Testo integrale con note e bibliografia

Ritengo opportuno muovere da due premesse. La prima mi è sollecitata dall’intervento di Luca Nogler; il quale ha ammesso che, in definitiva, tutte le figure di licenziamento gli paiono equiparabili perché tutte si risolvono nella perdita del posto di lavoro. Una simile prospettiva, unilaterale e unificante, ontologicamente caratterizzata, postula però la preclusione di qualsiasi articolazione sanzionatoria. Come confermano gli sviluppi che tale prospettiva ha trovato negli interventi adesivi di Marco Barbieri e Stefano Giubboni; nei quali interventi, tuttavia, non a caso, ermeneutica giuridica, politica del diritto e politica tout court si mescolano in un intreccio inestricabile.
La mia premessa è invece che le diverse figure di licenziamento vanno collocate (lo sono state dal legislatore, del resto, in certa misura, fin dal 1966 e non solo nel secondo decennio di questo secolo) su piani diversi proprio nella prospettiva valoriale tanto cara ai citati interventori.
La seconda premessa, di carattere più generale, è costituita da un principio cardine del pensiero liberale (ed io non intendo rinunciare al mio background ideologico) secondo cui le democrazie si fondano sull’equilibrio e sul contrappeso dei poteri.
Noi (non solo noi, ovviamente) abbiamo due organismi istituzionali dotati di sovranità assoluta, nell’ordinamento interno la Corte Costituzionale e nell’ordinamento comunitario, in cui siamo inseriti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La quale, osservo per inciso, frequentemente ne fa uso disinvolto, profittando della tecnica spesso approssimativa delle Direttive e giocando sugli intrecci tra la loro parte propriamente normativa e i “considerando” che la precedono.
Orbene, la nostra Corte costituzionale è sempre stata molto attenta ad evitare forzature negli interventi sulle scelte legislative. Ho però qualche dubbio che, sotto le pressioni (dottrinali, giurisprudenziali, politiche) verso la restaurazione del testo originario dell’art, 18 St. lav. nonché verso l’erosione del c.d. Jobs Act, sia riuscita e riesca a mantenere l’opportuno self-restraint.
Il percorso della Corte ha preso avvio dalla sentenza 194/2018 relativa all’art. 3, comma 1, d. lgs. 23/2015 in cui ha in larga misura resistito alle anzidette pressioni come bene sottolineato da Mariella Magnani. Così ha ribadito l’irrilevanza costituzionale dell’alternativa reintegrazione/tutela risarcitoria, l’onnicomprensività del risarcimento quale previsto dalla disciplina vigente, la legittimità della coesistenza di due regimi sanzionatori radicalmente differenti in dipendenza della loro diversa entrata in vigore.
La Corte però ha consapevolmente obliterato l’obiettivo di certezza del diritto/prevedibilità della sanzione (dichiaratamente) ispiratore dell’intera riforma e valore fondamentale di ogni civiltà giuridica,
Il dubbio che ho poc’anzi manifestato mi è stato peraltro in particolare suscitato dalla successiva sentenza sul Jobs Act, la n. 150/2020, concernente la sanzione prevista dall’art. 4, d. lgs. 23/2015, per il licenziamento affetto da vizi formali/procedurali.
La Corte Costituzionale ha ritenuto irragionevole la determinazione dell’indennità in relazione all’anzianità di servizio sulla base delle medesime argomentazioni spese nella precedente sentenza sull’art. 3, d. lgs. 23/2015, così sostanzialmente collocando sul medesimo piano il licenziamento affetto da vizi formali e quello affatto da vizi sostanziali.
Ciò è, a mio avviso, irragionevole. Se il giudice dichiara “inefficace” il licenziamento per vizi formali/procedurali è perché si sono verificate due situazioni: il lavoratore si è limitato a chiedere la pronuncia di inefficacia in quanto consapevole della insussistenza di vizi sostanziali oppure il medesimo giudice ne ha escluso la sussistenza, respingendo preliminarmente la domanda diretta a farli valere per conseguire la tutela sanzionatoria piena.
La prima sentenza del percorso di restaurazione del vecchio testo dell’art. 18 intrapreso dalla Corte costituzionale è la n. 59, 1 aprile 2021, riguardante la facoltatività, rimessa all’apprezzamento del giudice, della reintegra nel caso di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo: il ben noto verbo “può” del comma 7, secondo periodo.
La Corte censura l’orientamento formatosi in Cassazione per dare applicazione all’alternativa voluta dal legislatore contenendo in limiti ragionevoli la discrezionalità del giudice, in particolare censura la sentenza della Suprema Corte n. 10435/2018 (est. Boghetich), e cancella il “può”.
