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Recensione a

"Bruno Caruso, Riccardo Del Punta, Tiziano Treu (a cura di), Il diritto del lavoro e la grande trasformazione. Valori, attori, regolazione"

Il libro, che rappresenta il  primo passo della  elaborazione dei risultati di un Gruppo di studio coordinato dagli stessi curatori (all’esito di un Convegno tenutosi presso il CNEL sul tema del cambiamento del diritto del lavoro) ha l’ambizione, esplicitamente dichiarata, di analizzare i temi attuali del diritto del lavoro, in connessione con  gli epocali cambiamenti tecnologici, sociali, demografici ed economici in atto, con la lente (non solo) del giurista attento alla  dimensione globale delle grandi trasformazioni, restando sullo sfondo la questione italiana e le discussioni di carattere esegetico e politico-ideologico sulla legislazione da inizio secolo.

Un cambiamento, quindi, di prospettiva, con l’obiettivo, anche questo espressamente dichiarato dai Curatori nell’Introduzione, di «rimettere al centro del dibattito internazionale riflessioni e proposte provenienti da una comunità scientifica, come quella giuslavoristica italiana, con salde radici locali, ma in grado di dialogare globalmente perché tenutaria, anch’essa, di un consolidato background di pensiero critico».

Nella sua analisi sulle stagioni recenti del diritto del lavoro (Il diritto del lavoro tra accelerate riforme e controriforme: quali prospettive?) Raffaele De Luca Tamajo enfatizza il «pendolo» come cifra simbolica della «ricognizione sugli andamenti recenti di una legislazione del lavoro, che si è mossa con grande disinvoltura.... anche … con caratteri di schizofrenia, tra cicli molto ravvicinati di riforme e controriforme».

L’analisi, critica, è tutta incentrata sulla reazione alla protratta stagione del garantismo del quarantennio statutario con l’esplosione di una flessibilità, scomposta e con poca sicurezza, negli anni 2010 – 2015, culminati con la normativa del Jobs Act che è stato oggetto di forti resistenze culturali, soprattutto con riferimento alla nuova disciplina dei licenziamenti, del contratto a termine e della somministrazione del lavoro – politiche del diritto contraddittorie tra di loro - così innescando una stagione di controriforme.

In questo quadro di politiche del diritto frutto di mere spinte reattive e antagonistiche, conseguenti ai moti cangianti dei governi che si succedono, la prospettiva di un diritto del lavoro, stabilizzato, porta l’Autore a formulare queste ipotesi, in estrema sintesi: a) nei contratti temporanei, affermare il vincolo causale, con la rimessione, però,  alla contrattazione collettiva, in particolare quella aziendale, dell’individuazione delle causali, in maniera più aderente alla realtà, evitando lo scivolo derogatorio legale dell’art. 8, L. n. 148/2011, ampiamente utilizzato per raggiungere lo stesso scopo; b) in tema di licenziamento illegittimo superare la frantumazione del sistema sanzionatorio, ridisegnando il confine tra reintegrazione e risarcimento e superando la contrapposizione tra sussistenza/insussistenza del fatto con una maggiore valorizzazione del criterio della proporzionalità tra fatto imputato e sanzione; c) organizzare sistematicamente la disciplina dei controlli e della privacy; d) riscrivere la disciplina della contrattazione collettiva di prossimità con riferimento  a quella nazionale; e) razionalizzare e sistemare la normativa esistente.

Non sfuggirà al lettore anche il taglio filosofico e di teoria generale del diritto del contributo di Riccardo Del Punta (Valori del diritto del lavoro ed economia di mercato), che rivisita i valori fondativi del diritto del lavoro, miscelando realismo storico e tensione normativa, per sostenere la sua tesi di fondo: «[…]Come i valori tradizionali del diritto del lavoro hanno preso forma in un contesto strutturale che ne giustificava una preponderante finalizzazione anti-mercato, così le profonde trasformazioni che hanno interessato quel contesto, in conseguenza della globalizzazione e delle coeve rivoluzioni tecnologiche, suggeriscono non già il superamento, bensì una rivisitazione costruttiva di quei valori.».

