Testo Integrale con note e bibliografia       Testo della Sentenza

Sommario
1. Il caso di specie.
2. La regola del divieto di discriminazione del lavoratore part time e il limite della sua applicazione alle «condizioni di lavoro».
3. La regola della parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, «presa sul serio».
4. I limiti dell’ordinamento UE e l’esigenza di un intervento normativo.

1. La sentenza della CGUE 9 novembre 2017 (C-98/15), resa a seguito del rinvio pregiudiziale di un giudice del lavoro di Barcellona, è interessante perché conferma e consolida dei punti di approdo raggiunti recentemente dai giudici europei a proposito di due questioni giuridiche su cui in passato si erano registrati orientamenti problematici e contraddittori, come vedremo nel dettaglio.
Incominciamo dai fatti. Una lavoratrice spagnola a tempo parziale, alla cessazione del suo rapporto di lavoro con un’impresa di pulizie, aveva domandato l’indennità di disoccupazione al competente Servicio publico de empleo estatal, ottenendo l’agognato sostegno economico per un periodo di soli 120 giorni. Ritenendo di avere diritto ad una prestazione sociale ben più duratura (720 giorni), la lavoratrice disoccupata aveva proposto reclamo al medesimo ente pubblico. Quest’ultimo, infine, aveva accolto solo parzialmente le contestazioni, concedendo l’indennità di disoccupazione per soli 420 giorni. La questione giungeva quindi di fronte al Tribunale competente.
Il giudice adito constatava che la lavoratrice part time aveva prestato la sua attività distribuendo l’orario ridotto su soli quattro giorni settimanali, come da accordi regolarmente presi con il datore di lavoro – si trattava dunque del part time c.d. verticale . Inoltre, accertava che, nel rispetto della legge spagnola, i contributi erano stati regolarmente versati in una misura che dipendeva dal quantum della retribuzione mensile erogata e non dei giorni di lavoro effettivo. Infine, prendeva atto che l’ente previdenziale spagnolo aveva individuato la durata della prestazione sociale richiesta e dovuta, applicando una disciplina speciale secondo cui tale durata, nel caso di un lavoratore a tempo parziale, si calcola considerando il numero di giorni lavorati e a prescindere dal (ridotto) orario di lavoro giornaliero prestato (cfr. art. 3 paragrafo 4 del R.D. 625/1985).
Considerando che, invece, la Ley General de la Seguridad Social (R.D.L. 1/1994), in relazione agli altri tipi di rapporti di lavoro, fa dipendere la durata della prestazione di disoccupazione dai periodi di contribuzione piuttosto che dai giorni di lavoro effettivo e che ove le parti del rapporto avessero «spalmato» l’orario di lavoro ridotto su tutti i giorni della settimana, la lavoratrice avrebbe avuto diritto ad una prestazione sociale più estesa nel tempo (a parità di contribuzione versata all’ente previdenziale), il giudice spagnolo ha scorto una possibile incompatibilità fra la disciplina speciale applicata nel caso di specie e il diritto dell’Unione europea. Pertanto ha sospeso il procedimento di merito sottoponendo alla CGUE la questione emersa .

2. È opportuno analizzare le questioni affrontate nella decisione muovendo dalla strategia adottata dal giudice spagnolo per l’elaborazione dei quesiti sottoposti al giudice europeo. Egli ha, infatti, chiaramente preso in considerazione le caratteristiche e i limiti della normativa UE rilevante e del diritto vivente dettato dalla CGUE.
In primo luogo, il Tribunale di Barcellona domanda alla Corte di Lussemburgo se la sola circostanza di aver distribuito l’orario di lavoro in alcuni giorni della settimana renda o meno legittimo, a parità di contribuzione versata, l’erogazione di una prestazione sociale di durata più breve rispetto a quella riconosciuta ai lavoratori che prestano la loro attività in tutti i giorni settimanali, in orario ridotto o in regime full time. Ciò, ovviamente, alla luce del diritto UE e, in particolare, in virtù della clausola 4 della direttiva 97/81/CE contenente l’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale secondo cui «per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive» o dall’opportuna applicazione del principio «pro rata temporis».
