplinare.
In attesa di conoscere le ulteriori riflessioni della Sezione Lavoro, deve rilevarsi come tali profili, al di là delle precedenti argomentazioni di merito, siano difficilmente traducibili in una questione di costituzionalità.
Così, quanto alla prospettata irragionevolezza tout court del discrimine, è arduo delineare un intervento demolitivo o additivo della Corte Costituzionale che determini una parificazione tra il fatto riconducibile ad un illecito tipizzato dalle parti sociali e sanzionato con una misura conservativa ed il fatto di gravità tale da non legittimare il recesso secondo le clausole legali.
Ciò salvo prospettare una riscrittura pressoché integrale della norma che, non essendo a rime obbligate, sarebbe semplicemente eccedente gli stessi poteri della Consulta con conseguente manifesta inammissibilità della questione di costituzionalità eventualmente posta.
Per di più considerato che, nelle more, il legislatore con il d.lgs. n. 23/2015 ha radicalmente escluso ogni tutela reale per vizi diversi dalla insussistenza del fatto materiale contestato significativamente precisando l’estraneità ai fini di detta fattispecie e relativa tutela di «ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».
Quanto alla disparità di trattamento, è parimenti arduo ipotizzare una pronuncia demolitiva o additiva volta ad equiparare gli illeciti tipizzati a quelli di pari o minore rilievo disciplinare così come una sentenza interpretativa di rigetto che la Consulta tendenzialmente esclude a fronte di un diritto vivente .
Tali problematiche sono state certo considerate dalla Corte che, infatti, non ha sollevato alcuna questione di costituzionalità, ben potendolo fare proprio a fronte del diritto vivente, ma si è limitata ad evocare tale questione nella sollecitazione posta alla Sezione Lavoro per una “ulteriore riflessione” sull’interpretazione della norma de qua.
La finalità, evidente, del Collegio è quindi quella di pervenire (in via diretta o tramite la rimessione alle Sezioni Unite) ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma che, in conformità al principio di uguaglianza, riconosca la tutela reale per fatti di pari o minor rilievo disciplinare rispetto agli illeciti tipizzati in virtù di una loro interpretazione estensiva e/o analogica.
In attesa della Sezione Lavoro, ci asteniamo da ogni previsione circa l’auspicato revirement rilevando però come in una sentenza di poco successiva la Sezione Lavoro, pur richiamando il diritto vivente e la natura eccezionale della tutela reale, ha significativamente rilevato che «non può neppure escludersi la praticabilità di un'interpretazione estensiva delle clausole contrattuali ove esse appaiano inadeguate per difetto dell'espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione» già così obliterando la ratio della norma di limitare la tutela reale ai casi di consapevole abuso del potere disciplinare.

 

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