Non essendo questo il luogo per una dettagliata esposizione dei miei rilievi critici alla sentenza n. 59 devo limitarmi a rinviare alla nota che ho redatto con Elisa Puccetti . Qui mi preme piuttosto registrare l’influenza che la vis restauratrice della Corte delle leggi ha esercitato sulla Corte di cassazione essendo io di opinione diversa da quella espressa da Luca Nogler, secondo cui sarebbe stata la seconda a far da sponda alla prima.
A mio avviso, infatti, la “copertura” della Corte costituzionale ha fatto ritenere ai Consiglieri della Sezione lavoro della Suprema Corte per i quali l’obiettivo prevalente da perseguire è l’affermazione della loro idea di giustizia (sociale) che fosse giunto il momento di modificare gli equilibri interni alla Sezione .
A fronte dell’orientamento consolidato secondo cui il riferimento alle “previsioni dei contratti collettivi” contenuto nell’art. 18, comma 4, doveva intendersi circoscritto alle clausole contenenti puntuali tipizzazioni di sanzioni conservative, il 27 maggio 2021 la sezione VI della Corte di cassazione ha adottato un’ordinanza interlocutoria (n.14777, est. Ponterio) con una ricca motivazione, nella quale ha citato proprio le sentenze n. 150/2020 e n. 59/2021 della Consulta, mirante ad un revirement di tale orientamento. Così, “ritenuto che la decisione della fattispecie oggetto di causa assume rilievo paradigmatico per una ulteriore riflessione sulla portata precettiva della legge n. 300 del 1970, come modificato e, quindi, valore nomofilattico”, ha disposto “la trasmissione del procedimento alla Sezione quarta” . Trasmissione, dunque, non al Presidente per la rimessione alle Sezioni Unite, atteso anche il contrasto di giurisprudenza, evitando che la questione venisse risolta al di fuori della Sezione lavoro.
Non è stata certo una sorpresa che la Sezione quarta (n.11665/2022, est. Garri) abbia aderito all’invito dell’ordinanza di rimessione, richiamando le medesime pronunce della Corte Costituzionale, ed attratto nella tutela reale licenziamenti concernenti fatti sussumibili in clausole generali descrittive di sanzioni conservative ; clausole generali che però non trovano riscontro di sorta nella contrattazione collettiva che, notoriamente, definisce le sanzioni conservative non secondo la tecnica delle clausole generali ma con il metodo casistico riferendosi a condotte più o meno specifiche. Nella medesima udienza il Collegio ha pronunciato una sentenza conforme (n. 13063/2022, est. Amendola) prescindendo pure dalle clausole generali di fonte collettive e ritenendo applicabile la tutela reale in virtù di un’applicazione analogica della casistica contrattuale in virtù del “contiguo disvalore disciplinare” .
La Suprema Corte è giunta poi a dare seguito a tale orientamento addirittura in un caso in cui la clausola del ccnl si limitava ad elencare la sanzioni adottabili senza alcuna indicazione delle infrazioni riconducibili ad esse e senza alcuna formula neppur generica improntata alla loro gravità (Cass., 28 giugno 2022, n. 20780).
Tornando al percorso della Corte costituzionale, il passo ulteriore è operato dalla sentenza n. 125/2022 che torna sul comma 7, secondo periodo, dell’art. 18 per abrogare anche l’aggettivo “manifesta” aggiunto dalla norma alla “insussistenza del fatto” per distinguerla dalla mera “insussistenza” di cui al precedente comma 4.
Le ragioni dell’intervento ablativo sono sostanzialmente le stesse addotte nella sentenza n. 59 con riguardo al verbo “può” tanto che in quella può leggersi l’implicito invito al Tribunale di Ravenna di riproporre la questione di costituzionalità anche relativamente al detto aggettivo.
In dottrina si era cercato di svuotarlo di significato osservando che un fatto sussiste o non sussiste mentre non può darsi alcuna gradazione della sua sussistenza. Ho ancora nelle orecchie il “grido” polemico di Maria Teresa Carinci nel suo intervento alle Giornate torinesi dell’Aidlass.
Sennonché l’aggettivo manifesta non riguarda l’esistenza del fatto ma la percezione che ne ha chi lo osserva. Il dizionario Treccani ci insegna che tale aggettivo aggiunto ad un fatto lo qualifica come “palese, chiaro, evidente, offerto palesemente alla vista o all’intelletto”.
Allorché avevo provocatoriamente qualificato come apparente la norma contenuta nell’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015 ero stato aspramente criticato per non aver tenuto conto che, quando il legislatore offre una statuizione, l’interprete, specie il giudice, deve sforzarsi di darle applicazione.
