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CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 maggio 2018, n. 12108
Lavoro – Lavoratori dello spettacolo – Licenziamento – Raggiungimento dei limiti di età – Diritto di opzione

Fatti di causa

M.M., L.B., M.B., I.L.B. e L.D.S., L.T. e M.M. adivano il Tribunale di Roma con ricorso ex lege n. 92/2012 ed esponevano di aver lavorato alle dipendenze della Fondazione Teatro dell’O.R. quali tersicorei e ballerini sino al 31/3/2014, allorquando la Fondazione aveva loro intimato il licenziamento per raggiungimento dei limiti di età; deducevano che il recesso era da ritenersi illegittimo perché irrogato nonostante l’esercizio del diritto di opzione previsto dall’art. 3 c. 7 d.l. n. 64/2010 convertito in I. n. 100/2010 annualmente rinnovato almeno tre mesi prima del compimento dell’età secondo le prescrizioni di legge. Chiedevano quindi la reintegra nel posto di lavoro e la condanna della parte datoriale al risarcimento del danno ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali ai sensi dell’art.18 l. 300/70 nella versione di testo applicabile ratione temporis.

Il giudice della opposizione, in riforma della ordinanza emessa nella pregressa fase del giudizio, accoglieva integralmente i ricorsi. Interposto reclamo avverso tale decisione dalla Fondazione Teatro dell’Opera, la Corte distrettuale, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, confermata nel resto, rigettava le domande proposte dalle ricorrenti M., B. e L.B. e compensava fra le parti le spese di tutti i gradi e fasi del giudizio.

I giudici del gravame, a fondamento del decisum, per quanto in questa sede rileva, osservavano che l’art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 conv. in legge n. 100/2010, per i lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie dei tersicorei e ballerini, fissava l’età pensionabile per uomini e donne al compimento del 45° anno di età; disponeva altresì che per i due anni successivi alla data di entrata in vigore della disposizione, ai lavoratori assunti a tempo indeterminato che avessero raggiunto o superato l’età pensionabile, fosse data facoltà di esercitare l’opzione rinnovabile annualmente, per restare in servizio, mediante istanza da presentare all’Enpals entro due mesi dalla data di entrata in vigore della disposizione o tre dal perfezionamento del diritto alla pensione, fermo restando il limite massimo di pensionamento di vecchiaia di 47 anni per le donne e 52 per gli uomini.

Tale disposizione transitoria era stata ritenuta compatibile con i principi comunitari (recepiti dall’art. 30 c. 1 del d. Igs. n. 198/2006 come modificato dal d.lgs. n. 5/2010 in attuazione della Direttiva 2006/54/CE), sul rilievo:

a) “della limitatezza della deroga contenuta nei numeri dei soggetti interessati e nella durata nel tempo”; b) della necessaria gradualità nella applicazione della nuova età pensionabile, che integrava un criterio oggettivo e ragionevole per consentire al personale che avesse raggiunto i 45 anni prima dell’entrata in vigore della norma, o lo avrebbe raggiunto nel biennio 1/7/2010-1/7/2012 – e che, quindi, era esposto al repentino cambiamento in senso restrittivo del pregresso regime di permanenza al lavoro – di esercitare il diritto a conservare i previgenti limiti di età di pensionamento (47 anni per le donne e 52 per gli uomini).

La cassazione di tale pronuncia è domandata dalle lavoratrici sulla base di unico articolato motivo.

La Fondazione Teatro dell’O.R. resiste con controricorso spiegando autonoma impugnazione avverso la medesima decisione, anche nei confronti di L.T. e M.M., sostenuta da quattro motivi, cui si sono opposti con controricorso i lavoratori. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ex art. 378 c.p.c.

Con ordinanza interlocutoria del 9/3/2017 questa Corte ha sollevato ex art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, innanzi alla Corte di Giustizia, questione pregiudiziale sulla conformità dell’art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 convertito in L. 100/2010, ai principi di non discriminazione (per ragioni di genere) fra uomini e donne quale espresso dalla direttiva 2006/54 e dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Con ordinanza in data 7 febbraio 2018, l’adita Corte ha dichiarato che l’art. 14 par. 1 lett. C) della direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5/7/2006 riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale, come quella prevista dall’art. 3 comma 7 d.l. n. 64 del 30/4/2010 conv. in legge n. 100 del 29/6/2010 introduce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata da tale direttiva.

