TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa. La disponibilità, dai primi giorni del nuovo anno, di una misura di prevenzione di riconosciuta efficacia, vale a dire di un vaccino contro il Coronavirus (SARS-CoV-2), ha innescato un acceso dibattito sulla sua somministrazione e in particolare sulla possibilità ed opportunità di imporlo anche contra volentem o in alternativa, di limitarsi ad una raccomandazione, semplice oppure rafforzata da penalizzazioni di vario genere (quali ad esempio limitazioni all’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici o all’ingresso in locali aperti al pubblico) per chi decidesse di non sottoporvisi.
D’altra parte, si osserva, soltanto una vaccinazione di massa potrà verosimilmente consentire di raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge” e quindi di porre fine alla pandemia. Di qui la tensione fra la dimensione solidaristica e collettiva del diritto alla salute alla salute (art. 32, c. 1 Cost.) e l’interesse individuale a non essere sottoposto a trattamenti sanitari imposti.
In ambito giuslavoristico il “tormentone” di queste ultime settimane può essere riassunto nel seguente quesito: un datore di lavoro può pretendere che un proprio dipendente si sottoponga alla vaccinazione, messa a disposizione gratuitamente dal servizio sanitario o dallo stesso datore di lavoro, ed eventualmente licenziarlo in caso di rifiuto?
La delicatezza e la novità della questione unitamente alla dinamicità di una situazione in costante evoluzione suggeriscono dosi massicce di prudenza e non consentono conclusioni definitive, ma solo una riflessione che, seppur “considerevolmente laboriosa” è preferibile a qualunque affrettato giudizio (José Ortega y Gasset).

2. Il contesto: la disciplina emergenziale per la pandemia COVID-19. Il ragionamento non può che partire dalla considerazione, seppur condotta in estrema sintesi, dell’impostazione di fondo della disciplina emergenziale per la pandemia COVID-19 e di come questa si inserisca nel contesto normativo generale in tema di prevenzione e tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
È infatti noto che, per contrastare gli effetti della diffusione del virus, il Governo ha sin dall’inizio adottato un modello inedito “a geometria variabile” basato su un intreccio fra fonti legislative e non legislative (d.p.c.m.) e atti di autonomia negoziale collettiva, i protocolli condivisi (innanzitutto il protocollo 14 marzo 2020, integrato il 24 aprile 2020).
Funzione principale della disciplina emergenziale è stata (ed è) quella di consentire la prosecuzione delle attività produttive assicurando alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione mediante l’adozione e l’attuazione di un complesso di misure operative specifiche ispirate al principio precauzionale. Siffatte misure, in una condizione di incertezza scientifica, riempiono di contenuto la clausola generale dell’articolo 2087 del codice civile (che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure, anche non codificate, che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro) e in tal modo fissano il perimetro dell'obbligo contrattuale di sicurezza posto da tale disposizione in capo ai datori di lavoro, definendo un’area di rischio autorizzato.
L’Esecutivo ha cioè operato un complesso ed articolato bilanciamento fra interessi (della collettività e dei singoli) e diritti di rilievo costituzionale tra cui vengono in particolare rilievo quelli alla salute, alla libertà dell’iniziativa economica d’impresa, al lavoro, all’ istruzione, all’assistenza e previdenza.
Per ciò che in questa sede interessa, preme poi rilevare che la qualificazione, confermata nei protocolli, del contagio da Coronavirus quale “rischio generico” in quanto incombente indistintamente su tutta la popolazione unitamente all’individuazione di precise prescrizioni precauzionali, induce a ritenere che l’adozione e la corretta applicazione delle misure previste nei protocolli e nelle specifiche discipline di settore escluda la responsabilità datoriale, penale, contrattuale ed extracontrattuale.