Il dubbio di compatibilità evidenziato sembra ovvio perché, in effetti, il profilo discriminatorio che più immediatamente emerge accede al noto tema del trattamento riservato ai lavoratori non standard e, in particolare, ai lavoratori a tempo parziale (di tipo verticale). Tuttavia, rispetto ai casi come quello di specie, l’ambito di applicazione della direttiva sul lavoro part time impone di usare delle cautele che il giudice remittente non ha mancato di impiegare. Come è noto, infatti, il principio di non discriminazione della clausola 4 succitata si applica solo alle «condizioni di impiego», fra le quali è discutibile che vi possa rientrare il trattamento di disoccupazione, fondato sì su un regime contributivo ma disciplinato da una legge ed erogato da un ente pubblico. D’altronde, come è stato osservato, la direttiva 97/81/CE riconosce espressamente, nel suo preambolo, che le questioni relative ai regimi legali di sicurezza sociale rimangono di competenza degli Stati membri, coerentemente con i trattati UE allora vigenti .
Per tale ragione, il giudice di Barcellona domanda, in prima istanza, se la clausola 4 della direttiva sul lavoro part time sia applicabile ad una prestazione sociale finanziata esclusivamente con i contributi versati dalle parti del rapporto e, in secondo luogo, domanda, nel caso di risposta positiva al primo quesito, se essa osti alla disciplina speciale spagnola applicabile nel caso di specie. Ma – ecco venire a galla i profili problematici di diritto vivente – nel farlo, anche per giustificare una scelta che potrebbe apparire altrimenti azzardata per il motivo che abbiamo appena evidenziato, il giudice catalano precisa espressamente che i due quesiti sono posti «in applicazione» della giurisprudenza risultante dalla sentenza CGUE 10 giugno 2010 (C- 395/08 e C-396/08), Bruno e altri. Decisione resa, peraltro, nell’ambito di un procedimento pregiudiziale avviato da un giudice italiano e relativo ad un trattamento pensionistico erogato dall’INPS . In pratica, il giudice spagnolo fa leva non tanto sulla lettera del diritto UE (come sarebbe sufficiente fare), ma su un particolare orientamento di diritto vivente.
Vediamo allora perché è stata avanzata questa (non necessaria) precisazione e, successivamente, in che modo la CGUE ha risposto ai primi due quesiti posti.
Per cominciare è necessario puntualizzare che, in effetti, l’esclusione dei regimi legali di sicurezza sociale dall’ambito di applicazione della direttiva UE sul lavoro part time è un aspetto di per sé indiscutibile: esso infatti rappresenta l’esito di un complesso compromesso politico e sindacale su cui tanto si è scritto, soprattutto in termini critici . D’altronde l’UE, almeno fino all’entrata in vigore del Trattato di Nizza del 2000, non aveva sicuri ed agili spazi di intervento vincolante in materia di sicurezza sociale . Semmai è apparso via via sempre più problematico distinguere fra ciò che rientra nella categoria dei regimi legali di sicurezza sociale – e su cui quindi non può interferire la suddetta direttiva UE – e ciò che, invece, pur assumendo una funzione anche previdenziale, rientra nella nozione di «condizioni di lavoro» e, in particolare, in quella di retribuzione. A partire, infatti, dalla prima sentenza Defrenne (CGCE 25 maggio 1971, C-80/1970) si è giustamente affermato che alcuni vantaggi riconosciuti ai lavoratori e aventi funzione anche previdenziale non sono necessariamente estranei alla nozione di retribuzione . In particolare, si riteneva originariamente che possono rientrare in quest’ultima nozione i vantaggi pagati