Dopo avere affrontato il rapporto, talvolta anche di contrapposizione, tra diritto del lavoro ed economia di mercato, l’Autore analizza la reazione della dottrina italiana nei confronti dell’attacco neoliberale, in un contesto di economia post – fordista, globalizzata e caratterizzata da una competitività sempre più aggressiva, tesa a sostenere, anche con una lettura costituzionalmente orientata, la difesa dell’esistente, con riforme minimali. Senza misconoscere la valorizzazione del lavoro umano, Del Punta argomenta le sue ragioni a favore di un (diritto del) lavoro «economicamente sostenibile», per realizzare il migliore compromesso possibile tra le istanze di socialità e di efficienza, per poi tornare sui valori, reinterpretati costruttivamente, così da renderli maggiormente consoni ai processi di trasformazione, tuttora in corso, con l’approccio delle capabilities, che potrebbe contribuire alla razionalizzazione valoriale del diritto del lavoro di nuova generazione. Non ci può essere una teoria del diritto del lavoro senza il suo collegamento a una teoria dell’economia e della società. L’analisi del giuslavorista sui valori rifluisce poi sulle tecniche regolative e di valutazione del loro impatto, secondo l’efficace immagine riassuntiva del «diritto del lavoro come terminale di informazioni che veicolano istanze filosofiche (e in particolare, per l’appunto, valoriali), sociologiche, economiche, ecc., o anche semplicemente pratiche, alle quali esso non può dirsi indifferente ( ma senza doversi sottomettere in partenza ad alcuna di esse), a meno di volerne insensatamente negare la rilevanza, come se la proclamazione del diritto potesse idealisticamente bastare a se stessa».

Anche Adalberto Perulli (I valori del diritto e il diritto come valore. Economia e assiologia nel diritto del lavoro neo – moderno) analizza queste tematiche, ma da un diverso punto di vista, dopo una premessa di carattere generale sul «valore» nell’accezione filosofico-morale e la sua rilevanza nel sistema giuridico, con particolare riferimento alle Carte Costituzionali e dei diritti fondamentali e alla valorizzazione, in esse, della persona umana  e della dignità e nell’accezione economica del lavoro come merce di scambio a fronte di un contro-valore, generalmente monetario.

In questa chiave interpretativa, non è il diritto del lavoro a doversi piegare continuamente al mercato, ma è quest’ultimo che deve rappresentare le istanze di coesione e cooperazione sociale, superando l’idea di una società governata (solo) dall’economia e realizzando il valore dell’uomo degno di essere considerato tale anche nei luoghi della produzione.

Ordinamenti nazionali e regole sociali sovranazionali è il tema di indagine di Tiziano Treu, che, dopo avere esaminato gli ordinamenti multilivello e l’interdipendenza fra sistemi, analizza le misure protezionistiche messe in atto dagli Stati per reagire alle trasformazioni dell’economia e del lavoro, introducendo norme, di vario tipo, che hanno alterato i tratti fondamentali del diritto del lavoro e delle relazioni industriali. L’autonomia degli ordinamenti nazionali trova limitazioni non solo in ambito europeo, ma anche nei rapporti internazionali, imponendosi il rispetto di standard sociali minimi, soprattutto con la regolamentazione imposta dall’OIL, anche se il sistema sconta l’impostazione privatistica degli accordi fra gli Stati, fatte salve alcune eccezioni. Con particolare attenzione l’Autore analizza gli strumenti da utilizzare per rafforzare le regole sociali internazionali, ponendo le basi dell’efficacia vincolante dei diritti fondamentali riconosciuti dall’OIL per i Paesi aderenti, a prescindere dalla ratifica delle Convenzioni. La contrattazione collettiva, le guideline e i codici di condotta dei gruppi di imprese e delle organizzazioni sociali e le istituzioni pubbliche – Stati nazionali e organizzazioni internazionali – con le forme loro proprie possono garantire condizioni sociali accettabili.

Bruno Caruso (Il sindacato tra funzioni e valori nella «grande trasformazione». L’innovazione sociale in sei tappe) affronta il suo tema partendo dalla crisi della forma sindacato, come aggregazione, rappresentanza e affermazione di interessi collettivi nell’economia post-fordista, senza indulgenza e con una visione anche pessimistica. Quale premessa metodologica, questo Autore evoca il superamento del pluralismo sindacale ideologico a favore di quello funzionale, per riconsiderare il ruolo e la funzione dell’organizzazione sindacale. In questa chiave acquista importanza il rilancio del sindacato come autorità salariale nazionale e, in prospettiva, anche europea, qui prendendo in esame l’efficacia dei contratti collettivi e il salario minimo garantito (in tutte le sue sfaccettature) e le problematiche relative all’eguaglianza, in una prospettiva di andare oltre quest’ultima e la protezione, guardando alla contrattazione collettiva  come  rete di protezione per lo sviluppo dell’autonomia individuale, privilegiando la carta della libertà. Le altre tappe fondamentali del percorso argomentativo di Caruso sono: la partecipazione, qui ponendosi il sindacato come partner dell’impresa all’interno di «moduli cooperativi» per la produttività e il benessere aziendale; le nuove strategie di azione nel territorio e nella rete, in un rinnovato contesto di solidarietà; l’effettività della rappresentanza e della democrazia rappresentativa del sindacato, nella prospettiva di una seria riforma interna. Insomma una piattaforma di idee sulle quali lavorare, per passare dai fatti, alle norme, ai concetti, facendo tesoro del “metodo” di Gino Giugni.