La soluzione trova conferma nell’articolo 29-bis (Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19) del “decreto liquidità” (n. 23/2020), articolo inserito in sede di conversione (l. n. 40/2020) che, fornendo un importante chiarimento rispetto a quanto stabilito dall’articolo 42 del decreto Cura Italia (n. 18/2020) dispone espressamente che “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonchè mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

3. Una nuova “variabile” (la disponibilità di un vaccino efficace) e la necessaria distinzione fra attività “coronavirus esposte” e altre attività. Sia che si convenga con la conclusione qui proposta, sia che si ritenga che i dubbi non possano dirsi sciolti del tutto, è chiaro che l’affacciarsi di una variabile ulteriore, ossia la disponibilità di un vaccino di riconosciuta efficacia, che, per ovvie ragioni, i protocolli sottoscritti in precedenza e i d.P.C.M. che vi hanno fatto rinvio non hanno potuto prendere in considerazione, complica ulteriormente la situazione e rende oltremodo difficile offrire una risposta sicura al quesito da cui abbiamo preso le mosse: un datore di lavoro può (o addirittura deve) pretendere che un lavoratore si sottoponga alla vaccinazione, messa a disposizione gratuitamente dal servizio sanitario o dallo stesso datore di lavoro, e licenziarlo in caso di rifiuto?
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, in ogni caso, la risposta può dirsi, in linea generale e di principio, ancora negativa, ma con alcuni distinguo.
Il primo aspetto da considerare è il contesto nel quale si svolge l’attività lavorativa, perché una soluzione valida per tutti e per tutte le stagioni non è ragionevolmente prospettabile.
Occorre in particolare distinguere tra ambienti di lavoro in cui il Coronavirus-2 (SARS-CoV-2) sia introdotto intenzionalmente nel ciclo produttivo (laboratori) o in cui la presenza dello stesso non possa essere evitata (strutture sanitarie) dagli altri ambienti di lavoro.
Per i primi, ossia per le lavorazioni che per semplicità potremmo definire “coronavirus esposte”, oltre alle previsioni dell’articolo 2087 del codice civile e dei protocolli condivisi richiamati dall’articolo 29 bis del “decreto liquidità” (su cui v. infra) viene in rilievo anche il titolo X del Testo unico sulla sicurezza (decreto legislativo n. 81/2008), composto da quattro capi, ventuno articoli e cinque allegati, che disciplina le misure che i datori di lavoro sono tenuti ad adottare per proteggere i lavoratori contro i rischi per la salute e la sicurezza derivanti dall’esposizione ad agenti biologici nell’ambiente di lavoro.
È noto che la Sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2 (SARS-CoV-2) è stata inserita, in attuazione della direttiva (UE) 2020/739, nell’ elenco degli agenti biologici classificati nell’Allegato XLVI al T.U. del 2008 quale agente che può causare malattia grave in soggetti umani, costituisce un serio rischio per i lavoratori e può propagarsi nella comunità, ma per cui sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche (art. 4, d.l. n. 125/2020).
Il datore di lavoro, in sede di valutazione dei rischi, dovrà quindi prendere in considerazione ogni informazione disponibile sull’agente biologico e predisporre le misure più idonee a contenere il rischio secondo la normativa vigente, l’esperienza e la tecnica.
Un ruolo centrale assume a tal riguardo la sorveglianza sanitaria, necessaria per i lavoratori esposti all’agente biologico. Spetta al medico competente non solo valutare l’idoneità del lavoratore alle mansioni ma anche indicare al datore di lavoro le misure specifiche da adottare. Tra queste compare anche la messa a disposizione di vaccini efficaci (art. 279 T.U.), relativamente ai quali i lavoratori hanno peraltro diritto ad essere informati sui “vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione”.
A tale complesso di regole si aggiunge l’art. 286-sexies del T.U. che, in relazione alla protezione del personale sanitario da ferite da taglio prevede quale misura specifica oltre all’informazione e sensibilizzazione sull’importanza dell'immunizzazione nonchè sui “vantaggi e inconvenienti della vaccinazione o della mancata vaccinazione, sia essa preventiva o in caso di esposizione ad agenti biologici per i quali esistono vaccini efficaci”, anche l’ obbligo per il datore di lavoro di dispensare gratuitamente tali vaccini “a tutti i lavoratori ed agli studenti che prestano assistenza sanitaria ed attività ad essa correlate nel luogo di lavoro (c. 1, lett. g).