dal datore in dipendenza del rapporto di lavoro, nei casi in cui la legge autorizzi le parti interessate a sostituire al regime previdenziale nazionale, le prestazioni previdenziali negoziate: si tratta delle prestazioni che formano la categoria dei c.d. regimi professionali di sicurezza sociale . Più avanti, la Corte di Giustizia ha allargato ancora di più i confini della nozione di retribuzione, attirandosi, stavolta, le critiche della dottrina italiana ed europea maggioritaria . Nel 2008, infatti, la Corte ha fatto rientrare nella nozione anche il trattamento erogato dall’italiana INPDAD – in ragione del fatto che esso era riservato ad una categoria particolare di lavoratori; nel 2010, addirittura, i giudici europei vi hanno ricompreso anche il trattamento pensionistico dell’INPS . È proprio quest’ultimo il caso citato dal Tribunale di Barcellona per argomentare il proprio dubbio in ordine alla compatibilità fra ordinamento domestico e diritto UE e avanzare la tesi secondo cui anche il trattamento pubblico di disoccupazione rientrerebbe nell’ambito di applicazione della clausola 4 della direttiva 97/81/CE sulla parità di trattamento dei lavoratori part time.
La CGUE, tuttavia, non raccoglie l’assist argomentativo del Tribunale di Barcellona, ma richiama la giurisprudenza più recente secondo cui «rientrano nella nozione di “condizioni di impiego” le pensioni che dipendono da un rapporto di lavoro tra il lavoratore e il datore di lavoro, ad esclusione delle pensioni legali di previdenza sociale, meno dipendenti da un rapporto siffatto che da considerazioni di ordine sociale» . In effetti, i Giudici europei, forse anche prendendo atto delle critiche ricevute dalla dottrina dopo la decisione sul caso Bruno/Inps del 2010, sembrano essere «rientrati nei ranghi», tornando ad interpretare la nozione di retribuzione senza eccessiva elasticità . Non si può dire, invero, che le sentenze più recenti della CGUE siano più chiare o più convincenti di quelle precedenti, sotto il profilo argomentativo, considerato che il criterio distintivo fra regime previdenziale legale o professionale rimane tracciato dal vago riferimento alla maggiore o minore «dipendenza» del trattamento previdenziale da un rapporto di lavoro ovvero da considerazioni di ordine sociale. Certo è che oggi la Corte riconosce maggiore rilievo all’ambito di applicazione del trattamento sociale in questione, ritenendo che la sua erogazione alla generalità dei lavoratori che si trovino nelle condizioni di bisogno prese in considerazione dalla legge nazionale, imponga di catalogarlo fra i regimi legali di previdenza (e viceversa) e, quindi, di escluderlo dall’(o includerlo nell’)ambito di applicazione delle norme e delle direttive UE che fanno riferimento alla nozione di retribuzione (art. 157 TFUE) e di “condizioni di lavoro” (clausola 4 della direttiva 97/81/CE).
Di ciò già da qualche tempo ha preso atto la giurisprudenza italiana, anche quando giunge al medesimo risultato dell’applicazione del principio di parità di trattamento fra lavoratori full time e lavoratori part time. Infatti, essa non fa (più) riferimento alla problematica giurisprudenza UE di cui supra, ma argomenta le decisioni più recenti sulla scorta dei principi immanenti nel nostro ordinamento in tema eguaglianza e di rapporto di lavoro a tempo parziale . E anche nel dibattito spagnolo non manca chi ritiene che il caso trattato dal Tribunale di Barcellona poteva essere deciso senza fare ricorso all’interpretazione della CGUE, ma interpretando la disciplina nazionale in modo conforme alla Costituzione .