È quanto la Suprema Corte ha fatto con riguardo alla norma contenuta nel comma 7, secondo periodo, dell’art. 18, senza alcuna forzatura, va riconosciuto, dei canoni fondamentali dell’ermeneutica giuridica, a cominciare da quello grammaticale e sintattico . Diversamente da quanto è stata costretta a fare la Suprema Corte nella sentenza n. 1663/2020 (est. Raimondi) relativa all’anzidetto art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2018. Anche a questo riguardo sono costretto a rinviare al mio commento della sentenza .
La Corte costituzionale ha del resto preso le mosse dal diritto vivente riconoscendo quindi che l’aggettivo “manifesto” corrispondeva ad una precisa ed individuabile volontà legislativa, tuttavia collidente con la Carta fondamentale. Un fil rouge lega le sue osservazioni critiche nei confronti del diritto vivente svolte nelle sentenze n. 59 e n. 125, in particolare, nella seconda, della citata sentenza, accuratamente argomentata, della Suprema Corte n. 10435/2018. La Corte delle leggi, dunque, anche in questo caso non ha atteso il revirement della Cassazione ed ha abrogato l’avverbio.
Con riguardo a questa sentenza mi limito qui a sottolineare la marginalizzazione dell’obiettivo della certezza del diritto/prevedibilità della sanzione che è un cardine del Jobs Act, ma già della “riforma Fornero”, ed è un valore di ogni civiltà giuridica.
La Corte costituzionale ravvisa infatti il vizio di disparità di trattamento tra la disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nella quale tale obiettivo risulta perseguito, e quella del licenziamento disciplinare, ove risulterebbe assente. Ma non è così, perché anche nella disciplina del secondo l’obiettivo è ravvisabile nella correlazione della tutela reintegratoria con le puntuali tipizzazioni di condotte comportanti sanzioni conservative da parte dei contratti collettivi. Meglio, ovviamente, era ravvisabile prima che il revirement della Corte di cassazione con le richiamate sentenze, pubblicate circa un mese prima, lo avesse travolto aprendo la via al recupero integrale del criterio di proporzionalità quale guida, per il giudice, nel tracciare il confine fra tutela obbligatoria e reale. Ma, come prima osservato, la sentenza n. 125/2022 della Corte costituzionale era già in nuce nella sentenza n. 59/2021.
Tornata a pronunciarsi sul Jobs Act, nella sentenza n. 183/2022 di poco successiva alla Tavola rotonda di Montepulciano, pur ritenendo sussistente il vulnus lamentato dal giudice a quo in merito all’indennità risarcitoria prevista per i licenziamenti irrogati dai datori di lavoro privi dei requisiti dimensionali richiesti dall’art. 18, St. Lav., la Consulta è tornata all’esercizio del self-restraint astenendosi dal porvi rimedio e limitandosi a rivolgere al legislatore un monito ad intervenire con urgenza per predisporre tutele adeguate.
Per concludere desidero ora tornare sul ruolo della Sezione VI della Corte Suprema cui ho fatto prima menzione a proposito di una specifica vicenda giurisprudenziale. Ogni occasione mi pare infatti opportuna per segnalare i rischi che comporta, per l’esercizio della funzione nomofilattica e per la credibilità stessa della Corte, il ricorso eccessivo a questa formula processuale (ma altresì alle udienze ordinarie in sede camerale) pur finalizzato agli importanti obiettivi del recupero dell’arretrato e del contenimento dei tempi processuali.
Troppo spesso, infatti, vengono così trattate con una certa disinvoltura cause che meriterebbero una maggiore attenzione in pubblica udienza. È questa preoccupazione che mi ha indotto ad annotare un’ordinanza resa dalla Sezione VI apparsami paradigmatica .
Il giudizio verteva tra una società di due soci, con poteri di amministrazione inscindibilmente congiunti, che pretendeva la loro iscrizione all’AGO e l’INPS che la rifiutava. La Corte sul piano processuale ha invertito i termini del contendere e ha trattato la causa come se fosse l’INPS a pretendere la contribuzione e sul piano sostanziale ha accolto la domanda della società ritenendo compatibile con il vincolo di subordinazione la posizione di amministratori unici dei due soci proprio in virtù del loro potere di amministrazione congiunto. Malgrado quindi la limitazione statutaria fosse di tale tenore da escludere che uno dei due soci potesse esercitare il mandato sociale, incluso il potere di supremazia, senza il consenso dell’altro. Credo che ogni ulteriore commento sia superfluo.

 

 

 

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