Dall’esame della disciplina vigente si ricava dunque che la vaccinazione rientra senz’altro tra le misure che possono essere considerate in sede di giudizio di idoneità del lavoratore e adottate negli ambienti di lavoro in cui il Coronavirus-2 (SARS-CoV-2) sia introdotto intenzionalmente nel ciclo produttivo, come nei laboratori di ricerca, di didattica o di diagnostica, o quando la sua presenza non possa essere impedita, come nelle strutture sanitarie dove siano ricoverati e sottoposti a cure pazienti affetti da Coronavirus-2 (SARS-CoV-2).
Ove ricorrano tali condizioni la vaccinazione costituisce cioè senz’altro una misura precauzionale adeguata e ragionevole ed è pertanto possibile argomentare che il datore di lavoro può decidere di adottare ed anche imporre al proprio personale e che in tal caso il lavoratore che, senza giustificato motivo, decida di non vaccinarsi, possa essere licenziato per ragioni disciplinari o, in presenza di un rifiuto motivato, adibito ad altre mansioni, se disponibili, oppure trasferito, sospeso e persino licenziato, se inidoneo alla mansione. Con l’avvertenza che si tratta pur sempre di un’interpretazione, ragionevole quanto si vuole, ma comunque da ponderare con attenzione caso per caso.
Per le attività diverse, in assenza di previsioni legali di portata generale o particolare, la questione si pone invece in termini differenti e conduce ad escludere in linea di principio la possibilità di configurare, in capo al lavoratore, un obbligo di sottoporsi alla vaccinazione e la conseguente possibilità, in caso di rifiuto, di adibirlo a mansioni differenti, sospenderlo, trasferirlo o addirittura licenziarlo.
Né, a sostegno dell’opposta soluzione, pare sufficiente richiamare la prevalenza dell’interesse collettivo alla salute (art. 32, c. 1 Cost.) rispetto a quello individuale a non essere sottoposto a trattamenti sanitari, comunque presidiato da una esplicita riserva di legge (art. 32, c. 2 Cost.).
Dalla previsione costituzionale non può in altri termine essere fatto discendere, allo stato, un obbligo generalizzato in capo ai singoli lavoratori di sottoporsi al vaccino né una responsabilità in capo ai datori di lavoro che, non essendovi tenuti per previsione di legge, non richiedano la vaccinazione o non la pretendano dai propri collaboratori.
Una base per qualche spunto di riflessione si potrebbe peraltro trarre dalla considerazione secondo cui, come ci ricorda la Corte di Cassazione, “Le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori nell'esercizio delle loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa” (da ultima Cass. Pen. sez. IV, 26 febbraio 2019, n. 13583) .
Se è vero che anche in tal caso l’ampliamento, dal punto di vista soggettivo, dei destinatari dell’obbligo di protezione, poco aggiunge quanto alla latitudine sotto il profilo oggettivo dei comportamenti che possono essere pretesi dal datore di lavoro, è anche vero peraltro che la presenza di un rischio biologico specifico può suggerire la necessità di adottare specifiche cautele a protezione dei terzi, soprattutto se “fragili”.
In tale prospettiva, pur con la consapevolezza di avventurarsi in un terreno inesplorato e irto di ostacoli, ci si potrebbe chiedere se la decisione del datore di lavoro di richiedere la vaccinazione, laddove inserita in un più ampio processo di riorganizzazione dell’attività funzionale ad una migliore tutela di tutte le perone presenti nei luoghi di lavoro, dipendenti, collaboratori e terzi, casomai preceduta da un confronto con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e da una revisione del documento di valutazione dei rischi, possa configurarsi come una scelta organizzativa e dunque come presupposto idoneo a giustificare: in caso di rifiuto giustificato della vaccinazione, un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/1966, fatto sempre salvo il diritto al ripescaggio, qualora il lavoratore risulti inidoneo, per ragioni inerenti alla necessaria tutela della sua salute, o comunque non utilizzabile in quanto potenzialmente pericoloso per la salute dei terzi; oppure un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, in caso di rifiuto ingiustificato di adottare una misura necessaria ad assicurare la salute dello stesso lavoratore e/o dei terzi.