Con la sentenza che si commenta, la CGUE invia un segnale chiaro a proposito del cambio di rotta già impresso e dell’intenzione di non tornare sui propri passi. Essa, infatti, nella parte motiva della sentenza, ignora deliberatamente la propria criticabile giurisprudenza richiamata dal giudice del caso di specie, valorizzando invece l’orientamento più recente ed equilibrato. La Corte, in particolare, chiarisce i termini e irrigidisce, per certi aspetti, il proprio approccio ermeneutico. Infatti, i giudici europei escludono che al caso di specie si possa applicare la clausola 4 della direttiva 97/81/CE perché «sebbene la prestazione di cui trattasi nel procedimento principale sia finanziata esclusivamente dai contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro, tali contributi sono versati in applicazione della normativa nazionale e, di conseguenza, non sono regolati dal contratto di lavoro concluso tra il lavoratore e il datore di lavoro. Pertanto, (…) tale sistema presenta più analogie con un regime previdenziale amministrato dallo Stato». In definitiva, sembra che la CGUE sia ora dell’idea, pienamente condivisibile, che un regime previdenziale delineato dalla legge e amministrato dallo Stato non possa rientrare fra i regimi professionali di sicurezza sociale, a prescindere dalla presenza di altre caratteristiche valorizzate in passato, come la natura contributiva della prestazione previdenziale o la sua applicazione ad una categoria particolare di lavoratori. Tale regime, quindi, non può rientrare nell’ambito di applicazione della disciplina europea in materia di «condizioni di lavoro» e una lavoratrice part time «vittima», sotto il profilo della sicurezza sociale, di un trattamento peggiore di quello riservato agli altri lavoratori non può contare sulla garanzia della parità di trattamento prevista dalle normative UE sul lavoro non standard.

3. Veniamo alla seconda questione trattata nella sentenza. Probabilmente conscio della recente e più equilibrata posizione assunta dalla CGUE sull’ambito di applicazione del principio di parità di trattamento in materia di lavoro part time, il giudice del rinvio pregiudiziale pone alla CGUE un altro quesito. Egli, infatti, domanda «se il divieto di discriminazione, diretta o indiretta, fondata sul sesso, di cui all’articolo 4 della direttiva 79/7, debba essere interpretato nel senso che osti o si opponga ad una disposizione nazionale, quale l’articolo 3, paragrafo 4, del RD 625/1985, che, nei casi di lavoro a tempo parziale “verticale” (lavoro per tre soli giorni alla settimana), escluda dal computo dei giorni di contribuzione i giorni non lavorati, con conseguente riduzione della durata della prestazione di disoccupazione». La direttiva 79/7/CEE cui si riferisce il giudice spagnolo, in effetti, dà «graduale attuazione» al principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne nella materia della sicurezza sociale: proprio quella esclusa, come abbiamo visto, dall’ambito di applicazione della direttiva sul lavoro part time. In sostanza, quindi, il giudice spagnolo propone di guardare ad un altro possibile effetto discriminatorio – quello indirettamente connesso al genere di appartenenza della ricorrente – nell’ipotesi, invero prevedibile come abbiamo visto, in cui il fattore discriminatorio immediatamente colpito dalla disciplina nazionale applicabile – ovvero il fattore della condizione di lavoratore non standard – non risulti «coperto», sotto il profilo della parità di trattamento, dalla disciplina UE.
La prospettazione del Tribunale di Barcellona non è nuova, come è noto. Il rapporto complesso che lega le regole e i principi dedicati ai lavoratori non standard con il principio del divieto di discriminazione (indirettamente) fondata sul sesso è stato da sempre oggetto di attenzione della dottrina e dei giudici. D’altronde tutti gli studi statistici, in Italia, come in Spagna e nel resto d’Europa, dimostrano che la categoria dei lavoratori «atipici» e soprattutto quella dei lavoratori part time, è composta in buona parte da donne . Quindi un criterio distintivo nazionale fondato sull’appartenenza alla categoria dei lavoratori non standard (o ad una sua sottocategoria, come quella dei lavoratori part time verticali), interferisce necessariamente, anche se «solo» indirettamente, con la materia della discriminazione di genere .