Le parti tutte hanno depositato ulteriori memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Ragioni della decisione

1. Con unico motivo M.M., L.B., M.B., I.L.B. e L.D.S. denunciano violazione e falsa applicazione del comma 7 art. 3 d.l. n. 64/2010 conv. in legge n. 100/2010 in relazione all’art.30 comma 1 d.lgs.198/2006, all’art.157 T.F.U.E., alle direttive 78/2000 e 54/2006 ed al d. lgs n. 5/2010 nonché in relazione agli artt. 3, 4, 5, 35, 37 e 38 Cost. Deducono che il discrimen operato dall’art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 conv. in I. n. 100/2010 vulnera il principio di parità di trattamento fra uomo e donna sancito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; il principio di cui all’art.157 T.F.U.E. che sancisce quello di parità retributiva fra uomini e donne; la direttiva 2006/54/CE riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomo e donna in materia di occupazione e di impiego.

2. Dal canto suo, la Fondazione Teatro dell’O.R., con il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1 comma 51 l. 92/2012 e degli artt. 125 e 414 c.p.c. Ribadisce l’eccezione di inammissibilità dell’atto di opposizione, già sollevata in quella fase di giudizio, che assume stilato in violazione ai canoni . sanciti dall’art. 1 c. 51 l.92 del 2012 alla cui stregua il ricorso deve presentare i requisiti di cui all’art. 414 c.p.c.

Deduce che, diversamente da quanto argomentato dai giudici del gravame, il ricorso doveva ritenersi del tutto carente sia sotto il profilo della indicazione degli elementi di fatto che di quelli di diritto, essendosi risolto in una mera critica della esegesi offerta dal giudice della fase sommaria, priva dei requisiti strutturali di ammissibilità, sanciti dalle richiamate disposizioni.

3. Il secondo ed il terzo motivo prospettano violazione dell’art. 4 comma 4 d.lgs. n. 182/97 come modificato dall’art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 conv. in legge n. 100/2010.

Ci si duole della interpretazione resa dalla Corte distrettuale in ordine ai termini ed alle modalità di esercizio dell’opzione, che integra requisito necessario ai fini della permanenza in servizio dei lavoratori.

Si deduce che, diversamente da quanto argomentato dalla Corte di merito, la locuzione “rinnovabile annualmente” di cui all’art. 3 d.l. 64/2010, va riferita esclusivamente alle modalità di proposizione dei “rinnovi” dell’opzione e non al primo esercizio di tale diritto. Quale corollario, discende che, impedita per la prima volta la decadenza dal diritto, il successivo termine annuale di efficacia della opzione decorre dal momento in cui tale decadenza sia stata effettivamente impedita e non dall’ultimo termine utile per proporla.

Si argomenta inoltre che una interpretazione della disposizione secondo il criterio logico-sistematico, e non puramente letterale, quale quella adottata dal giudice del gravame, consente di ritenere che il legislatore abbia introdotto un regime transitorio la cui durata sia limitata, sul piano temporale, solo ai due anni successivi alla sua entrata in vigore, giacchè, il diverso approdo ermeneutico, comporterebbe la riviviscenza di una normativa ormai abrogata ed un irragionevole innalzamento del tetto pensionistico anche oltre i limiti della previgente disciplina.

4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 18 l. 300/70 e dell’art. 1218 c.c.

Ci si duole che la Corte territoriale non abbia individuato la norma di legge violata nell’irrogazione del licenziamento. Il regime transitorio non avrebbe avuto la funzione di far rivivere per determinate categorie di soggetti, le previgenti soglie anagrafiche, non potendo, quindi l’opzione essere esercitata ai fini di garantirsi la permanenza in servizio sino a tali limiti di età. Inoltre, l’inesistenza dell’elemento soggettivo della colpa avrebbe imposto la riduzione del risarcimento alla misura minima di 5 mensilità, e comunque la detrazione dell’aliunde perceptum.

5. Prioritaria in ordine logico, è la disamina del ricorso interposto dalla Fondazione Teatro dell’O.R.

5.1 II primo motivo presenta profili di inammissibilità.

E’ principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione ivi stabilite, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi.