Anche stavolta, ovviamente, il ragionamento avrebbe maggiori chance di essere sviluppato con riguardo a quelle lavorazioni che abbiamo definito “coronavirus esposte”, molto meno per le altre, dal momento che per la compressione del bene “lavoro”, in una prospettiva di bilanciamento, occorre pur sempre che sull’altro piatto della bilancia sia rinvenibile in concreto, e non in astratto, un diritto di “peso” almeno equivalente e che rischia (sempre in concreto) di essere sacrificato in assenza delle misure adottate.

4. La realizzazione di un adeguato bilanciamento fra gli interessi in gioco è compito del legislatore: gli scenari possibili. In ogni caso, il compito di realizzare il bilanciamento fra il complesso di interessi e diritti costituzionali in gioco, della collettività, dei lavoratori e dei terzi, anche definendo un nuovo punto di equilibrio fra gli stessi è compito che spetta in via prioritaria al legislatore, non ai datori di lavoro.
A tal riguardo giova comunque ricordare che i margini entro i quali il Governo può muoversi sono piuttosto ampi e ormai ben delineati.
L’orientamento della Corte costituzionale in ordine all'obbligazione vaccinale generale (quella in età pediatrica in Italia fu introdotta nel 1939) appare consolidato e costantemente confermativo della legittimità dell’operato del legislatore: premesso che “i valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici e implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute individuale e collettiva (tutelate dall'art. 32 Cost.)”, anche altri interessi (come nel caso di specie quello del minore ), “il contemperamento di questi molteplici principi lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell'obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l'effettività dell'obbligo. Questa discrezionalità deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 2017), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell'esercizio delle sue scelte in materia (così, la giurisprudenza costante di questa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002)” (Corte cost. n. 18 gennaio 2018, n. 5 , relativamente al cosiddetto “decreto vaccini”, d.l. n. 73/2017).
E anche in relazione al mondo del lavoro la storia delle vaccinazioni obbligatorie è forte di una tradizione consolidata. Senza pretesa di esaustività, si va dalla vaccinazione antitifica, già prevista nel 1926, che oggi può essere disposta dalle regioni in casi di riconosciuta necessità e sulla base della situazione epidemiologica locale, a quella antitetanica obbligatoria oltre che per i nuovi nati anche per alcune categorie di lavoratori, da quella antitubercolare, necessaria per il personale sanitario, gli studenti in medicina, gli allievi infermieri e chiunque operi in ambienti sanitari ad alto rischio di esposizione, a quella antiepatite B, ora obbligatoria per i nuovi nati, fortemente raccomandata per talune categorie professionali, e in particolare per gli operatori sanitari, unitamente ad un altro complesso di vaccinazioni anche dal Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale 2017-2019 ).
Dunque, nulla impedisce che una scelta di questo tipo sia effettuata anche in relazione al Coronavirus (SARS-CoV-2).
La compressione della libertà di autodeterminazione in relazione alla dimensione solidaristica e collettiva del diritto alla salute richiede, beninteso, in ossequio al principio di precauzione, che la scelta legislativa sia improntata al rispetto del principio di proporzionalità, cioè al minimo necessario sacrificio, e calibrata in relazione all’evolversi della situazione sanitaria ed epidemiologica, nonché alle risultanze della ricerca e della sperimentazione medica, le conseguenze per la salute dell’obbligato siano temporanee e di scarsa entità, o comunque “normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili" e sia comunque assicurato “il rimedio di un equo ristoro”, del danno subito, a favore del soggetto che per effetto del trattamento obbligatorio abbia subito un pregiudizio alla salute.
Ma, laddove si mantenga all’interno di siffatti confini, il legislatore può rendere obbligatorio il vaccino fin da subito, anche per tutti i cittadini, come recentemente confermato dall’attuale presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio e dall’ex presidente Cesare Mirabelli, oltre che da autorevoli costituzionalisti, i quali peraltro avvertono come occorra un atto avente forza di legge, non bastando invece un d.P.C.M. che in quanto atto amministrativo non sarebbe idoneo a soddisfare la riserva posta dall’art. 32, c. 2 Cost..