Anche questa richiesta di interpretazione del giudice di Barcellona presentava delle incognite. La direttiva 79/7/CEE, infatti, non è stata oggetto di numerose interpretazioni della Corte di Giustizia e, soprattutto nelle prime occasioni che si sono presentate, la CGUE ha assunto un atteggiamento, per così dire «accomodante» nei confronti delle discipline nazionali, che ha rallentato l’attuazione del principio della parità di genere posto alla base della direttiva in materia di sicurezza sociale.
Innanzitutto, si deve premettere che le stesse istituzioni europee hanno sempre usato particolare cautela in materia di sicurezza sociale, a causa del fatto che la competenza a legiferare su di essa spettava e, in gran parte, spetta ancora agli stati nazionali . È per questa ragione che l’art. 7 della direttiva prevede una serie di rilevanti deroghe al principio di parità di trattamento dettato all’art. 4: esse sono, infatti, finalizzate a garantire gli spazi di azione delle legislazioni nazionali. Peraltro, nonostante siano intervenute diverse riforme dei Trattati UE, le medesime istituzioni europee non sono mai riuscite a rivedere e ad aggiornare la disciplina in materia sicurezza sociale, nemmeno sotto il particolare profilo della parità di trattamento uomo/donna .
In questo contesto, la CGUE, come dicevamo, ha, in un primo tempo, interpretato la direttiva 79/7/CEE in modo da non mettere mai in discussione gli ampi spazi di intervento del legislatore nazionale: per un verso, infatti, le deroghe dell’art. 7 della direttiva venivano interpretate molto estensivamente , per un altro verso, invece, le giustificazioni, fondate su presunti fattori obiettivi e opposte dai paesi membri «a difesa» delle discriminazioni indirette contestate dai lavoratori o dalle lavoratrici, venivano il più delle volte accolte dai giudici di Lussemburgo, per il fatto stesso di dipendere da esigenze di irrinunciabile contenimento della spesa pubblica .
Anche sotto questo profilo, però, è stata osservata un’interessante evoluzione dell’atteggiamento della Corte , di segno opposto a quella registrata nel paragrafo precedente. Nei casi più recenti, infatti, l’ambito di applicazione delle deroghe al principio di parità di trattamento (art. 7 direttiva 79/7/CEE) pare essere stato ragionevolmente ridimensionato e ricondotto alla sua dimensione di eccezione rispetto alla regola della parità fissata all’art. 4 della direttiva . Inoltre, i Giudici europei hanno cominciato a svolgere un sindacato più rigoroso e critico a proposito dei fattori obiettivi che giustificano le discriminazioni indirette prodotte dalle normative nazionali sulla sicurezza sociale . Secondo un’altra prospettazione, peraltro, dall’analisi della giurisprudenza europea non emergerebbe una tendenza necessariamente lineare e coerente negli orientamenti della Corte, quanto semmai un atteggiamento ondivago della stessa, le cui decisioni sembrano influenzate a volte da «elementi diversi, non sempre di carattere oggettivo» e, in particolare, da considerazioni di opportunità finalizzate a riconoscere, in un modo o in un altro, una qualche tutela al lavoratore coinvolto. In effetti, stando così le cose sul piano normativo, in materia di sicurezza sociale dei lavoratori non standard, non stupisce che la Corte sia indotta ad assumere un approccio, per così dire, ragionevole ma casistico. Ovvero ad estendere (o meno) il campo di applicazione della direttiva sul lavoro part time, quando le caratteristiche del caso concreto lascino supporre (o meno) l’applicazione delle ampie deroghe di cui all’art. 7 della direttiva 79/7/CEE o la giustificabilità oggettiva delle discriminazioni indirette di genere oppure quando il ricorrente, nel caso di specie, non appartiene al genere che risulta maggiormente danneggiato dalla discriminazione in materia di sicurezza sociale.