E’ stato altresì ribadito in numerosi approdi, che quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata – sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore – senza alcun riferimento alle conseguenze che l’errore (sulla legge) processuale comporta, vale a dire alla nullità della sentenza e/o del procedimento, il motivo è inammissibile essendosi il ricorrente limitato ad argomentare solo sulla violazione di legge o sul vizio di motivazione (vedi Cass. 29/11/2016 n. 24247, Cass. 28/09/2015 n. 19124, Cass. S.U. 24/7/2013 n. 17931).

Ove, quindi, il ricorrente lamenti – come nella specie – l’errore processuale consistito nell’aver ritenuto ammissibile il ricorso in opposizione proposto dai lavoratori ex art. 1 comma 51 L. 92/2012 per la carenza dei requisiti sanciti dall’art. 414 c.p.c. non è indispensabile- che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del comma 1 dell’art. 360 cod. proc. civ., con riguardo alla norma processuale violata, purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa violazione.

Nello specifico, parte ricorrente, pur prospettando un vizio di attività del giudice del gravame, ritenuta deviante rispetto al modello legale, ha limitato la propria critica al profilo della violazione di legge senza alcun riferimento alle conseguenze che l’errore sulla legge processuale comporta, con approccio che si espone, per quanto sinora detto, ad un giudizio di inammissibilità.

6. Anche la seconda e la terza critica, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, vanno disattese, per un duplice ordine di motivi.

Va rimarcato innanzitutto, che la Corte distrettuale ha proceduto ad una esegesi della disposizione transitoria scrutinata, che appare coerente con i canoni sanciti dall’art. 12 preleggi.

Ha infatti argomentato che il tenore letterale della disposizione rendeva evidente che “ciò che essa collega al biennio successivo alla sua entrata in vigore è la facoltà di esercitare l’opzione per la permanenza in servizio oltre il 45° anno di età, non anche la durata dell’effetto derivante dall’esercizio di quella facoltà”. La conferma di tale assunto era costituita “dall’inciso che allude ad una frequenza annuale dei rinnovi, indicando chiaramente che l’opzione poteva essere rinnovata più di una volta, mentre l’interpretazione della Fondazione presupporrebbe non più di un rinnovo. La conseguenza di tale interpretazione è che i lavoratori interessati, che abbiano compiuto i 45 anni prima dell’entrata in vigore della norma o che li compiano nel biennio dal 1° luglio 2010 al 1° luglio 2012, esercitando annualmente l’opzione, anche per alcuni anni dopo il biennio ma comunque per un periodo ragionevolmente limitato, mantengono anche al di là di tale periodo il diritto a conservare i previgenti limiti di età di pensionamento, rimanendo in servizio fino al compimento, le donne dei 47 anni e gli uomini dei 52 anni”.

Il biennio indicato dall’art. 3 c. 7 d.l. n. 64/2010 conv. in l. 100/2010 doveva dunque essere inteso come limite temporale che valeva a definire la platea dei lavoratori potenzialmente interessati dalla prevista facoltà di opzione, che avrebbe potuto essere esercitata da tutti coloro che avessero compiuto i 45 anni di età entro il 1° luglio 2012, i quali avrebbero potuto rinnovare l’opzione anche oltre tale biennio.

Quanto ai termini entro i quali esercitare il diritto potestativo della opzione di permanenza in servizio, la Corte di merito ha argomentato in ordine alla interpretazione della espressione “rinnovabile annualmente” come riferita alla opzione inizialmente esercitata, ancorando a tale dato temporale, la ritualità dell’esercizio del diritto di opzione, in adesione ad un corretto canone ermeneutico che riposa sulla lettera della disposizione.

La correttezza degli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito in ordine alla infondatezza delle censure formiate dalla ricorrente Fondazione, è confortata, sotto diverso profilo, dalle ulteriori considerazioni di seguito esposte.

Non può sottacersi che le critiche formulate dalla Fondazione ricorrente, risultano incompatibili con il comportamento concludente assunto dalla Fondazione medesima, la quale aveva consentito la permanenza in servizio dei lavoratori ben oltre il biennio dalla entrata in vigore della legge, e nonostante la pretesa tardività dell’esercizio del diritto di opzione rispetto ai termini previsti dalla citata disposizione.