Giuslavorismo e sindacati nell’epoca del tramonto del neoliberismo è il tema di analisi di Luigi Mariucci, che, in questa lunga stagione dell’interregno, dopo l’esaurimento del giuslavorismo liberista e il declino, troppo enfatizzato, del sindacalismo, sradica l’ideologia e la pratica della disintermediazione delle organizzazioni sindacali alle quali veniva detto di non occuparsi della legge, materia di elezione del parlamento e del governo, ma di negoziare con le imprese le situazioni di crisi. L’Autore individua, quindi, una nuova azione sindacale, in un contesto di diversificazione sociale, ma affonda le lame della sua critica al giuslavorismo degli ultimi trent’anni, privo di progettualità, dove i concetti di libertà, protezione, universalità, restano (solo) belle parole, che mal si coniugano con nazionalismo e protezionismo: con l’opzione, orgogliosamente esplicitata, di ri-fondare la supremazia del valore lavoro.

Marzia Barbera (La «flexicurity» come politica e narrazione) affronta il tema della flexicurity, non solo e non tanto come forma, plurale, di  regolamentazione del mercato del lavoro, ma come politica del diritto del lavoro ad essa sottesa, secondo il metodo delle diverse narrazioni della stessa:  la narrazione neo-liberista, di stampo tecnocratico da cui nascono inizialmente le politiche di flexicurity; la narrazione compromissoria proposta dalla Commissione Europea  nei suoi «principi di flexicurity»  e declinata, negli anni della crisi economica e dell’austerità , nelle forme della governance hard della sorveglianza fiscale e monetaria; la narrazione neo-individualista e neo-repubblicana, che, partendo da un ripensamento critico delle politiche di flexicurity, affronta i rischi generati dalla crisi economica e dall’impatto traumatico dell’innovazione, rivalutando l’individuo, le sue capacità, l’assunzione personale di responsabilità e la fiducia (criticata, sotto vari profili). Con un nuovo criterio metodologico, fatto anche di conoscenza e costruzione di significati nuovi, Barbera propone un «processo culturale di lettura ed elaborazione della realtà meno affidato alle élites epistemiche e tecnocratiche, più socialmente condiviso», auspicando «una dose maggiore di «descrittività» …, se non altro per ritrovare il carattere sperimentale, l’apertura cognitiva e l’ecletticità metodologica che sono state da sempre le cifre peculiari del diritto del lavoro».

Sempre al tema della flexicurity, ma nel contesto italiano è il saggio, scritto a due mani, da Giorgio Fontana e Stefano Giubboni («Flexicurity», precarietà e disuguaglianza nel diritto del lavoro italiano), che partono dalla sua descrizione, individuando due distinti atteggiamenti mentali, o, se si vuole, metodologici: il primo, che la colloca nel contesto delle trasformazioni delle tecniche di integrazione e di costruzione del modello sociale europeo; il secondo, che valuta l’impatto delle riforme sui mercati del lavoro, ricorrendo alla verifica empirica, anche in chiave comparativa. L’analisi, poi, procede con l’esposizione dei punti salienti del dibattito europeo e italiano sulla flexicurity, tra teorie e prassi, spogliandolo dal velo della retorica e della contrapposizione tra innovatori e conservatori, oggetto di critica in considerazione del fatto che il diritto del lavoro è, essenzialmente, diritto dell’economia capitalistica, non potendosi definire, il diritto del lavoro, anti-mercato, per il solo fatto che la sua funzione antagonistica – di protezione/emancipazione del lavoratore – si inserisce nel mercato. In questa chiave di lettura, quindi, è l’eguaglianza il criterio di valutazione della sostenibilità del diritto del lavoro flessibile, con riferimento alla diffusa precarietà. In questo quadro acquistano particolare rilevanza le clausole antidiscriminatorie che garantiscono, seppure astrattamente, la condizione di parità fra lavoratori, anche se «non si occupano del problema del rapporto fra precarietà e libertà, che è inerente alla distribuzione del potere contrattuale fra le parti, ossia dell’uguaglianza in senso verticale…». Punto centrale rimane, per gli Autori, l’inderogabilità della norma lavoristica, erosa, nel corso degli ultimi anni, sotto diversi profili, realizzando maggiori differenze tra i lavoratori, soggetti non più all’unitarietà ed omogeneità dei trattamenti, ma sula distinzione dei regimi di tutela applicabili.

Nel complesso può apparire una trattazione disomogenea di temi, che invece hanno lo stesso filo conduttore che è riassunto dal titolo, e dal sottotitolo, del libro recensito. Sono, quindi, assai pertinenti, le parole riassuntive, della presentazione nella quarta di copertina: «Ciò che emerge in particolare è che i valori tradizionali rischiano di recedere senza una adeguata ridefinizione e ricollocazione anche teorico culturale: è la questione sempre presente nel dibattito tra i giuslavoristi, anche se spesso sottotraccia, della fondazione paradigmatica della disciplina.».

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