Come che sia, con la sentenza che si commenta, la CGUE conferma il proprio orientamento più recente, applicando una interpretazione rigorosa delle giustificazioni poste alla base della discriminazione indiretta individuata: si legge, infatti, in coerenza con la giurisprudenza UE in materia di diritto antidiscriminatorio, che la discriminazione indiretta può essere considerata legittima solo se i mezzi scelti rispondono ad uno scopo legittimo di politica sociale, se sono idonei a raggiungere tale obiettivo e se sono necessari a tale fine. E a questa scontata affermazione di principio, segue una netta presa di posizione riguardo agli argomenti offerti dal governo spagnolo nel caso particolare. I Giudici, infatti, accertano che la motivazione addotta a difesa degli effetti discriminatori indiretti – secondo la quale il sistema previdenziale deve fondarsi su un rapporto di proporzione fra contributi versati e prestazione sociale resa a tutela del bilancio pubblico – non è pertinente, poiché nel caso concreto la lavoratrice aveva versato i contributi in ragione dell’orario (ridotto) di lavoro prestato ogni mese e non era invece tenuta a versare una contribuzione (ancora) più bassa in ragione della collocazione «verticale» dell’orario di lavoro ridotto concordato con l’impresa di pulizie. La CGUE, in definitiva, conferma di voler «prendere sul serio» la direttiva 79/7/CEE e, peraltro, invita anche il giudice che ha posto la questione pregiudiziale a fare altrettanto. Infatti la Corte di Giustizia, pur riconoscendo che spetta a quest’ultimo il potere di accertare in concreto se l’obiettivo dichiarato dalla Spagna sia effettivamente quello perseguito dalla legge speciale applicabile , precisa che «la misura nazionale oggetto del procedimento principale non sembra idonea a garantire la correlazione che, secondo il governo spagnolo, deve sussistere tra i contributi versati dal lavoratore e i diritti che questi può richiedere in materia di prestazione di disoccupazione» .

4. La decisione cui è giunta la CGUE è, di per sé, condivisibile perché colpisce un effetto discriminatorio che nessuna delle parti coinvolte è riuscita a contestare o a giustificare, ma il percorso logico giuridico seguito nelle motivazioni evidenzia i limiti del diritto UE e delle evoluzioni (o contraddizioni) che il diritto vivente è costretto a sopportare per garantire soluzioni ragionevoli.
Naturalmente, però, per superare questo stato di cose non è sufficiente richiedere un maggiore sforzo ricostruttivo ai Giudici europei. Piuttosto sarebbe opportuno che, nel rispetto dei limiti posti dai Trattati, le istituzioni europee intervengano e aggiornino la normativa UE, anche sforzandosi di raggiungere la necessaria unanimità. Il settore della sicurezza sociale e, in particolare, quello dei regimi legali di previdenza non è infatti adeguatamente presidiato sotto il profilo della parità di trattamento: tale principio, per quanto riguarda la materia previdenziale, è espressamente previsto ed applicato in relazione al fattore di genere – nei limiti di ciò che abbiamo precisato nel paragrafo precedente –, al fattore contiguo del mutamento sessuale e, infine, a quello della razza e dell’origine etnica . Invece, in riferimento alla condizione dei lavoratori non standard, una regola che vieti le discriminazioni dirette e indirette perpetrate dalle discipline nazionali sulla sicurezza sociale non è ancora stata formulata. Con la conseguenza paradossale che se la sig.ra Espadas fosse stata il sig. Espadas, la Corte di Giustizia si sarebbe trovata di fronte ad un’alternativa scomoda: estendere oltre modo l’ambito di applicazione della direttiva sul lavoro part time per colpire una discriminazione ingiusta – ma a scapito della lettera della direttiva e, quindi, della certezza del diritto –, o dichiarare la disciplina nazionale “non incompatibile” con il diritto UE – a scapito del senso di giustizia .

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