Va infatti richiamato il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il comportamento – interpretato alla luce dei principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. – del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa, è idoneo come tale (essendo irrilevante qualificarlo come rinuncia tacita ovvero oggettivamente contrastante con gli anzidetti principi) a determinare la perdita della medesima situazione soggettiva (Cass. 28/4/2009 n. 9924, Cass. 8/4/2016 n. 6900).

Si è sostenuto al riguardo che si ha la preclusione di un’azione, o eccezione, o più generalmente di una situazione soggettiva di vantaggio, non per illiceità o comunque per ragioni di stretto diritto, ma a causa di un comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenerne l’abbandono. Che poi di questo comportamento rilevi l’atteggiamento soggettivo di rinuncia tacita ovvero la valutazione oggettiva, resa dall’interprete, di non conformità alla correttezza o alla buona fede, tutto ciò non importa ai fini del risultato finale di perdita della situazione di vantaggio. E così, ad esempio il ritardo nella contestazione dell’addebito disciplinare produce la perdita del potere di licenziare per giusta causa (Cass. 10/11/1997 n. 11095), così come il ritardo nell’esercizio del diritto può portare, nell’insieme delle specifiche circostanze, a ravvisare una tacita rinuncia (cfr. Cass. 15/3/2003 n. 5240, 26/2/2004 n. 3861, 26/6/2008 n. 13549).

La circostanza che, nello specifico, la Fondazione abbia consentito il protrarsi del rapporto per circa un biennio successivo al preteso termine ultimo di permanenza in servizio, appare inidonea ad inficiare la ritualità dell’esercizio del diritto di opzione da parte dei lavoratori in ordine alla permanenza in servizio, come prospettata da parte datoriale.

Dalle superiori argomentazioni, discende, quindi, la reiezione delle critiche formulate.

7. L’ultimo motivo del ricorso proposto dalla Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, avente ad oggetto il regime sanzionatorio applicato dal giudice del gravame, non è condivisibile.

La Corte distrettuale, sul rilievo che il licenziamento dei lavoratori D.S., B., T. e M. fosse stato intimato per superamento dell’età pensionabile nella carenza dei relativi presupposti – avendo essi correttamente esercitato il diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, e non avendo superato i limiti di età previsti dall’art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 conv. in I. n. 100/2010 – con condivisibile approccio ha ritenuto che i licenziamenti irrogati fossero nulli per violazione di norma imperativa, accordando la tutela reintegratoria piena di cui all’art. 18 comma 1 st. lav. come novellato dalla legge n. 92/2012.

Un continuum normativo lega, invero, l’art.18 nella formulazione del 1990 con quella del 2012, laddove conferma la distinzione tra licenziamento inefficace/nullo e licenziamento annullabile.

In generale, nell’ambito delle nullità previste dalla legge di cui al citato comma primo dell’art. 18 st. lav., si è ritenuto in dottrina, che rientri il recesso che infrange il divieto diretto verso l’atto stesso determinando per il dipendente, contro la volontà espressa nel precetto, la perdita del posto di lavoro, con la conseguente lesione di un valore fondamentale per l’ordinamento; così come analoga lesione si registra quando il licenziamento violi direttamente altri diritti di rilievo costituzionale, quali il diritto alla salute o alla libera manifestazione del pensiero. E’ stato poi osservato, con condivisibile approccio, che la previsione della nullità per contrarietà a norma imperativa è insita nell’art. 1418 c.c. che chiaramente la esprime: ci si trova innanzi alla massima sanzione civile prevista per il caso in cui l’autonomia privata sia stata esercitata in difformità rispetto a quanto previsto da norme imperative, e ciò nel presupposto che questa ultime sono state poste a presidio di valori considerati come fondamentali dall’ordinamento giuridico.

8. Va, dunque, rimarcato che nello specifico, la Corte distrettuale ha mostrato di condividere i ricordati principi, e lo ha fatto enunciando le ragioni della nullità dei licenziamenti intimati, mediante rinvio per relationem al consolidato, risalente orientamento di questa Corte secondo cui esercitata l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre il termine di legge, il licenziamento motivato con il compimento dell’età ed il possesso dei requisiti pensionistici è nullo per violazione di norma imperativa (vedi Cass. 14/8/2008 n. 21702).