E naturalmente, siccome il più contiene il meno, pienamente legittime sarebbero anche opzioni diverse, come l’imposizione del vaccino solo a talune categorie di soggetti maggiormente a rischio (ad esempio gli anziani o le persone affette da specifiche patologie) o di lavoratori che, in relazione all’attività svolta, risultino più esposti al pericolo di essere contagiati o di diffondere il contagio. Il tutto, in considerazione della specifica situazione sanitaria ed epidemiologica in atto, nonché delle risultanze della ricerca e della sperimentazione medica.
Per quanto concerne i lavoratori, una particolare urgenza si pone non solo per gli addetti a laboratori o gli operatori della sanità (per i quali, per quanto come si è detto la possibilità di imposizione già possa ricavarsi in via interpretativa dalle norme vigenti, una previsione chiarificatrice sarebbe comunque opportuna), soprattutto per quelli che hanno una concreta possibilità di entrare in contatto con persone affette da Coronavirus (e quindi un significativo rischio di essere contagiati) o con persone “fragili” nei confronti delle quali si impongono tutele più intense (si pensi ad esempio a chi presta attività in reparti di emodialisi, rianimazione, oncologia, chirurgia, ostetricia e ginecologia, o gli operatori delle Case residenza o delle Residenze sanitarie per anziani), ma anche, ad esempio, per gli addetti a servizi pubblici di primario interesse collettivo o per il personale scolastico.
Per evitare dubbi ed incertezze interpretative, e dunque per non scaricare la responsabilità sulle imprese, sarebbe altresì opportuno che il legislatore (nazionale, essendo precluso un intervento a livello regionale) , laddove decidesse di sancire un qualche obbligo di vaccinazione (auspicabilmente proseguendo nel dialogo con le parti sociali avviato sin dal primo momento e proficuamente condotto durante tutta la gestione della crisi pandemica), determinasse con chiarezza, oltre ai presupposti e all’ambito di applicazione dell’obbligo, anche le ragioni che giustificano un rifiuto di sottoporsi a vaccinazione (sulla scorta dell’orientamento che ammette siffatta possibilità in presenza di specifiche e certificate motivazioni mediche che rendano la vaccinazione sconsigliata o pericolosa per la salute: ad es. T.A.R. L'Aquila, Abruzzo, sez. I, 12 marzo 2020, n. 107; Cass. civ. sez. II, 26 giugno 2006, n.14747 ) e le conseguenze dell’eventuale rifiuto ingiustificato, configurando ad esempio, per i lavoratori subordinati, un’autonoma ipotesi di licenziamento e dunque prevedendo (ad esempio sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 55-octies, c. 1, lett. d) del dl.gs. n. 165/2001, Testo unico sul pubblico impiego) la possibilità, per il datore di lavoro, di risolvere il rapporto di lavoro nel caso di rifiuto, da parte del dipendente, di sottoporsi alla vaccinazione, casomai subordinandola, in caso di rifiuto giustificato, all’impossibilità di repechage o all’adozione di misure alternative, anche temporanee.
Resta infine da ricordare che laddove il legislatore decidesse di intervenire nei termini qui proposti, proseguendo nel coinvolgimento delle parti sociali, il meccanismo non potrà peraltro essere identico a quello sinora adottato dall’Esecutivo, quantomeno per quel che riguarda le attività procedimentali, successive alla stipula dei protocolli, volte a estenderne l’efficacia soggettiva o l’effettività e dunque a conferire ad essi un’efficacia lato sensu normativa. Come si è visto, infatti, l’imposizione di un obbligo vaccinale richiede, alla luce della previsione dell’art. 32, c. 2 Cost., richiede un atto avente forza di legge (atto che, ricorrendo senz’altro i presupposti di straordinarietà, di necessità e d’urgenza di cui all’art. 77 Cost., può essere costituito anche da un decreto legge governativo) e non un d.P.C.M., che è un atto amministrativo.

 

 

 

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