Testo integrale con note e bibliografia

Qualcuno un giorno scriverà con accenti biblici: ‘’In quell’anno gli italiani attesero il vaccino contro il covid-19 come se fosse un Redentore. Quando arrivò, molti di loro non lo riconobbero’’.
E’ veramente surreale il dibattito che si è aperto tra i soliti guelfi e ghibellini a proposito della somministrazione del vaccino: deve essere un obbligo di legge oppure basta una calorosa raccomandazione? Nessuna meraviglia; i Dpcm ci hanno abituato a trovare nei loro testi sia obblighi che raccomandazioni. La novità risiede nell’inversione dei ruoli.
A parte gli storici No Vax, molti di coloro che, in questi mesi, hanno difeso, oltre il limite della ragionevolezza, le politiche di mitigazione imposte dal governo, oggi si schierano per la libertà di scelta contro ‘’la barbarie dell’obbligo vaccinale’’.
Come se avessero dimenticato la polemica contro le misure assunte dal ministro Beatrice Lorenzin, dal Dicastero della Salute, che condizionavano l’iscrizione alla scuola d’infanzia alla certificazione attestante le vaccinazioni contro le c.d. malattie esantematiche.
Come se non ricordassero che malattie quali il vaiolo e la poliomielite sono state sconfitte proprio attraverso l’obbligo di vaccinarsi imposto a tante generazioni di bambini appena nati o in età scolare. Certo che la previsione dell’obbligatorietà mal si concilia con un’operazione che si protrarrà – bene che vada – per tutto il 2021 e che dovrà procedere sulla base di una scala di priorità partendo dalle situazioni e dalle categorie più a rischio. E’ evidente, allora, che, se non è sostenibile un obbligo di carattere generale, vi sono casi in cui la vaccinazione non può essere un optional.
L’elenco sarebbe lungo e riguarderebbe non solo il personale sanitario ma anche tutte le persone che vengono a contatto con il pubblico (le stesse che per mesi sono state imbavagliate con la mascherina). Ma c’è un altro aspetto che per ora viene trascurato nelle esibizioni nelle fumerie d’oppio dei talk show televisivi. A mio avviso, la questione-chiave risiede nell’aver ricondotto, per legge, la contrazione del virus sul posto di lavoro o in itinere alla fattispecie di infortunio (con la specificazione: da covid-19), non solo per il personale – come quello sanitario – che lavora a contatto con il virus, ma per chiunque possa dimostrare l’eziologia del contagio.
La causa violenta a base dell’infortunio (da covid-19) avrebbe potuto mettere le aziende in una condizione di responsabilità oggettiva, se non si fosse chiarito, in un provvedimento successivo, che “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonchè mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
In sostanza il legislatore ha ritenuto necessario fornire una sorta di interpretazione autentica dell’applicazione dell’articolo 2087 cod.civ, proprio per le preoccupazioni espresse dal mondo dell’impresa.
Il Piano Colao aveva gettato l’allarme: <<Il possibile riconoscimento quale infortunio sul lavoro del contagio da COVID-19, anche nei settori non sanitari, pone un problema di eventuale responsabilità penale del datore di lavoro che, in molti casi, si può trasformare in un freno per la ripresa delle attività. D’altro canto, per il lavoratore che è esposto al rischio di contagio per il tragitto che deve fare per andare al lavoro e per il permanere a lungo nel luogo di lavoro, magari a contatto con il pubblico, il trattamento del contagio quale infortunio garantisce un livello di tutela, per sè ed i propri famigliari, ben maggiore del trattamento di semplice malattia.
Si tratta quindi di individuare una soluzione di compromesso che salvaguardi le due esigenze>>.
E’ sufficiente che all’impresa sia riconosciuta la corretta applicazione dei ‘’Protocolli’’ per essere esonerata dalla responsabilità di danni gravi o del decesso per covid-19 di un suo dipendente che – probatio diabolica – sia in grado di dimostrare di essere stato contagiato sul lavoro o quando vi si recava o ne rincasava?
Se così fosse, tocca ai protocolli e quindi al Governo e alle parti sociali coprire un vuoto enorme che – con la scoperta del vaccino – si è creato tra le misure di carattere precauzionale, rivolte a garantire i lavoratori (sul versante della sicurezza e della salute) ma anche i datori (su quello della responsabilità penale sempre in agguato in materia di infortuni sul lavoro).