La giurisprudenza della Corte di cassazione non dubita che, esercitata l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, il licenziamento motivato con il compimento dell’età e il possesso dei requisiti pensionistici, ai sensi della L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 4, comma 2, è nullo per violazione di norma imperativa, (Cass. 28/8/2003, n. 12655; 10/6/1998, n. 5787). Ed invero, il lavoratore in proroga può essere licenziato in conseguenza di illeciti disciplinari, per inidoneità alle mansioni e per giustificato motivo oggettivo in genere, ovvero per riduzione di personale ai sensi della legge n. 223 del 1991, ma non in ragione del compimento dell’età (vedi Cass. 28/4/2004, n. 81619).

La questione, del resto, era stata chiarita già dalla Corte costituzionale con riferimento alle analoghe disposizioni contenute nel D.L. n. 791 del 1981, art. 6, conv. con modif. nella L. n. 54 del 1982, che consentivano al lavoratore di continuare a prestare la propria opera oltre la scadenza del rapporto al fine di incrementare la propria anzianità contributiva. Il Giudice delle leggi ha precisato che, a seguito dell’esercizio della facoltà di opzione, il rapporto di lavoro rimane assoggettato, quanto alle garanzie di stabilità, alla medesima disciplina ad esso applicabile, ma al datore di lavoro non è più consentito di collocare a riposo il dipendente per raggiunti limiti di età; invero, il rifiuto del datore di lavoro di consentire la prosecuzione del rapporto, malgrado l’esercizio della facoltà in questione, configura un atto radicalmente nullo per contrarietà ad una norma imperativa, con conseguente obbligo di riassunzione del lavoratore (Corte costituzionale, sent. n. 465 del 1994, n. 225 del 1994 e n. 309 del 1992). Conformi a diritto si palesano, pertanto, gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito sulla specifica questione, le cui argomentazioni – con riferimento alla posizione delle lavoratrici – vanno sostenute anche con i motivi discriminatori per ragione di sesso, per i quali più diffusamente si argomenterà in relazione al motivo del ricorso principale dalle medesime proposto.

9. Del pari, le conclusioni alle quali è addivenuta la Corte di merito in ordine alla quantificazione del risarcimento del danno appaiono esenti da critiche, essendo del tutto evidente che la Fondazione ha intimato il licenziamento sulla base della erronea interpretazione della norma di legge, dopo aver mantenuto in servizio i lavoratori per un considerevole lasso di tempo dopo l’entrata in vigore della disposizione ed il compimento della nuova età pensionabile; in tal senso non potendo configurarsi l’inesistenza del profilo soggettivo della colpa che avrebbe giustificato, nella prospettazione della ricorrente, una riduzione del risarcimento del danno nella misura minima di cinque mensilità.

10. Sotto altro versante, corretta è altresì, la statuizione dei giudici del gravame con la quale è stata respinta l’eccezione di aliunde perceptum, che non era stata oggetto di rituale allegazione nel corso del giudizio, non consentendo “l’esplicazione di poteri di accertamento d’ufficio da parte della Corte”.

In tema di licenziamento illegittimo, infatti, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (vedi ex aliis, Cass. 12/5/2015 n. 9615).

Nello specifico si impone l’evidenza che la Fondazione non abbia in alcun modo conformato la propria condotta agli oneri – probatori sulla stessa incombenti alla stregua del dictum richiamato, non avendo specificamente allegato e dimostrato la ricorrenza delle ricordate circostanze, né avendo provveduto a riprodurre gli strumenti probatori che aveva dedotto di avere formulato al riguardo nei pregressi gradi di giudizio, così venendo meno ai canoni di specificità che governano la redazione dei motivi del ricorso per cassazione (art. 366 n. 6 c.p.c.) .

In definitiva, le critiche tutte formulate dalla Fondazione Teatro dell’Opera, vanno disattese.

11. Fondato è invece il ricorso proposto dalle lavoratrici. La Corte di Giustizia, all’esito del rinvio pregiudiziale disposto da questa Corte ai sensi dell’art. 276 T.F.U.E., con ordinanza ih data 7 febbraio 2018 ha dato risposta alla questione sollevata, dichiarando che una normativa nazionale, come quella prevista all’articolo 3, comma 7, del decreto legge n. 64 del 30 aprile 2010, convertito in legge n. 100 del 29 giugno 2010, nella sua versione vigente all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, introduce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata dall’articolo 14, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione come previsto all’articolo 141 del trattato.

