testo integrale con note e bibliografia

sentenze citate nell'articolo

Il recente caso, salito agli onori della cronaca, della maestra d’asilo licenziata dopo la diffusione- non autorizzata- dei contenuti del suo profilo su un network di visualizzazione di immagini a pagamento genera, oltre alle consuete discussioni di costume non di particolare interesse speculativo, una riflessione sull’ attuale rilevanza dell’ ambito digitale privato del lavoratore dipendente sul suo contesto lavorativo.
Una larga parte delle nostre interazioni sociali oggi si svolge sul web con una carica diffusiva elevata :i nostri contenuti mediatici impattano inevitabilmente su tutti gli aspetti della vita reale , dunque anche sul nostro profilo professionale.
E’ certo che le opinioni ideologiche, sindacali, politiche e religiose nonché tutte le esternazioni verbali di tipo comunque identitario del lavoratore subordinato veicolate sul web , e dunque già in sé potenzialmente destinate ad una cerchia ampia di interlocutori anche se circoscritte a gruppi o canali riservati ,siano preservate anzitutto dagli artt. 2 e 21 della Costituzione, oltre che dalla normativa di settore,( in particolare l’ art 8 St lav )con i limiti loro propri (quando cioè “ …il fatto non rileva sull’ attitudine professionale del lavoratore”): esse , quindi, anche se non condivise , se non incidenti sulla professionalità del dipendente,( si pensi ai medici anti abortisti non obiettori di coscienza)non legittimano interventi correttivi o repressivi del datore di lavoro
Lo stesso può dirsi per le dichiarazioni rese su social media su questioni specifiche attinenti proprio la sfera lavorativa che, ove conformi ai canoni di continenza formale e sostanziale , sono comunque protette dal diritto di critica ( sul punto un ‘interessante pronuncia è la decisione n 1379/2019 - Cassazione sez. lav , sentenza n 1379 del 18.01.2019- dove si afferma tra l’ altro che i principi generali di correttezza e buona fede condizionano l’ esercizio della manifestazione del pensiero del lavoratore).
Del resto anche il codice di comportamento dei pubblici dipendenti ( gli art 11bis e 11 ter del dpr 62/2013 introdotti con dpr n 81 del 13/6/23) e le numerose social media policy vigenti in aziende private oggi utilizzano il criterio “prudenziale” per regolamentare l’utilizzo delle comunicazioni social dei dipendenti: si raccomanda per l’impiego degli accounts privati di rendere dichiarazioni non riferibili al datore di lavoro , ma sempre a titolo personale, o comunque se collegate al contesto lavorativo, non lesive della relativa credibilità e reputazione ( è il caso per es. delle recensioni negative che il dipendente rilascia sul motore di ricerca Google).
Per cui può ragionevolmente ritenersi che solo contenuti divulgativi mediatici offensivi o lesivi dell’ immagine o espressi impropriamente in nome dell’azienda o amministrazione di appartenenza legittimino una reazione datoriale in quanto idonei a minare il rapporto fiduciario con il dipendente.( v Cassazione sez. lav. ordinanze n 2058 del 29.01.2025 e n 28828 dell’ 8.11.2024)
Più complesso è invece stabilire l’impatto sulla gestione di un rapporto lavorativo subordinato di immagini personali del dipendente pubblicate su social network e che abbiano contenuti sconvenienti – in quanto non conformi alla comune sensibilità- o non in linea con la “ mission” datoriale.
La prima difficoltà consiste nell’ individuare un nesso tra un contenuto fotografico e una manifestazione del pensiero: quando può cioè dirsi che una fotografia abbia in sé un contenuto ideologico o comunque suggestivo.
La seconda difficoltà è data invece dalla ricerca di un nesso con il profilo lavorativo quando i contenuti visivi pubblicati siano del tutto avulsi dall’ orario, dai luoghi e dai contenuti della prestazione professionale e dunque inducano in chi li guarda un giudizio sulla persona e non sul suo profitto lavorativo.
La questione si pone per le immagini di tipo narcisista o con una spiccata attitudine seduttiva che non hanno un contenuto esplicito e nulla a che fare con il profilo professionale svolto dall’interessato.
Il diritto all’ immagine è una prerogativa di ciascun individuo che si declina anche nella facoltà di scegliere e controllarne la percezione altrui nei suoi contenuti identificativi; esso può quindi anche essere una manifestazione della libera espressione della sfera sessuale privata di ciascuno.
Tale diritto trova però un limite di carattere generale in quello che oggi si definisce “ il complesso di regole etico- sociali attinenti alla normale riservatezza e alla elementare costumatezza ( Cassazione sez. IIi penale sentenza n 3557 del 20.03.2000); ma anche, per il dipendente, un limite di carattere particolare rappresentato dalla regola codificata dall’ art 2104 cc che impone al lavoratore di impiegare nell’ esecuzione della prestazione lavorativa la diligenza richiesta dalla natura della prestazione e dall’ interesse dell’ impresa.
Quindi chi svolge un ‘attività lavorativa a contatto con il pubblico così esponendosi a valutazioni anche personali o che “brandizza” l’ente di appartenenza collegandolo direttamente alla sua persona, deve utilizzare particolare cautela nella pubblicazione di immagini di sé che , pur non allusive, possano però suggerire in chi li visiona un’ identificazione con il pensiero e lo scopo commerciale/istituzionale del datore di lavoro.
Il caso di cronaca dal quale nasce questa riflessione presenta profili di eccentricità: le foto acquisite dal web e diffuse illecitamente nell’ ambito lavorativo hanno svelato una seconda attività della dipendente remunerata e non comunicata né al datore di lavoro né tantomeno al Fisco .
Dunque un’attività contra legem che giustifica di per sé una reazione datoriale .
Ogni intervento sanzionatorio deve però essere proporzionato, adeguato al profilo professionale e “ giusto” tenendo conto anche della reale incidenza dell’immagine mediatica sulla esattezza della prestazione lavorativa.

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