E’ noto che l’articolo 2087 cod.civ. è una ‘’norma di chiusura’’ del sistema antinfortunistico; può destabilizzare qualsiasi organizzazione aziendale se si verifica un infortunio di particolare gravità. L’articolo non individua dei limiti alla ricerca di misure di salvaguardia.
‘’L'imprenditore – recita l’articolo - è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’’.
In sostanza l’imprenditore non è affrancato da responsabilità penale e civile se si limita a rispettare le leggi vigenti in tema di sicurezza del lavoro: il caso ex Ilva ne è buon testimone visto che ai proprietari non è mai stato imputato di violare le leggi vigenti in materia di sicurezza e di ambiente, ma di inquinare e basta.
L’orizzonte dell’articolo 2087 cod. civ. è quello della esperienza e della tecnica e delle indicazioni che ne derivano anche nel silenzio del legislatore. Basti pensare alla giurisprudenza in tema di esposizione ad amianto. La pericolosità dell’amianto (in attuazione di specifiche direttive comunitarie) è stata riconosciuta con la legge 27 marzo 1992, n. 257, dove sono state dettate norme per la cessazione dell'impiego dell'amianto e per il suo smaltimento controllato, nonchè il divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto.
Eppure si sono svolti tanti processi (con fior di condanne e risarcimenti in sede civile) a carico di imprenditori ultraottantenni che avevano fatto uso di amianto nei loro cicli produttivi in decenni precedenti e per attività produttive già cessate, solo perché esistevano studi scientifici che collegavano l’uso di questo materiale alla formazione di un mesotelioma pleurico. L’articolo 2087 cod. civ. ha consentito di applicare in maniera retroattiva delle norme penali.
I casi di infortunio sul lavoro da COVID-19 non sono stati, nel 2020, eventi eccezionali.
E’ sufficiente risalire alla puntuale documentazione dell’INAIL secondo la quale queste fattispecie di contagi sul lavoro denunciate alla data del 30 novembre sono state ben 104.328, pari al 20,9% del complesso delle denunce di infortunio sul lavoro pervenute dall’inizio dell’anno e al 13% dei contagiati nazionali comunicati dall’Istituto superiore di sanità (Iss) alla stessa data.
Rispetto alle 66.781 denunce rilevate alla data del 31 ottobre i casi in più sono risultati 37.547, di cui 27.788 riferiti a novembre e 9.399 a ottobre.
La “seconda ondata” delle infezioni da Covid-19 ha avuto un impatto più significativo della prima anche in ambito lavorativo. Nel bimestre ottobre-novembre, infatti, si è rilevato il picco dei contagi di origine professionale, con quasi 49mila denunce di infortunio (pari al 47% del totale) rispetto alle circa 46.500 registrate nel bimestre marzo-aprile.
Il divario, peraltro, è destinato ad aumentare nella prossima rilevazione per effetto del consolidamento particolarmente influente sull’ultimo mese della serie.
I decessi sono stati 366 pari a circa un terzo del totale dei decessi denunciati all’INAIL dall’inizio dell’anno, con un’incidenza dello 0,7% rispetto ai deceduti nazionali da COVID-19 comunicati dall’Iss alla stessa data. Rispetto ai 332 decessi rilevati dal monitoraggio al 31 ottobre, i casi mortali segnalati all’Istituto sono stati 34 in più, di cui 20 nel solo mese di novembre. La metà dei decessi (50,3%) è avvenuta ad aprile, il 33,1% a marzo, il 6,0% a maggio, il 5,5% a novembre, l’1,6% a luglio e a ottobre, l’1,4% a giugno e lo 0,3% ad agosto e settembre.
Che dire, allora, in conclusione? Quando nell’ambito del rapporto di lavoro una delle parti – nel nostro caso il dipendente – si sottrae ad un obbligo contrattuale mettendo a rischio la sua salute e quella dei suoi colleghi, al datore di lavoro – che è comunque responsabile della sua sicurezza - non è consentito cavarsela dicendo: ‘’Io la vaccinazione gliela voleva fare, ma lui si è rifiutato’’.
Il lavoratore potrebbe avere dei buoni motivi (di salute, ad esempio) come tali riconosciuti dalla legge o dai protocolli. Ma solo quelli.
Perché, a pensarci bene, non sembra possibile neppure il trasferimento ad altra mansione (in totale isolamento?) proprio per la natura del contagio.
In caso di indisponibilità conclamata alla vaccinazione, il datore potrebbe avvalersi del suo potere disciplinare e, alla fine, risolvere il rapporto.

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.