Nel proprio incedere argomentativo, la Corte di Lussemburgo, richiamando precedenti approdi (v., in particolare, sentenza del 18 novembre 2010, Kleist, C-356/09, EU:C:2010:703) ha chiarito che la nozione di «licenziamento» prevista dall’articolo 14, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/54 deve essere intesa in senso ampio, comprendendo anche la cessazione del rapporto di lavoro per il raggiungimento del limite di età fissato dalla normativa nazionale.

Nell’ottica descritta ha ribadito, per quanto riguarda la direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), abrogata dalla direttiva 2006/54, che una politica generale la quale contempli il licenziamento di una lavoratrice per il solo motivo che essa ha raggiunto o superato l’età alla quale ha diritto ad una pensione di vecchiaia, che è diversa per gli uomini e per le donne ai sensi della normativa nazionale, costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata dalla direttiva 76/207 (sentenza del 18 novembre 2010, Kleist, C-356/09, EU:C: 2010:703, punto 28).

In tale contesto, non può, infatti, essere identificata alcuna circostanza tale da conferire alla situazione dei lavoratori di sesso femminile un carattere specifico rispetto a quella dei lavoratori di sesso maschile giustificando una disparità di trattamento come quella di cui trattasi, non assumendo rilievo ai fini descritti, la volontà del legislatore di non esporre i lavoratori interessati ad un cambiamento repentino, in senso restrittivo, del pregresso regime di mantenimento in attività.

Ha quindi concluso, con riferimento alla normativa nazionale transitoria oggetto del presente scrutinio, nei sensi innanzi descritti, affermando che il licenziamento per raggiungimento dei limiti di età di 47 anni per le donne, è da considerarsi come licenziamento discriminatorio, poiché integra una discriminazione diretta per ragioni di sesso, al quale non possono opporsi legittime deroghe per finalità sociale o di interesse pubblico (punti nn. 38 e 39 della ordinanza della CDG).

12. Questa Corte ritiene non opportuno (salve le determinazioni del giudice di appello che dovrà dare effettività al decisum della Corte di giustizia disapplicando la normativa interna che realizza una disparità di trattamento tra ballerini e ballerine) seguire l’impostazione di cui alla sentenza n. 269/2017 della Corte costituzione (e quindi sollevare incidente di costituzionalità sul punto) in quanto in primo luogo la Corte ha già seguito la strada del rinvio pregiudiziale per valutare la compatibilità della normativa interna con il diritto dell’Unione cui la Corte di giustizia ha dato una univoca risposta positiva cui si tratta dì dare effettività nel rispetto del principio costituzionale (e sovranazionale) del giusto processo, cui è demandato il giudice di merito.

13. In secondo luogo ritiene che il principio affermato nel punto 5.2 della citata sentenza (discussa in dottrina per i suoi effetti in ordine all’immeditato e tempestivo esercizio dei poteri che al Giudice ordinario attribuisce l’ordinamento dell’Unione onde garantire una pronta effettività ai diritti che sono garantiti a livello sovranazionale) costituisca un mero obiter dictum, in quanto la sentenza è (sul punto) di inammissibilità e sotto altro profilo di rigetto e quindi non ha natura obbligante per il Giudice ordinario offrendo solo una proposta metodologica.

14. In terzo luogo si rileva che, sebbene citata dalle parti e in sede di rinvio pregiudiziale, nello specifico la Carta dei diritti ed il suo art. 21 non hanno avuto alcun rilievo decisorio concreto, avendo la Corte di giustizia valutato il contrasto tra la normativa italiana pertinente ed il diritto dell’Unione, sulla base esclusiva dell’interpretazione dell’art.14 direttiva 2006/54, peraltro in relazione alla precedente decisione Kleist, C-356/09 del 18 novembre 2010, che a sua volta non utilizza e richiama minimamente la disposizione della Carta dei diritti.

Pertanto il decisum della Corte di giustizia è rimasto ancorato saldamente all’esame della sola disposizione della direttiva (art. 14) il cui esame conduce alla valutazione di contrarietà della norma interna per discriminazione diretta per ragioni di sesso. Di fatto la Carta è rimasta completamente estranea all’argomentazione della Corte del Lussemburgo ed ancor prima non è stata utilizzata come fonte primaria del diritto UE: pertanto si ricade nell’ambito del caso esaminato nella sentenza n. 111/2017 della Corte costituzionale ( in un caso non molto dissimile di allegata discriminazione per ragioni di sesso), nel quale si è stabilito (il che poi è stato confermato nella stessa n. 269/2017) che il Giudice ordinario, prima di sollevare incidente di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 cost. per violazione del diritto dell’Unione, deve valutare la possibilità di disapplicare (secondo i criteri ordinari) la norma interna rientrando questo compito tra i suoi essenziali poteri.

Si auspica peraltro che la Corte delle leggi voglia apportare comunque chiarimenti in futuro su un punto rimasto comunque oscuro (anche se non rileva nel caso in esame per quanto sopra ricordato) e cioè su cosa debba fare il giudice ordinario allorchè la tutela invocata operi attraverso il combinato disposto tra le direttive e le disposizioni della Carta dei diritti, posto che le prime dovrebbero essere interpretate anche alla luce della seconda che ne costituisce in realtà un parametro di legittimità sostanziale.

15. Ritiene la Corte che non siano fondati, peraltro, gli argomenti di cui alle note della Fondazione Teatro dell’Opera, in quanto la norma sul punto qui in discorso è chiaramente autoapplicativa, poiché proibisce in caso di licenziamento (come deve essere considerato l’atto di recesso alla luce della decisione della Corte di giustizia) qualsiasi differenza di trattamento fondata sul sesso sicché gli stati certamente potevano godere di discrezionalità sia nello stabilire l’età pensionabile che nell’approntare norme transitorie ma non potevano stabilire un diverso trattamento per uomini e donne circa le modalità di risoluzione del rapporto. Va peraltro ricordato che alla luce della sentenza n. 153/2011 della Corte costituzionale gli enti lirici ancorchè privatizzati (come confermato dal Cass. S.U. 29/12/2016 n. 27465, che ha precisato la pacifica giurisdizione del G.O. con riferimento alla disciplina della procedura selettiva indetta da un ente teatrale), mantengono carattere pubblicistico e quindi sono destinatari diretti delle norme autoapplicative delle direttive, per cui non sembrano porsi questioni di applicabilità orizzontale della disposizione qui in esame (peraltro non esplicitamente sollevate nelle note ricordate).

Infatti, la dimensione unitaria dell’interesse pubblico perseguito, nonché il riconoscimento della “missione” di tutela dei valori costituzionalmente protetti dello sviluppo della cultura e della salvaguardia del patrimonio storico e artistico italiano, confermano, sul versante operativo, che le attività svolte dalle fondazioni lirico-sinfoniche sono riferibili allo Stato ed impongono, dunque, che sia il legislatore statale, legittimato dalla lett. g) del secondo comma dell’art. 117 Cost,, a ridisegnarne il quadro ordinamentale e l’impianto organizzativo.

La disposizione di cui all’art. 14 della direttiva 2006/54/CE, self- executing per quanto sinora detto, non consente che si disponga applicazione della norma di diritto interno (secondo i criteri generali fissati dalla Corte di Giustizia e recepiti dalla Corte delle leggi dalla sentenza Granital in poi), la quale introduce una discriminazione fondata sul sesso, da essa vietata.

16. In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso proposto dalle lavoratrici deve essere accolto.

La sentenza impugnata va, quindi, cassata con rinvio alla Corte distrettuale designata in dispositivo la quale provvederà, attenendosi agli enunciati principi di diritto, anche in ordine alle spese del presente giudizio e di quello (incidentale) svolto innanzi alla Corte di Giustizia Europea.

Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente Fondazione Teatro dell’O.R., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione

P.Q.M.

Accoglie il ricorso proposto dai lavoratori; rigetta il ricorso proposto dalla Fondazione Teatro dell’O.R.; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio e di quello svolto dinanzi alla Corte di Giustizia Europea, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente Fondazione Teatro dell’O.R., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

 

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